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venerdì 10 gennaio 2014

Sull'Europa. Quello che Rodotà non dice

Stefano Rodotà ha scritto e pubblicato ieri un lungo articolo sulla Repubblica. Il tema è lo stato attuale dell'Europa, intendendo per Europa le istituzioni comunitarie e il loro rapporto con i cittadini. Si parte dal deficit di legittimità costituzionale per arrivare al rimedio, individuato nella rivalutazione dei diritti contro i sacrifici. Insomma per salvare l'Europa sarebbe necessario uscire dalle politiche di austerità. Cambiare gli indirizzi di governo per ritrovare e porre al centro la questione dei diritti. C'è qualcosa di riduttivo, di gravemente riduttivo, in un progetto simile. Prima ancora dei diritti, quel che manca è la loro garanzia ultima, il fondamento popolare della sovranità. Rodotà prende il discorso alla larga invocando in apertura Paul Hazard e la crisi della coscienza europea intorno al 1700. In fatto di diritti, però, come non ricordare la dichiarazione del 1789? All'articolo 1, c'era l'uguaglianza tra gli uomini, "tutti gli uomini nascono e restano liberi ed uguali nei diritti". Punto ribadito all'articolo 2 ("Lo scopo d'ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo vale a dire la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione"). Subito dopo c'era il riferimento all'elemento costitutivo del potere destinato a garantire il rispetto delle regole: "Il principio d'ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione, nè alcun corpo o individuo può esercitare un'autorità che non emani espressamente da quella". Stessa cosa nella dichiarazione di indipendenza sottoscritta e approvata a Filadelfia nel 1776: "per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati". Troppo a lungo il funzionalismo burocratico ha preso il posto della legittimazione democratica per le istituzioni europee. Non basta eleggere il parlamento europeo a suffragio diretto. Ci vorrebbe un governo comunitario espresso dalla rappresentanza popolare e non, per delega, dagli Stati nazionali. Qui è Rodi, qui salta. Senza tanti giri di parole. 
Stefano Rodotà 
Il pensiero debole dell’Europa che si accontenta
la Repubblica, 10 gennaio 2013
Nel suo gran libro su La crisi della coscienza europea dal 1680 al 1715, Paul Hazard ebbe a definire l’Europa come “un pensiero che mai si accontenta”. Oggi, prigioniera di una crisi senza precedenti, l’Unione europea si accontenta di politiche economiche restrittive, quasi una frontiera invalicabile. Questa è l’Europa degli anni che viviamo. Nella quale sono deboli i tentativi di colmare il deficit di democrazia segnalato da Jacques Delors. Ed essa è scivolata verso un deficit di legittimità, che è alla base della crescente sfiducia dei cittadini, delle spinte verso la rinazionalizzazione, dell’abbandono di valori e principi dell’Unione come accade in Ungheria.
Vi era stato un momento in cui questo rischio era stato individuato, e s’era imboccata la via per contrastarlo. Nel 1999, il Consiglio europeo aveva aperto una fase costituente, affidando ad una Convenzione il compito di scrivere una carta dei diritti. La ragione di questa scelta era netta: “La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione”. Si manifestava così la consapevolezza che la costruzione dell’Europa affidata solo al mercato avesse esaurito le sue risorse.
Eche la sua piena legittimità esigesse ormai una centralità dei diritti. Ritroviamo qui l’eco lontana dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “la società nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti, e non è determinata la divisione dei poteri, non ha Costituzione”.
Quel che sta accadendo nell’Unione europea è appunto questo — una decostituzionalizzazione. Il suo sistema è stato amputato della Carta dei diritti fondamentali, del suo Bill of Rights,che pure, com’è scritto nell’articolo 6 del Trattato di Lisbona, “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Cogliendo questo spirito, addirittura quando la Carta non era vincolante, l’allora presidente Romano Prodi dichiarò subito che “Parlamento e Commissione hanno già fatto sapere che intendono applicare integralmente la Carta”. Proposito ribadito e reso più impegnativo da successive comunicazioni della Commissione.
Oggi l’orizzonte è mutato, l’Unione agisce come se la Carta non vi fosse, nega ai cittadini il valore aggiunto ad essa affidato proprio per acquisire legittimità attraverso la loro adesione, e muta i cittadini da attori del processo europeo in puri spettatori, impotenti e sfiduciati di fronte all’arrivo da Bruxelles di imposizione di sacrifici e non di garanzie dei diritti. V’è in tutto questo una contraddizione, un abbandono della logica che volle il passaggio dell’espressione “Mercato unico” a “Unione europea”, che avrebbe dovuto avvicinare istituzioni e cittadini, e questi tra loro. E vi è pure un abbandono di quanto è scritto nel Preambolo della Carta, dove si afferma l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”.
