Stefano Folli
Milano, una crisi che nessuno vuole
la Repubblica, 22 luglio 2025
Qualcuno nei giorni scorsi ha evocato l’abusata immagine della grande montagna che partorisce un minuscolo topino. In effetti, è quello che sembra, al punto cui siamo giunti. Il discorso del sindaco di Milano in Consiglio comunale è stato corretto, dignitoso, ma prevedibile in ogni capoverso. A cominciare dal primo, in cui ha rivendicato di avere le “mani pulite”.
Sì, pulite come il nome dell’inchiesta che oltre trent’anni fa diede il via allo sconquasso giudiziario. Ma oggi questa nuova iniziativa giudiziaria non sembra avere molto in comune con la lontana Tangentopoli. Tutto è possibile, s’intende, ma anche le sorprese hanno bisogno di uno stato d’animo, di un’atmosfera drammatica in cui ogni giorno ci si aspetta qualche novità inquietante. Se si ricorda la Milano di allora, non si può negare che adesso il clima politico sia diverso in modo radicale.
Chi ha provato a dare una spallata alla giunta, lo ha fatto in queste ore senza troppa convinzione: quasi per onore di firma. Così i Cinque Stelle, che sono nati nel furore “giustizialista” e non possono rinnegare se stessi. Così la Lega, che nei momenti topici ritrova sempre il filo misterioso che li riavvicina al vecchio partner del governo gialloverde.
Tuttavia sembrano anche loro consapevoli che il sacrificio dell’assessore Tancredi è il massimo che possono ottenere per come si sono messe le cose. Poi sono sempre possibili i colpi di scena, non prevedibili per definizione. Però la cronaca al momento dice altro. Del resto anche la sorte di Tancredi non nasce da un’ammissione di colpa, come è logico, bensì da un gesto dettato dall’opportunità politica. E da un rapporto non così positivo con una parte della maggioranza su cui si regge Sala.
Ciò significa che per un attimo si è sollevato il velo che nasconde la realtà. Vale a dire che il sindaco sembra salvo non tanto per l’entusiasmo del Pd nei suoi confronti, quanto per la necessità di evitare il peggio. La debolezza, almeno così pare, delle accuse rischiava di trascinare la città di Milano in un gorgo di cui nessuno era in grado di intravedere la fine. E come si è visto, la stessa destra ha evitato di farsi travolgere prima del tempo.
Il “garantismo” imposto da Giorgia Meloni, nonostante eccezioni anche significative, è dettato da un calcolo politico abbastanza ovvio. Non è interesse di nessuno accelerare le scadenze della crisi milanese. Forse perché la stessa destra non è pronta per l’anticipo elettorale. Maurizio Lupi, cioè il candidato in pectore di La Russa e altri, deve attendere. A palazzo Chigi non si ha voglia di affrontare un’altra grana che si può quantomeno rinviare.
È vero, la Lega recita la sua parte, ma come abbiamo visto la sua protesta non supera il livello di guardia. E chi ha scelto la strada del “giustizialismo” vecchio stampo di pessimo gusto, come il consigliere Marcora che ha raffigurato il sindaco vestito da ergastolano, è rimasto isolato. Ricordate il giorno in cui qualcuno agitò il cappio in Parlamento? Altri tempi, altri stati d’animo collettivi. Ora tutto si ripete in sedicesimo.
Tanto più che siamo esattamente alla vigilia del voto in Senato sulla riforma della giustizia: con la separazione delle carriere. Provvedimento controverso, come è noto, è tuttavia passaggio significativo della legislatura. Serviranno altre due letture per il testo di revisione costituzionale, ma si capisce che il ministro Nordio e la premier sono convinti di aver segnato un punto importante nel confronto con la sinistra. È qui che si concentra la loro attenzione. Milano stavolta è uno scandalo secondario.
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Mario Viana, La difesa di Sala: «Ho le mani pulite». Il sindaco resta, l'assessore no, Avvenire, 22 luglio 2025
«Ma allora mi chiedo: essendo la magistratura l’unico organo preposto alla comunicazione di questi atti, perché questa informazione è stata divulgata ai media? E chiedo a voi, colleghi politici, se ciò continui a starvi bene. Sta bene a chi governa o ambisce a governare una città o un Paese che indagini riservate diventino pubbliche? Ricordo a chi approfitta, politicamente, di situazioni come quella che la mia amministrazione sta vivendo: oggi a me, domani a te». Così Giuseppe Sala, in Consiglio comunale, a Milano. Il sindaco rispondeva più ai pm dell’inchiesta urbanistica che ai consiglieri comunali, dopo la fuga di notizie sul suo ruolo nell’inchiesta esplosa intorno a un presunto “patto corruttivo” che avrebbe coinvolto amministratori e costruttori sul futuro urbanistico della metropoli. Inchiesta che si è già allargata a macchia d’olio su tutti i nuovi cantieri: dal Pirellino al Villaggio Olimpico, dalle Park Towers di Lambrate e via costruendo. Un’indagine capace di fermare lo sviluppo della metropoli moderna che Sala sta governando da otto anni e colpire trasversalmente la politica. Non è un caso che quasi tutti i partiti abbiano usato i guanti di velluto, in questi giorni, nel commentare il presunto scandalo e che la richiesta più ferma per un cambio di passo dell’amministrazione milanese sia venuta dal partito del sindaco. Il Pd ha chiesto (e ottenuto) la testa dell’assessore indipendente all’Urbanistica Giancarlo Tancredi, che si è dimesso tra le lacrime sue e di altri assessori, e una revisione del progetto di vendere lo stadio Meazza.
