mercoledì 5 febbraio 2025

Ritratto di Alba Rohrwacher




Clément Ghys
Alba Rohrwacher, la dolcezza di recitare
Libération, 5 ottobre 2015

Ci avevano avvertito in anticipo. «Non è affatto "attrice".» Traduzione: non è noiosa. È stato alla Mostra, all'inizio di settembre. Alba Rohrwacher arriva sulla terrazza dell'hotel Excelsior, punto nevralgico del festival veneziano. Saluta tutti, chiede come andranno l'intervista e la sessione fotografica, non impone nulla. Chiede solo se potrà dare un'occhiata alla foto che ha scelto, ma «è solo per vedere». All'inizio, è in disparte rispetto ai suoi colleghi attori, azionisti maggioritari dei micro-SARL che sono la loro carriera e immagine.

Si nascondeva quasi, abbassando gli occhi, ritraendo leggermente le spalle, come per accoccolarsi nelle pieghe del suo piccolo abito nero. Ma comunque, tutti la guardano. Non provoca una sommossa come potrebbe fare, proprio qui, una Bellucci. Eppure, chi passa si volta, la scruta un po', la riconosce. In Italia, Alba Rohrwacher, 36 anni, è conosciuta. Non proprio - non ancora? - una star, l'industria transalpina non offre più alle sue attrici molti ruoli di catalizzatore per fantasie. Ma è comunque una presenza. Lei vuole fare di tutto per non farsi notare, su questa terrazza soleggiata come nella sua vita quotidiana romana («è così normale. Quando non lavoro, mi riposo, cucino, leggo,passeggio»), è solo lei che si vede veramente nel biotopo dell'attuale cinema italiano. In questi giorni, sugli schermi framcesi è in cartellone coin due film. In Vergine sottogiuramento di Laura Bispuri, è una giovane albanese che, per vivere libera, ha deciso di vivere da uomo, barattando una neo-identità maschile con la promessa di una verginità eterna. Per Marco Bellochio, con cui ha girato molto, appare brevemente come giovane fanatica eccitata in Sangue del mio sangue.

Alba Rohrwacher ha un viso che una certa facilità farebbe qualificare come strano. Ha la pelle traslucida, gli occhi si restringono quando sorride, fa pensare a molte cose: un elfo, un personaggio di Virginia Woolf, un'incarnazione preraffaelita, una figlia nascosta di David Bowie. La cosa più sorprendente di questa giovane donna che parla in un inglese goffo, a volte biforcato in italiano, è lo sfasamento tra l'aspetto da ragazza del suo tempo e la rapidità con cui viene immaginata altrove, in altre epoche. Luca Guadagnino, che ne fece la figlia di Tilda Swinton e Pippo Delbono in Io sono l'amore, dice di lei: «I suoi lineamenti sono perfetti per la macchina da presa. Potremmo guardarla mille volte, ci sarà sempre qualcosa di diverso.» Questa elasticità spiega la sua presenza in Solitudine dei numeri primi e Hungry Hearts, del suo compagno Saverio Costanzo, nel Racconto delle fiabe di Matteo Garrone, nelle Meraviglie della sorella Alice Rohrwacher, in Io sono l'amore. Film d'autore che non hanno altro rapporto tra loro se non la loro nazionalità. Il cinema italiano, «un tempo ucciso da Berlusconi», dice lei, non ha più lo splendore degli anni '50 e '60, ma da qualche anno fa è tornato nel caravanserraglio dei festival. Ci sono (molto) buoni e (molto) cattivi, ma almeno c'è un fremito. E Rohrwacher è in mezzo a tutte queste persone. Nuove voci sono state sentite negli ultimi anni. Dall'esterno c'è molto sostegno. In Italia è più complesso, ci sono ancora problemi economici, di produzione, di distribuzione.»

Lei è affabile, si interessa a voi, chiede quali film abbiamo visto la sera prima, cosa ne pensiamo. Il colloquio potrebbe allungarsi, continuerebbe a parlare così educatamente. Non c'è niente di quello che una tradizionale attrice chiudibile a chiave potrebbe fare, e maneggiare il tennis verbale, oscillando ciò che la disturba in fondo alla corte, agitando con un volano. Eppure non si sa quasi più che cosa chiedere a questa Alba Rohrwacher. La persona è assolutamente simpatica, ma nell'esercizio dell'intervista, se ben curato, se abituato ad un gioco di finzioni, si schiaccia. Non ha formule pronte, né soggetti pre-masticati. La riserva prevale. Risponde raramente alle domande personali, non tanto per mancanza di cortesia quanto per pudore. Preferisce citare i suoi anni di studi al Centro sperimentale di cinematografia, rispettata scuola di cinema, un tempo diretta da Roberto Rossellini, dove alcuni registi italiani andavano a cercare reclute. Lì si appassionò a Cechov «per il suo senso del dettaglio, delle piccole cose, della dolcezza».

Al dunque, è una vera attrice, semplicemente perché non si riesce a immaginarla altrove che su uno schermo, e la persona che è lì, seduta su un divano, potrebbe essere una fidanzata che ci parlerebbe di un'altra, a cui assomiglia. Poi, soprattutto, c'è l'ecosistema: i loghi di marche di champagne o di gioielleria che tappezzano la sala, le riviste che si trascinano sul tavolo, piene di pubblicità per auto e altri sponsor che vogliono a tutti i costi dimostrare che amano il cinema. Tutto questo non aiuta a capire il mistero di un'attrice. Non è molto a suo agio in questo mondo competitivo, dove i contratti pubblicitari creano glamour e tappeti rossi. «Ma tutto questo aiuta a difendere i film, a permettere loro un'esposizione inaudita.»

In fondo è una questione di spazio: né il giornalista né l'attrice sono nel posto giusto per l'incontro. Lei, quasi lo diverte, tanto tutto questo non ha niente a che fare con dove è cresciuta. La madre era italiana, e insegnante, e il padre era un violinista tedesco in cerca di un ritorno alla terra molto seventies. Questo misticismo, questa bionda, fece dire spesso alla giovane donna che non era molto «italiana», come se il paese fosse popolato solo da brune pienotte. La famiglia vive in una fattoria nella rustica Umbria, il padre diventa apicoltore. La sua infanzia sarà evocata dalla sorella Alice nel film Le Meraviglie, premio del Festival di Cannes 2014. Alba Rohrwacher ricorda gli anni trascorsi nei campi, il piccolo cinema locale «che, attraverso i film, [lo] portava in luoghi così lontani dalla [sua] vita di allora». Ci fu la visione, nascosta a 8 anni, del 1900 di Bertolucci, la scoperta di attrici incandescenti come Anna Magnani o Monica Vitti. Probabilmente è lì, in questi sogni adolescenziali, che questa donna quasi muta, che dice «è molto difficile essere guardata, vedere gli occhi degli altri posarsi su di te», trova tutta la sua forza selvaggia di comica, osa fare tutto davanti ad una telecamera. Le attrici sono esseri a parte, e questo è tanto meglio per noi spettatori.

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