Una “costituzione finanziaria” ha sostituito tutto questo, e dunque da qui bisogna ripartire, anche perché si è diffusa la consapevolezza dei guasti provocati da una sua assunzione acritica. Questo dovrebbe essere il tema centrale delle imminenti elezioni europee. Altrimenti finirà che, sul versante degli europeisti, prendano il sopravvento le lamentazioni contro i populismi antieuropei, quelli che l’Economist chiama la “Europa dei Tea Parties”, mentre bisogna guardare a fondo nelle loro ragioni e produrre gli anticorpi necessari. E questo può avvenire solo se si ricompone il contesto costituzionale europeo, reintegrandolo con la Carta, anche per riprendere un diverso filo della stessa discussione economica. Così acquisterà chiarezza anche l’obiettivo di avere più Europa politica. Per fare che cosa? Rendere ancora più stringente la logica economica? O ridare fiato ad un pensiero che non si accontenta di questo inquietante riduzionismo?
Partire dall’Europa, allora, non è un parlar d’altro, un tentativo di eludere le specifiche questioni italiane. È un passaggio obbligato proprio per definire meglio le responsabilità nazionali, oggi frammentate tra difficoltà ed egoismi dei singoli Stati, per affrontare senza reticenze non l’antieuropeismo spicciolo di chi cercherà di lucrare qualche consenso alle prossime elezioni, ma l’obiezione radicale di chi, da ultimo Wolfgang Streeck, vede ormai nell’Unione europea l’epicentro della “colonizzazione capitalistica”. La replica di Juergen Habermas a questa tesi può anche apparire non del tutto convincente, ma coglie un punto di verità quando segnala il rischio di “una rinuncia disfattista al progetto europeo”, che non aprirebbe la via a una Europa rinazionalizzata, ma manterrebbe al centro proprio le distruttive dinamiche della pura austerità. L’ipotesi è quella di democratizzare il sistema delle istituzioni europee, intervenendo sui trattati. Ma questa strategia sarebbe monca e debole se rimanesse fuori la revisione della nuova costituzione economica e, soprattutto, se si ignorasse il grande conflitto sui diritti che ha già devastato l’Europa accrescendo distanze e diseguaglianza, impoverendo intere popolazioni, e che è oggi l’ostacolo vero per la creazione di un “popolo europeo”. Se vi è un errore nelle ripulse d’una sinistra estrema, altrettanto rischiosa è l’incapacità dell’altra sinistra di considerare ineludibile questo tema.
Esiste ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali. Proprio per questo l’attenzione alla sola dimensione dell’economia sarà insufficiente se non sarà reintegrata in questo più vasto contesto.
Qui si coglie il nesso tra Europa e Italia, dove troppi continuano a separare le due questioni e dove è in atto il tentativo di scorporare dalla Costituzione tutta la parte relativa ai diritti. Si è manifestata una critica irridente i difensori dei diritti fondamentali, sfruttando una colorita battuta di Roberto Benigni sulla “Costituzione più bella del mondo”. In discussioni impegnative si dovrebbero frequentare anche altre fonti. Massimo Severo Giannini, ad esempio, che definì “splendida” la prima parte; o Leopoldo Elia, che nella Costituzione vide “una delle migliori prove del costituzionalismo europeo, soprattutto per la completezza e lo spessore della dichiarazione dei diritti civili, sociali e politici”. Questo non è trionfalismo, ma l’indicazione di una politica costituzionale che, proprio in vista di riforme della seconda parte, non può abbandonare i principi definiti nella prima. Unione europea e Italia hanno il medesimo problema di ricomposizione dell’ordine costituzionale come condizione della sopravvivenza della stessa democrazia.
A tutti gli europei, e ai loro governanti, dovrebbe essere imposta la lettura dell’ultima pagina dell’Omaggio alla Catalogna di George Orwell, con la straordinaria descrizione dell’inconsapevolezza inglese verso i segnali dell’imminente guerra mondiale. Rassicurati allora nelle loro piccole certezze (“non vi preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casa domattina e ilNew Statesman uscirà di venerdì”), chiusi oggi i paesi più ricchi in una insolente rottura d’ogni solidarietà e progetto comune, proprio così si erodono le basi di una “Unione” ben più degli antieuropeisti di professione.
