venerdì 4 luglio 2014

Robespierre e la monarchia (1789-1792)



Ancora al tempo della discussione sul veto regale nel settembre 1789 nessuno nell'Assemblea nazionale francese metteva in discussione la monarchia (N. Hampson, Robespierre,  Bompiani 1974, p. 67). Gli stessi giacobini erano allora favorevoli come tutti i deputati al mantenimento del re sul trono. Non ci può essere nessuna meraviglia per questo. Più singolare è il fatto che Robespierre abbandonò il carro della monarchia solo dopo l'assalto del popolo alle Tuileries e il conseguente sequestro del re, il 10 agosto 1792. Per questo è stato definito un repubblicano del giorno dopo. L'accusa è fondata, secondo George Rudé, ma non per questo Robespierre mancava di coerenza. Ecco il ragionamento - starei per dire l'arringa difensiva - dello storico in questione: 


Il punto è che per Robespierre la questione di optare per un sistema di governo repubblicano invece che monarchico fu mai una questione di principio. Il principio fondamentale cui egli rimase tenacemente fedele fu la sovranità popolare, il cui esercizio poteva essere favorito, a seconda delle circostanze, dall’una o dall’altra forma di governo. […] Durante la prima fase della rivoluzione, non c’è dubbio a che sistema egli fosse favorevole. “Si può sostenere – chiese retoricamente in uno spassionato discorso da lui tenuto al Club dei giacobini il 10 aprile 1791, - che io desidero rovesciare la monarchia? […] Come se fossi così stupido da desiderare di distruggere il tipo di governo che meglio si accorda con gli interessi di un grande popolo e meglio garantisce i suoi diritti e la sua prosperità; come se io fossi più geloso del governo della Polonia che di quello della Russia o di Venezia […] Non è il re che io temo; non è l’appellativo di re che può esserci funesto; è la costante tendenza ad aumentare il potere arbitrario nelle mani dei ministri”. (G. Rudé, Robespierre, Editori Riuniti 1979,  p. 168).


Nell’aprile 1791 non c’era stata ancora la fuga di Varennes, che si verificò invece nel giugno di quell’anno. Il re tentò di scappare oltre frontiera;  il tentativo fu scoperto quasi per caso e sventato. Allora cominciò per davvero il distacco del popolo dalla monarchia. Il ritorno della famiglia reale alla residenza parigina avvenne tra due ali di folla, in un silenzio glaciale. Robespierre in quel caso tacque per parecchio tempo. Temeva di compiere un passo falso. Si pronunciò poi contro la repubblica, senza per questo accettare la finzione ufficiale del re in fuga contro la sua volontà:


Sono stato accusato di essere repubblicano, mi si è reso un onore troppo grande: non lo sono. Se mi avessero accusato di essere monarchico, mi avrebbero disonorato: non sono neppure questo”. (13 luglio 1791, discorso alla Costituente).

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Discours contre le véto royal, absolu ou suspensif, 21 septembre 1789

Robespierre era un fautore della monarchia costituzionale e non certo della monarchia assoluta, come a volte si legge su internet.

Celui qui dit qu'un homme a le droit de s'opposer à la Loi, dit que la volonté d'un seul est au-dessus de la volonté de tous. Il dit que la nation n'est rien, et qu'un seul homme est tout. S'il ajoute que ce droit appartient à celui qui est revêtu du pouvoir exécutif, il dit que l'homme établi par la Nation, pour faire exécuter les volontés de la Nation, a le droit de contrarier et d'enchaîner les volontés de la Nation ; il a créé un monstre inconcevable en morale et en politique, et ce monstre n'est autre chose que le veto royal.

Discours de Robespierre sur le droit de guerre accordé au roi, 15 mai 1790

Si vous décidez de cette question, conformément aux prétentions de la cour, vous devez craindre qu'une guerre étrangère ne soit une machination formée par les cours ou par les cabinets ministériels contre les nations, dans le moment où la nôtre a reconquis sa liberté, et où les autres sont peut-être déjà tentées d'imiter ce grand exemple.



