Alberto Melloni
Chiesa e democrazia sotto Pio XII
Corriere della Sera, 28 luglio 2025
Quando nel 1881 Leone XIII decise di aprire a tutti gli studiosi gli archivi vaticani, tornati a Roma da Parigi pochi decenni prima, sembrava l’inizio di una pace fra la Chiesa e la storia. Una pace che durò pochissimo: il suo successore, ossessionato da fermenti dottrinali, letterari, esegetici che credeva essere i tentacoli d’un mostruoso «modernismo», ne vedeva uno pericoloso nella storiografia. E dopo di lui la diffidenza verso il sapere storico continuò: tant’è che solo nel 1984 Wojtyla diede adito alle carte dell’archivio segreto vaticano fino a Benedetto XV. Nel 2006 fu poi la volta delle carte degli anni di Pio XI mentre erano già accessibili le carte del concilio, quelle dei Papi conciliari oggetto di processi di canonizzazione e quelle del Sant’ufficio. L’esito di tali aperture è stato diverso. Su Pio X, di cui tanti reclamavano i documenti per capire una repressione che aveva colpito alla cieca (da Roncalli, denunciato da una spia gesuita, a Ratzinger, la cui tesi di dottorato non fu pubblicata), ci sono stati importanti studi di Giovanni Vian e Claus Arnold, e l’edizione più imponente l’ha fatta Monsignor Sergio Pagano, a lungo prefetto dell’archivio, con due tomi che documentano la spregiudicatezza repressiva di un Papa, sul piano personale, umilissimo e santo.
Per Benedetto XV è stata molto lavorata la sua azione diplomatica. Per Pio XI sono stati dirimenti gli studi di Lucia Ceci ed Emma Fattorini e ancora le edizioni curate da Sergio Pagano, e tutti sono rimasti in attesa dell’archivio di Pio XII, di cui si conoscevano dispacci di età bellica usciti per volontà di Paolo VI dopo l’esplosione del dibattito su quello che Pacelli prima di tutto definì il «suo silenzio».
E quando nel 2020 Papa Francesco ha aperto il fondo Pacelli (di cui Giovanni Coco ha dato un inventario nel 2023) è esploso un interesse così febbrile da diventare rivelatore di una debolezza storiografica più profonda. Sia nelle sofisticate iniziative di ricerca elaborate dall’Ecole française de Rome da Laura Pettinaroli e del Deutsches Institut con Simon Unger-Alvi, sia in quelle più divulgative, emergono segni di feticismo archivistico che fa parte del manierismo e non della ricerca.
Perché lo storico sa che gli archivi non coincidono con la realtà e non contengono solo verità nascoste, ma anche banali riflessi dell’efficienza degli uffici che li producono. Sono il precipitato di atti di governo, raccolte di informazioni, visioni illusorie o fobiche che hanno destinatari, obiettivi, codici, orientamenti intenzionali, che possono essere capiti solo attraverso un lavoro di studio che collega, fonti edite e inedite, letteratura grigia e storiografia.
Se si salta questo passaggio si entra nell’alto artigianato di cui ha dato da poco prova Giovanni Coco con Un mosaico di silenzi (Mondadori) dedicato a Pio XII e la questione ebraica, che non conosce o omette la ricerca e le edizioni di fonti che non gli garbano. Oppure si passa direttamente al dilettantismo colto surclassato da chi — lo dimostrarono proprio quarant’anni fa gli studi di Andrea Riccardi nei quali ad archivi chiusi l’intelligenza critica faceva capire la Chiesa e la Roma di Pacelli — aveva meno chilometri di carte davanti ma più filo intellettuale da tessere.
E senza intelligenza critica si producono gradevoli passeggiate nelle fonti come quella offerta ora dal nuovo volume su L’Italia Vaticana. L’egemonia della Chiesa di Pio XII sulla Repubblica (San Paolo) di Cesare Catananti, storico della medicina passato alla storia ecclesiastica. Passeggiate archivistiche che confondono le illusioni di cui l’archivio conserva traccia con ciò che è effettivamente accaduto.
Nelle pieghe della curia pacelliana c’era chi sognava una Italia nazional-cattolica, con una legislazione posta a protezione delle concezioni morali vigenti e una capacità di condizionare la politica di una Dc ritenuta creatura detestabile del detestato Montini?Ovviamente sì. Ma questa domanda a chi fa il mestiere di storico non interessa niente: ciò che preme è capire se quel desiderio s’è realizzato o perché è fallito. E allora, per dirla col titolo del volume, c’è stata un’italia «vaticana» e l’italia poteva esserlo? La risposta è semplice: no.
No, perché i pensieri di Pacelli, di Montini, di Tardini, di Dell’acqua, di Ronca — per non dire di Schuster, di Roncalli, di Siri, di Lercaro — non erano uniformi. No, perché l’anticomunismo a cui Gedda voleva far riassorbire il neofascismo in un anticomunismo

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