  

giovedì 29 agosto 2013

L'Europa tedesca

ULRICH BECK, Europa sull'orlo del collasso
Scritto da Benedetto Vecchi, il manifesto
Giovedì 29 Agosto 2013 07:33 -
Un'intervista con il sociologo tedesco, che sarà fra gli ospiti del Festival della Mente di Sarzana. «Una visione apocalittica della crisi del capitalismo rafforza il modello neoliberista e lo blinda, negando così le possibilità di trasformarlo»

L'Europa parla sempre più tedesco. È il commento che, come un virus, si è diffuso nel vecchio continente. Attesta l'indubbia egemonia di Berlino nel definire le politiche dell'Unione Europea. A questo tema lo studioso tedesco Ulrich Beck ha dedicato un saggio - Europa tedesca, Laterza. Ne ha scritto su queste pagine Marco Bascetta il 31 maggio -, nel quale analizza la politica portata avanti da Angela Merkel. Beck non esita a criticarla e a mettere in evidenza il doppio regime seguito da Berlino: neoliberista in Europa, moderatamente in difesa del modello renano in casa.
Ma la sua riflessione si concentra anche sul fatto che la crisi economica ha accelerato la formazione di movimenti sociali che si muovono certamente sul piano locale, nazionale, ma all'interno di una cornice globale. O come preferisce qualificarla: cosmopolita. Da qui la consapevolezza di una crescente «provincializzazione» del Vecchio Continente all'interno di una geografia del potere mondiale che vede ormai protagonisti paesi come l'India, la Cina, il Brasile.
Allo stesso tempo individua nei movimenti sociali l'unico antidoto possibile per le forme di nazionalismo che carsicamente ritorna ad occupare la scena nei paesi europei.
Ulrich Beck non è nuovo nell'analisi di come la «società del rischio» - espressione da lui coniata nel tramonto del Novecento - imponga di fare i conti con l'interdipendenza del capitalismo mondiale e con le ambivalenze dei fenomeni sociali emergenti nel capitalismo neoliberista. Esercita un cauto ottimismo della ragione e della volontà, proprio a partire da quei movimenti sociali che ormai sono diventati una costante nell'agenda politica globale. Sia ben chiaro, il teorico tedesco non propone nessun superamento del capitalismo. Il suo punto di vista è semmai da inscrivere nei tentativi di innovazione del modello sociale che si è soliti definire come il capitalismo del welfare state. Ma esprime posizioni che lo rendono un «compagno di strada» per chi invece opera per un superamento dell'attuale regime di accumulazione capitalista. Sapendo però che per superarlo non c'è spazio per un ritorno nostalgico allo Stato-nazione, considerato a sinistra come l'ultima linea di resistenza al capitalismo glocale.
L'intervista affronta i temi che il teorico tedesco proporrà il primo settembre, in qualità di ospite al Festival della mente di Sarzana.
Nel suo ultimo libro - Europa tedesca, Laterza - concentra la sua analisi sull'egemonia tedesca nel definire la politica economica e sociale dell'Unione Europea. Tuttavia, in Germania, il welfare state - e i corrispondenti diritti sociali - è un modello sociale e politico che, seppur modificato nel corso degli anni Ottanta e Novanta, continua a essere un punto fermo dell'agenda politica. Questo è però in contraddizione con la cornice neoliberista che racchiude invece le politiche economiche europee. Come spiega questa contraddizione?
La politica di Angela Merkel è piena di contraddizioni. Sul piano europeo, vuol imporre un'agenda politica neoliberale ai paesi mediterranei e alla Francia. Sul piano nazionale attua, invece, una politica moderatamente socialdemocratica. Un caso esemplare di questo doppio regime viene dalla difesa del settore dell'acciaio tedesco: un protezionismo che tende a difendere i livelli occupazionali che è in contraddizione con il credo del libero mercato che plasma invece le politiche economiche degli altri paesi. Potremmo affermare che l'ortodossia neoliberale vale come principio regolatore, ma che può conoscere deroghe a livello domestico. Un'altra contraddizione: Angela Merkel persegue una strategia che delega alla Banca centrale europea la gestione della crisi economica che ha colpito molti paesi del vecchio continente. Questo non significa tuttavia che la Germania sia insensibile al destino dell'Europa. La sua vocazione europea emerge proprio dal tentativo di condizionare la politica dell'Ue affinché non accada quel big bang del Vecchio Continente che molti analisti hanno visto profilarsi all'orizzonte.
In Europa assistiamo, però, a una crisi del processo di unificazione politica che coincide con la cosiddetta crisi del debito sovrano. E questo avviene proprio quando sono pochi gli studiosi o i leader politici che mettono in discussione l'ortodossia neoliberale....