Sur l'inviolabilité royale, 14 juillet 1791
Le crime légalement impuni est en soi une monstruosité révoltante dans l'ordre social, ou plutôt il est le renversement absolu de l'ordre social, si le crime est commis par le premier fonctionnaire public, par le magistrat suprême. Je ne vois là que deux raisons de plus de sévir : la première que le coupable était lié à la patrie par un devoir plus saint ; la seconde que comme il est armé d'un grand pouvoir, il est bien plus dangereux de ne pas réprimer ses attentats.






 

giovedì 3 luglio 2014

La prolungata assenza del padre

Silvia Ronchey
Telemaco, mille geniali metafore
La Stampa, 3 luglio 2014

Transfert geniale questo di Matteo Renzi con Telemaco, che l’ispirazione sia stata mediata dalla musa di uno psicanalista lacaniano, come qualcuno ha ipotizzato su twitter, o gli sia venuta direttamente da Omero, come si direbbe dalle altre citazioni classiche intessute nel discorso preparato per iscritto, ma tenuto a braccio, in cui ha esposto i suoi e nostri problemi all’assemblea dell’europarlamento un po’ come Telemaco nel palazzo di Nestore a Pilo nel terzo libro dell’Odissea.
Alto e squadrato, eloquente e conciso, come figlio di Ulisse e rappresentante dell’evocata «generazione Telemaco» Renzi funziona nell’immagine anche meglio dell’efebico Telemaco televisivo della nostra, se non sua, infanzia.
Soprattutto funziona diabolicamente l’immagine di un’Italia-Itaca in cui anche il locale parlamento, che Telemaco presiede all’inizio del secondo libro, è sopraffatto dai Proci, dialettici e scostumati divoratori dell’erario cittadino; di un’Italia-Penelope che tesse e stesse la sua tela, disperata e paziente, pur di non cedere a nessuno di loro la mano e la corona dello sposo Ulisse; il quale però è da vent’anni assente, latitante, morto o disperso in mare, e non sa o forse non vuole tornare.
Ma Atena, dea della ragione, affianca Telemaco e lo rassicura, gli dice di darsi da fare, di muoversi, di viaggiare. E’ quella che gli antichisti conoscono come la Telemachia. E fatto sta che al suo termine il dinamismo del figlio e i rischi che da ogni parte si attira convincono gli dèi dell’Olimpo a far sì che il padre lontano lasci Calipso e intraprenda davvero il ritorno in patria.
Siamo nel quinto libro e ce ne vorranno altri diciannove prima che Ulisse torni, uccida i Proci e riconquisti Itaca. Se Renzi si propone come Telemaco, il percorso che propone al Parlamento europeo non è certo breve né tanto meno facile - è un’odissea - e il messaggio che lancia all’inizio del semestre di presidenza italiana non è né superficiale né ottimistico, ma volutamente intriso di antica, dolente e anche umile lucidità mediterranea.

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Battista Gardoncini

Lo ammetto. Ieri mi sono dimenticato del più importante avvenimento del secolo, il discorso di Renzi agli europei. Non ero tra le moltitudini inchiodate allo schermo come per le partite dei mondiali. Dunque questa mattina, leggendo i giornali on line, non riuscivo a capire perché mai tutti scomodassero il povero Telemaco nel raccontare la sua mirabile prestazione. Poi l'ho capito. Purtroppo.

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Jena
03/07/2014 

Eredità

Però Telemaco non rottamò Ulisse.

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Enrico Manera

non volevo, ma non posso esimermi di blaterare qualche cosa sul mito, anche io: tutti 'sti lacaniani dell'ultimo minuto incominciano a darmi un po' sui nervi.

Penso che Telemaco comunque continua a essere subordinato, porta le armi del padre, deve aspettare che quello finisca di farsi gli affari suoi, deve sbattersi per lui, prendersi cura della madre, coadiuvare il ripristino del potere del padre e infine mettersi da parte in placida attesa a fianco del potere restaurato. Continuando a essere figlio e in attesa che venga il suo turno e l'eredità.

Con il fatto che Enea è meglio se proprio dobbiamo indicare qualcuno che si assume responsabilità, io continuo a tifare Prometeo.