È proprio sul garantismo che Sala ha fatto leva per compattare sinistra e destra di governo, che, almeno dall’Expo a oggi, hanno avuto un ruolo decisivo nella trasformazione della capitale economica del Paese. Ma le parole del primo cittadino non sono parse un banale richiamo al diritto, forse perché ricordano altre parole. Queste: «Sono all’ordine del giorno del resto le sistematiche violazioni del segreto istruttorio, ormai praticamente vanificato e inesistente o esistente solo in ragione di criteri discriminatori o criteri arbitrari dettati da interessi ed opportunità di varia natura, ivi comprese quelle politiche». Fu l’ultimo discorso di Bettino Craxi alla Camera dei Deputati, il 29 aprile 1993. Allora, i partiti, compreso quello socialista, reagirono malissimo alla chiamata di correo che lo stesso Craxi aveva pronunciato il 3 luglio. A Milano, salvo rimproverare le piste ciclabili e la politica green che fermerà presto 75mila motocicli, i gruppi consigliari di minoranza hanno chiesto le dimissioni del primo cittadino unicamente «perché non vogliamo che si fermi la città» come ha dichiarato la leghista (ma con un importante passato in Forza Italia) Silvia Sardone. Idem Marco Cagnolati (Fratelli d’Italia): «I dirigenti del Comune hanno paura a firmare qualsiasi documento e sarà così per i prossimi due anni». Ma anche chi ha difeso Sala segue il faro della crescita edilizia: «Milano vuole che le cose si portino a termine» ha detto il pidino Bruno Ceccarelli (con deleghe sull’urbanistica). Evocando il “crollo della bolla immobiliare” che a Milano è come evocare l’uomo nero.
Allora si capisce anche perché Sala non abbia neanche tentato una difesa d’ufficio di Tancredi, il quale ha annunciato le dimissioni pochi minuti dopo qualificandosi come «il capro espiatorio» di questa vicenda e lasciando in eredità un sibillino «sarà interessante vedere tolto di mezzo l’assessore e in assenza di una legge nazionale come cambierà l’urbanistica di Milano…». Sull’ex assessore penderebbe una richiesta d’arresto per aver esercitato pressioni sulla commissione paesaggio, che valuta tecnicamente i progetti, per favorire le imprese di costruzione. Con le dimissioni sparisce il rischio di inquinamento delle prove e potrebbe evitare le manette.
Alle pressioni cresciute intorno a quest’inchiesta che, al momento, non ha le certo dimensioni di Tangentopoli (ma terrorizza le migliaia di famiglie che hanno acquistato casa in uno dei cantieri bloccati e che il decreto Salva Milano avrebbe dovuto “salvare”), il sindaco ha replicato ieri in modo apotropaico: «Ho le mani pulite». Del resto, per il primo cittadino sono giorni di tensione paragonabili a quelli degli anni Novanta: «Sono giorni confusi in cui tutto sembra diventare oscuro, dove le certezze sembrano vacillare e spesso pare che anche le fisionomie più note sembrano confondersi» ha detto ieri, confermando di non aver ricevuto alcun avviso di garanzia ma di esser già stato “tritato” dalle accuse a mezzo stampa. Tanto dall’aver pensato lui stesso alle dimissioni. Nel merito, ha ribattuto solo su un progetto, quello del Pirellino, dimostrando, numeri alla mano, che il Pgt sotto accusa e quindi la sua giunta, avrebbero imposto all’acquirente di destinare almeno il 40% della superficie abitabile a edilizia residenziale sociale, mentre le scelte della giunta Pisapia avevano impostato la delibera senza pensare ai meno abbienti. Una lungimiranza vanificata però dal Consiglio di Stato, che ha annullato la modifica urbanistica deliberata dalla giunta. Rileggendo questi anni di amministrazione, il sindaco ha rivendicato con forza l’impronta sociale del suo governo. Con un avvertimento per la sinistra che vorrebbe rinviare sine die al vendita dello stadio e bloccare tutti i cantieri: «In questi anni i bilanci li abbiamo fatti assieme. E li abbiamo approvati assieme. Le scelte che abbiamo compiuto sono nel segno di tutte le grandi città nazionali e internazionali governate dai progressisti». E un commento che sembra una sfida: «Non possiamo non essere d’accordo sul fatto che la giustizia e la politica debbano occuparsi di ambiti separati. E per far sì che questa società funzioni bisogna che questa distinzione regga in tutto e per tutto. Nel reciproco rispetto».

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