C'è una significativa distanza tra la visione dell'Europa delle élite continentali e la percezione che ne hanno i popoli europei. La stragrande maggioranza dei governi del Vecchio Continente impone politiche di austerità in nome degli imperativi del mercato che hanno nell'Unione europea un solerte guardiano. Spesso la retorica dominante afferma che non «c'è alternativa» a quegli imperativi. I popoli europei vedono così svanire ogni possibilità di poter influire, condizionare le politiche stabilite in nome del libero mercato.
L'austerità è quindi vista come un marchingegno che li rende ostaggio e sudditi di qualcosa di lontano dalla loro vita. La distanza che emerge da quanto impongono le élite e i bisogni dei popoli spiega ad esempio la genesi di molti movimenti sociali di protesta in Europa, Nordafrica, ma anche, come è accaduto recentemente, in Turchia. È una distanza che non va sottovalutata, perché potrebbe portare alla morte del processo di unificazione politico dell'Europa.
Recentemente, il filosofo francese Etienne Balibar ha sostenuto che in Europa il potere politico ha imposto una «rivoluzione dall'alto» per trovare una via d'uscita neoliberale dalla crisi del neoliberismo. Balibar si riferiva all'esperienza dei governi tecnici, come in Italia, o al commissariamento di alcuni governi dell'Europa mediterranea, come in Grecia. Stiamo dunque assistendo a prove tecniche di una rivoluzione dall'alto?
Non sono sicuro di essere d'accordo con questa analisi. Sono invece interessato a capire come il sotterraneo nazionalismo che vediamo manifestarsi carsicamente possa mettere in discussione l'Unione Europea. Sono cioè convinto che il nazionalismo sia il nemico non tanto dell'Europa, bensì degli interessi dei paesi europei. La difesa degli interessi dell'Italia, ad esempio, può rafforzarsi solo in un ambito europeo e non in una politica nazionalista. E questo vale per tutti i paesi europei, non solo per il vostro paese. Per me, sovranità significa esercitare un potere all'interno di una cornice sovranazionale. E quel potere, in Europa, lo puoi esercitare solo se accetti lo spazio europeo come il miglior contesto nel quale far valere le tue ragioni nazionali per quanto riguarda le politiche ambientali, l'immigrazione, la disoccupazione.
Vorrei insistere sulle forme politiche che si stanno sviluppando durante la crisi del debito sovrano. Abbiamo visto prima profilarsi il governo dei tecnici, il commissariamento di alcuni paesi. Ora assistiamo a governi di grande coalizione, come quello italiano delle larghe intese. Dal 2008 in poi abbiamo anche notato il manifestarsi di movimenti sociali che hanno espresso una critica e una opposizione alle politiche di austerità. Abbiamo osservato movimenti di difesa dei cosiddetti beni comuni, movimenti per interventi contro una disoccupazione e una precarietà sempre più diffusi. Cosa ne pensa di una visione politica che crede nell'Europa, ma che è contro l'Unione europea?
Da tempo, ho sviluppato una prospettiva cosmopolita che considera l'Europa solo come componente del pianeta Terra. Tuttavia, noi europei siamo chiamati a costruirla. L'obiettivo è realizzarla dal basso e non dall'alto, come invece è accaduto finora. Dobbiamo cioè costruire una società europea che contrasti e affronti i rischi di un capitalismo che, se lasciato a se stesso, corrode il legame sociale e mette a repentaglio le misure di protezione, pazientemente costruite in passato. Le politiche di austerità sono state presentate come misure necessarie per fronteggiare la crisi finanziaria, ma alimentano diseguaglianze sociale, favoriscono il salvataggio delle banche responsabili di quella stessa crisi finanziaria che legittima le politiche di austerità.
Molti uomini e donne vedono nell'austerità un vero e proprio mostro che divora le loro vite. Di fronte a questa situazione, assume nuova centralità l'antico termine «comunità». Al cospetto del dominio dell'individuo senza legami e responsabilità verso gli altri, la solidarietà che si intravede dietro il richiamo alla comunità ha un forte potere attrattivo. Rispetto alla sua domanda, potrei dire che abbiamo bisogno di maggiore sicurezza sociale e dunque di più Europa, perché è il contesto politico che la può favorire.
Nella società del rischio, il possibile collasso dell'economia può essere vista come un'opportunità per trasformare la realtà. Recentemente, tuttavia, molti opinion makers parlano di una possibile apocalisse del capitalismo. Le cosa pensa di questa «profezia»?