Copri il tuo cielo, Giove,
col vapor delle nubi!
E la tua forza esercita,
come il fanciullo che svetta i cardi,
sulle querce e sui monti!
Ché nulla puoi tu
contro la mia terra,
contro questa capanna,
che non costruisti,
contro il mio focolare,
per la cui fiamma tu
mi porti invidia.

Io non conosco al mondo
nulla di più meschino di voi, o dèi.
Miseramente nutrite
d’oboli e preci
la vostra maestà
ed a stento vivreste,
se bimbi e mendichi
non fossero pieni
di stolta speranza.

Quando ero fanciullo
e mi sentivo perduto,
volgevo al sole gli occhi smarriti,
quasi vi fosse lassù
un orecchio che udisse il mio pianto,
un cuore come il mio
che avesse pietà dell’oppresso

Chi mi aiutò
contro la tracotanza dei Titani?
Chi mi salvò da morte,
da schiavitù?
Non hai tutto compiuto tu,
sacro ardente cuore?
E giovane e buono, ingannato,
il tuo fervore di gratitudine
rivolgevi a colui
che dormiva lassù?

Io renderti onore? E perché?
Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?
Hai mai calmato le lacrime
di me ch’ero in angoscia?

Non mi fecero uomo
il tempo onnipotente
e l’eterno destino,
i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse
che avrei odiato la vita,
che sarei fuggito nei deserti
perché non tutti i sogni
fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini
a mia immagine e somiglianza,
una stirpe simile a me,
fatta per soffrire e per piangere,
per godere e gioire
e non curarsi di te,
come me.

(trad. it. di Giuliano Baioni, in Goethe, Inni, Einaudi 1967)

martedì 1 luglio 2014

Bardamu scopre la guerra

Louis Ferdinand Céline
Viaggio al termine della notte
traduzione di Ernesto Ferrero

