Giuseppe Sandrini, Manganelli e Leopardi: un modello retorico e morale
Sinestesieonline, a. XI, n.36, maggio 2022
«A me pare che la noia sia della natura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro». Da questa memorabile pagina leopardiana prende avvio l’articolo dedicato nel 1984 da Giorgio Manganelli alle Operette morali, un libro che – dichiara lo scrittore milanese – «non so quante volte ho letto». Il discorso di Tasso «recluso e demente» gli fa provare «una strana sensazione, in cui l’angoscia e la gioia, una lucida gioia teoretica, si mescolano inestricabilmente». Quel libro «fragile e inconsumabile», «che appartiene alla nostra descrizione di noi stessi» sembra un libro «concettoso ed anzi filosofico» – scrive Manganelli – eppure si può leggere «senza riportarne il graffio di una idea». Forse allora, per l’autore che ha teorizzato la letteratura come menzogna, le Operette morali valgono indipendentemente dal pensiero che le pervade, pur esposto «come per parabole»? No, il pensiero è necessario, perché «senza la disperazione filosofica» Leopardi non avrebbe potuto scrivere, non avrebbe potuto far dono della sua «gioia teoretica». Se la riflessione sulla noia del Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare è per Manganelli «estatica e profondamente felice», perché vi si contempla «qualcosa di invisibile a tutti, ma non al misterioso, al martire eletto, cui è concesso di vedere anche l’aria», dire che in essa la disperazione filosofica è «concettualmente irrilevante» suona come una «verità menzognera»: nelle Operette morali la disperazione «agisce come figura retorica chiave», sottraendosi a ogni determinazione di «vero» o di «falso». Solo con un ossimoro («verità menzognera») si può dunque esprimere l’«arguta ed ironica alchimia» per la quale la disperazione leopardiana, prendendo forma letteraria, si fa «gioia verbale» oltre che «teoretica»: come Laura nella poesia di Petrarca è il «centro retorico» che salva dal rischio di un banale «parlare d’amore», così nelle Operette morali il deserto metafisico è la «figura» che traghetta lo scrittore verso «l’insondabile gioia» della sua prosa. È il «deserto felice» della letteratura (secondo ossimoro) ad accogliere Leopardi: il suo destino, condiviso con Pascal, è «l’impossibilità di essere disperati pur abitando il cuore della disperazione». La «terribile ironia» che c’è nel «lottare contemporaneamente con l’estasi e con il nulla» domina le Operette: e Manganelli conclude citandone uno dei momenti più alti, i versi del Coro di morti, dove la «profonda notte» evocata dalle mummie di Federico Ruysch riluce (terzo ossimoro) di «tenebre abbaglianti».
Italo Calvino a Giorgio Manganelli, 16 luglio 1984
Caro Giorgio,
l'articolo di ieri su Leopardi è bellissimo e sento il bisogno di dirtelo. Hai trovato la definizione esatta - come nessuno era riuscito a fare - del rapporto tra quello che Leopardi dice e il piacere che dà a leggerlo, la leggerezza con cui abita e filosofeggia la sua tristezza e noia. Tante volte ho pensato di non poter spiegare - per esempio a uno straniero - la grandezza di L. e che cosa rende le Operette un libro unico e perché non ci si sazia mai di leggerlo - e tu ci sei riuscito con un'evidenza di formulazione che ormai mi sembra diventata la sola cosa che si possa dire. E il parallelo con Petrarca mi pare calzi perfettamente - insomma leggendoti mi pareva d'essere stato a un pelo dall'aver pensato io tutte queste cose e di stare venendo in possesso di qualcosa di mio.
Un caro saluto e buona estate
tuo Calvino
https://machiave.blogspot.com/2015/01/lamore-per-la-vita-in-leopardi.html
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