Non sono d'accordo con loro. E la realtà comunque non è così semplice così come la descrivono. Dobbiamo invece fare i conti con la complessità e l'ambivalenza della società del rischio. Quando ho cominciato a parlarne, mi sono concentrato sull'interdipendenza di alcuni fenomeni. E sulla loro ambivalenza. Successivamente, ho posto al centro della mia riflessione, il cosmopolitismo, che è una visione della realtà pregna di speranza nel poter cambiare la realtà.
Il cosmopolitismo politico basato su una società civile globale può prevenire gli effetti collaterali - il cambiamento climato, le migrazioni, le diseguaglianze sociali - insiti nello sviluppo capitalistico. Il cambiamento climatico, ad esempio, impone come realistico il motto «cooperare o morire». In questo caso, il cosmopolitismo è un antidoto alla guerra e una via per superare il modello neoliberista e trovare nuove forme di responsabilità sovranazionali. Allo stesso tempo rafforzerebbe le richieste di maggiore di giustizia sociale e eguaglianza avanzate dai paesi «poveri». In altri termini, una visione apocalittica della crisi del capitalismo rafforza il modello neoliberista, lo blinda rispetto le possibilità di trasformarlo.
Impero, neoimperialismo, governo multilivello: sono queste le forme politiche usate per dipingere la globalizzazione. Ma corrono il rischio di fornire una rappresentazione statica del potere mondiale. Ci sono paesi - l'India, la Cina, il Brasile, la stessa Russia - che mettono in discussione gli assetti di potere globale. Qual è secondo lei la nuova geografia del potere che sta emergendo?
Parto dal presupposto che dobbiamo guardare all'Europa con gli occhi degli altri per avere chiara la prospettiva di ciò che è accaduto e che accadrà. Non c'è stato solo uno spostamento del potere a favore di alcuni paesi postcoloniali (fattore che si riflette nella partecipazione di alcuni di loro ai summit del G-20). Abbiamo infatti assistito a uno spostamento del centro di gravità del potere economico dall'Atlantico al Pacifico. E, cosa meno prevedibile, è la perdita del monopolio del dollaro negli affari. Le riserve federali non costituiscono più l'alfa e l'omega degli scambi commerciali perché si stanno sviluppando forme bilaterali di scambi economici che fanno leva su valute diverse da quella statunitense.
Sono tutti fenomeni che hanno il loro centro nei rapporti di cooperazione economica tra paesi nel Sud del mondo o tra quelli del Sud e dell'Est del pianeta. Questo significa che l'asso tra Europa e Stati Uniti sta perdendo non solo importanza economica, ma anche «morale». Il risultato è che il modello occidentale delle relazioni tra centro e periferia è al collasso. La novità è che i paesi, un tempo sottoposti al potere coloniale dell'Europa, svolgono oggi un ruolo sempre più egemonico nel Vecchio Continente. L'India è ormai una potenza economica; la Cina ha investito miliardi di euro in Grecia, costituendo per il paese ellenico una alternativa credibile all'Europa. E Pechino sta investendo molto anche in Spagna. La geografia del potere è dunque molto mutata e presenta un pianeta che non potrà mai più avere il suo centro di gravità nell'Occidente.
In un suo libro, dedicato al lavoro nella globalizzazione, lei ha sostenuto che il reddito di cittadinanza è la soluzione alla precarietà e alla disoccupazione strutturale nel capitalismo. Ha anche sostenuto che il lavoro ha perso la sua centralità nella vita sociale. Eppure la disoccupazione e la precarietà sono l'inferno dentro il quale si trovano a vivere milioni di uomini e donne in Europa. Come spiega questo paradosso costituito dalla crisi dell'etica del lavoro con la disoccupazione e la precarietà?
Molti dei paesi europei guardano con ammirazione il miracolo tedesco della piena occupazione. Ma chiudono gli occhi che più della metà degli occupati tedeschi sono precari. In Germania, infatti, si parla di mini-jobs, di lavoro in affitto. Non è soltanto il lavoro ad essere in crisi, bensì il suo significato stesso. Nel cuore dell'Europa stiamo assistendo a un ridisegno del mercato del lavoro, con le caratteristiche che ricordano il lavoro e l'economia informale di molti paesi nel Sud del pianeta.
Nel libro a cui fa riferimento scrivevo di una «brasilianizzazione» del mercato del lavoro. Era certo una descrizione approssimativa, ma quello che è certo è che il vecchio arsenale delle politiche del lavoro è insufficiente, se non inutile. L'ideologia del libero mercato e le politiche conseguenti hanno distrutto l'insieme delle sicurezze sociali costruite nel secolo scorso. E rischia di distruggere anche la democrazia.
È questa la vera questione sociale e politica con cui fare i conti.