Uno è vergine dell'Orrore come lo è della voluttà.
Come me lo potevo immaginarmelo io 'sto orrore lasciando Place Clichy? Chi avrebbe potuto
prevedere prima d'entrare davvero in guerra, tutto quel che conteneva la sporca anima eroica e
fannullone degli uomini? Adesso, ero preso in questa fuga di massa, verso l'assassinio di gruppo,
verso il fuoco...
Veniva dal profondo ed era arrivato.
Il colonnello era sempre lì che non faceva una piega, lo guardavo ricevere, sulla scarpata, le
letterine del generale che poi strappava a pezzettini, dopo averle lette senza fretta, tra le pallottole.
In nessuna di quelle c'era dunque l'ordine secco di fermare quella vergogna? Dunque non gli
dicevano dall'alto che c'era uno sbaglio? Un errore riprovevole? Un equivoco? Che si erano
sbagliati? Che erano manovre per ridere quelle che avevano voluto fare, non degli assassinii! Ma
no! « Avanti, colonnello, siete sulla buona strada!».
Ecco senza dubbio quel che gli scriveva il generale des Entrayes, della divisione, nostro capo di
tutti, di cui riceveva una busta ogni cinque minuti, attraverso un agente di collegamento, che la
paura rendeva ogni volta un po' più verde e diarroico.
Ne avrei fatto un mio fratello di spavento di quel ragazzo lì! Ma si aveva il tempo di fraternizzare
nemmeno.
Dunque niente errori? Quello spararsi addosso che si faceva, così, senza nemmeno vedersi, non
era proibito! Quello faceva parte delle cose che si possono fare senza meritarsi una bella sgridata.
Era perfino riconosciuto, incoraggiato senza dubbio da gente seria, come le lotterie, i
fidanzamenti, la caccia coi cani!...
Niente da dire.
Di colpo scoprivo la guerra tutta intera.
Ero sverginato.
Bisogna essere all'incirca solo davanti a lei come lo ero io in quel momento per vederla bene la
carogna, di fronte e di profilo.
Avevano appena appiccato la guerra tra noi e quelli di fronte, e adesso quella bruciava! Come la
corrente tra i due carboni, nella lampada ad arco.
E non era vicino a spegnersi il carbone! Ci saremmo passati tutti, il colonnello come gli altri,
anche se sembrava un gran volpone, e la sua carnaccia non avrebbe fatto più arrosto della mia
quando la corrente di fronte gli fosse passata tra le due spalle.
Ci sono un sacco di modi di essere condannato a morte.
Ah! Cosa non avrei dato in quel momento per essere in prigione invece d'esser lì, come un
cretino! Per avere, per esempio, quand'era così facile, con un po' di previdenza, rubato qualcosa,
da qualche parte, quando c'era ancora tempo.
Si pensa a niente! Dalla prigione, ci esci vivo, dalla guerra no.
Tutto il resto, sono parole.
Se solo avessi avuto ancora tempo, ma non ne avevo più! C'era più niente da rubare! Come
sarebbe stato bello in una piccola prigione tranquilla, ecco cosa mi dicevo, dove le palle non
passano! Passano mai! Ne conoscevo una bella pronta, al sole, al caldo! In un sogno, quella di
SaintGermain per l'esattezza, così vicina alla foresta, la conoscevo bene, passavo spesso di là, un
tempo.
Come si cambia! Ero un bambino allora, mi faceva paura la prigione.
E che non conoscevo ancora gli uomini.
Non crederò più a quello che dicono, a quello che pensano.
E degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre.
Quanto tempo doveva durare il loro delirio, perché si fermassero stremati, alla fine, 'sti mostri?
Quanto tempo poteva durare un accesso come quello? Mesi? Anni? Quanto? Forse fino alla
morte di tutti quanti, di tutti i matti? Fino all'ultimo? E poiché gli avvenimenti prendevano quel
giro disperato mi decidevo a rischiare il tutto per tutto a tentare l'ultimo passo, il supremo, a
cercare, io, tutto solo, di fermare la guerra! Almeno in quell'angolo dove stavo.
Il colonnello passeggiava a due passi.
Gli avrei parlato.
Mai, lo avevo fatto.
Era il momento di osare.
Là dove noi stavamo non c'era quasi più niente da perdere. « Cosa volete? », mi avrebbe chiesto
lui, immaginavo, sicuramente molto sorpreso dalla mia audace interruzione.
Allora gli avrei spiegato le cose come le vedevo io.
Si sarebbe visto quel che ne pensava lui.
Spiegarsi è tutto, nella vita.
In due si riesce meglio che da soli.
Stavo per fare quel passo decisivo quando, in quello stesso istante, arrivò verso di noi con passo
ginnico, stremato, dinoccolato, un cavaliere a piedi (come allora si diceva), con l'elmo rovesciato
in mano, come Belisario, e poi in più tremante e tutto imbrattato di fango, il viso ancora più
verdastro di quello dell'altro portaordini.
Straparlava e sembrava provare come un male inaudito, quel cavaliere, a uscire da una tomba e
averne una gran nausea.
Dunque non gli piacevano nemmeno a lui le pallottole, al fantasma? Le prevedeva come me? «
Cos'è? » lo fermò secco il colonnello, brutale, infastidito, gettando su quello spettro una specie di
sguardo d'acciaio.
Vederlo così l'ignobile cavaliere in una tenuta tanto poco regolamentare, e tutto disfatto
dall'emozione, questo lo crucciava parecchio il nostro colonnello.
Gli piaceva proprio per niente la paura.
Era evidente.
E poi quell'elmo in mano soprattutto, come una bombetta, finiva per essere del tutto fuori posto
nel nostro reggimento d'attacco, un reggimento che si lanciava nella guerra.
Aveva l'aria di salutarsela lui, 'sto cavaliere a piedi, la guerra. arrivando.
Sotto quello sguardo di riprovazione, il messaggero vacillante si rimise sull'attenti, i mignoli sulla
cucitura dei pantaloni, come si fa in quei casi.
Oscillava anche, irrigidito, sull'argine, il sudore che gli colava lungo la giugulare, e le mascelle
tremavano così forte che mandava dei gridolini abortiti, come un cagnetto che sogna.
Non si poteva capire se voleva parlarci o se piangeva.
I nostri tedeschi accovacciati in fondo alla strada avevano giusto cambiato strumento.
E con la mitragliatrice che adesso continuavano le loro scemenze; ne scrocchiavano come dei
grossi pacchetti di zolfanelli e tutt'intorno a noi arrivavano a volo degli sciami di palle rabbiose,
tignose come vespe.
L'uomo riuscì comunque a cavarsi di bocca qualcosa d'articolato.
«Il maresciallo d'alloggio Barousse è stato ucciso, colonnello», disse lui tutt'a un tratto.
- E allora? - E stato ucciso mentre andava a cercare il furgone del pane sulla strada delle étrapes,
colonnello! - E allora? - E stato dilaniato da una granata! - E allora, dio boia! - Ecco lì!
Colonnello...
- E tutto? - Sì, è tutto, colonnello.
- E il pane? - domandò il colonnello.
Quello fu la fine del dialogo perché mi ricordo bene che ha avuto il tempo di dire proprio: «E il
pane?».
E basta.
Dopo, nient'altro che fuoco e poi rumore insieme.
Ma proprio uno di quei rumori che uno non crederebbe mai possano esistere.
Ci ha riempito a tal punto gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca, all'improvviso, il rumore, che
ho creduto proprio che era finita, che ero diventato fuoco e rumore io stesso.
E invece no, il fuoco se n'è andato, il rumore mi è rimasto a lungo in testa, e poi le braccia e le
gambe che tremavano come se qualcuno ti scuotesse da dietro.
Avevano l'aria di lasciarmi, e poi a ogni modo sono restati i miei arti.
Nel fumo che pungeva gli occhi ancora per un bel po', l'odore acuto della polvere e dello zolfo ci
restava come per uccidere le cimici e le pulci della terra intera.
Immediatamente dopo, ho pensato al maresciallo d'alloggio Barousse che era andato in pezzi
come l'altro ci aveva raccontato.
Era una buona notizia.
Tanto meglio! ti ho pensato subito io: «Una grandissima carogna di meno al reggimento!».
Aveva voluto spedirmi al consiglio di disciplina per una scatola di conserva. «A ciascuno la sua
guerra», mi son detto io.
Da quel lato lì, bisogna convenirne, aveva l'aria di servire a qualcosa la guerra! Ne conoscevo
proprio ancora tre o quattro al reggimento, dannati fetenti che li avrei proprio volentieri aiutati a
trovare una granata come Barousse.
Quanto al colonnello, a lui, non gli volevo del male.
Anche lui però era morto.
Non lo vidi più, di colpo.
E che era stato dislocato sulla scarpata, allungato sul fianco dall'esplosione e proiettato fin nelle
braccia del cavaliere a piedi, il messaggero, finito anche lui.
Si abbracciavano tutti e due per il momento e per sempre, ma il cavaliere non aveva più la testa.
Nient'altro che un'apertura sopra il collo, con del sangue dentro che borbottava con dei gluglù
come la marmellata nella pentola.
Il colonnello aveva il ventre aperto, faceva una brutta smorfia.
Aveva dovuto fargli male quel colpo lì il momento che era arrivato.
Tanto peggio per lui! Se fosse partito con le prime palle, quello non gli sarebbe capitato.
Tutta quella carne sanguinava insieme moltissimo.
Dei colpi di granata scoppiavano ancora a destra e a sinistra della scena.
Ho lasciato quei posti senza insistere, tutto felice di avere un così bel pretesto per svignarmela.
Canticchiavo perfino un briciolino, barcollando, come quando si è finita una buona seduta di
canottaggio e si hanno le gambe un po' strane. «Una sola granata! Se ne sistemano in fretta di
cose con una sola granata», mi dicevo io. «Ah! di' un po'! che mi ripetevo tutto il tempo.
Ah! di' un po'...» Non c'era più nessuno in fondo alla strada.
I tedeschi se n'erano andati.
Però avevo imparato in fretta la mossa di non camminare d'ora in poi se non dietro il riparo degli
alberi.
Avevo fretta di arrivare al campo per sapere se c'erano degli altri del reggimento che erano stati
uccisi in ricognizione.
Ci devono anche essere dei bei trucchi, mi dicevo ancora, per farsi prendere prigioniero!...

http://rivistatradurre.it/2011/05/confesso-ho-tradotto-celine-e-lo-rifarei/