sabato 26 luglio 2025

La vita spirituale dei soldati nella Grande Guerra

Monsignor Angelo Bartolomasi nel 1917 

Parliamo di sensibilità religiosa e non di religiosità o di sentimento religioso puro e semplice per identificare la presenza di un atteggiamento spirituale che va oltre l'appartenenza a una chiesa e che era comune a un gran numero di soldati al fronte o in prigionia nel corso della Grande Guerra. Per cominciare può essere utile vedere proprio come si poteva manifestare il rapporto con la chiesa, con una chiesa reale o ideale. Ecco alcuni brani ricavati da una lettera inviata dalla zona di guerra e indirizzata a Torino nel 1916:

Carissimi genitori,

Vengo con questa mia presente lettera per rispondervi alla vostra graziosa lettera e il vaglia che ho ricevuto e la cartolina che o anche ricevuto questa mattina dandovi la bella e consolante notizia che grazie ha Dio godo una perfetta salute come pure spero di voi tutti.
Sono qui per ringraziarvi della premura che vi avete preso nel spedirmi il vaglia e nello stesso tempo vi chiamo scusa se sono un poco noioso nel mandarvi ha chiamare dei denari. Vengo ha farvi sapere che e da giorni che ho avuto il cambio dopo 15 giorni di trincea assai brutti forza del fango e del acqua che ci veniva ma col aiuto del Signore ho avuto la fortuna di ritornare ha riposo sano e salvo come prima.
... Vi faccio anche sapere che oggi ci è venuto il vescovo Bartolomasi [vicario castrense per l'Italia in quel periodo] e ci anno fatti andare tutti in piazza darmi dove ci ha fatto un po di spiegazione ed è anche andato a vedere la prima linea. (lettera del soldato Gaspare, in Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 395)

Qui il rapporto con il sacro è mediato dalla Chiesa visibile. Nel caso di Carlo Emilio Gadda la presenza della Chiesa nelle persone dei cappellani e del nunzio apostolico Pacelli dà luogo a una partecipazione affettiva alla cerimonia religiosa senza rapporto con gli articoli della fede cristiana. Prevale invece un altro sentimento, derivante questo da una adesione profonda alla condizione umana, con i suoi limiti e con lo strascico inevitabile di sofferenze che ne possono derivare. 

Baviera, 1918. Il nunzio Pacelli, futuro Pio XII, in visita ad un campo di prigionia distribuisce indumenti e cibo agli italiani qui rinchiusi

23 settembre 2018

Nella Chiesetta affollata io ero ritto sopra una panca, come già da ragazzo in san Simpliciano. Celebrarono il « tantum ergo Sacramentum », cantandolo alla meglio; seguì un inno di carattere religioso | patriottico, cantato dai nostri cappellani, in cui Dio era pregato di darci la vittoria e di restituirci la patria. In questo il Nunzio fu solo ascoltatore, naturalmente. Dopo di che egli dall'altare ci rivolse una breve allocuzione. Nel silenzio assoluto degli ascoltatori avidi ed intenti, interrotto solo dall'uscita del Colonnello tedesco e di un altro ufficiale, erano suonate le preghiere e gli inni. Adesso le parole del Vescovo riempirono il piccolo sito. Disse d'esser lieto di venire a noi come italiano, figlio della nostra stessa terra, ma più come rappresentante del Sommo Pontefice «padre comune dei popoli », a portarci una parola di conforto. Disse dell'interessamento del papa per i prigionieri, da lui personalmente constatato. Annunziò l'arrivo di un pacco di viveri per ciascuno di noi « senza differenza di religione o di partito politico », inviato da Benedetto XV con l'apostolica benedizione; e disse di una distribuzione di indumenti di lana ai più poveri ch'egli stesso aveva recato. Da diplomatico fece precedere l'annunzio di tutto ciò alla benedizione apostolica; verso la fine accennò alle nostre sofferenze, invitandoci ad offrirle al Signore, e pregando Dio che questo periodo terribile della nostra vita non fosse per essere un indebolimento ma un rafforzamento delle nostre anime. La sua voce era fredda, acuta, il tono untuoso e calcolato; il discorso appariva preparato. tuttavia suonò in esso, o mi parve, la voce della pietà e della religione e il mio spirito facile alla visione entusiasta delle cose ne rimase commosso. Gli occhi mi si riempirono di lagrime e il cuore di lacerante tristezza quando disse dell'amore di patria e dell'amore di Dio che s'accordano nei cuori ben nati, quando parlò della nostra terra radiosa «che la natura e l'arte e il genio fanno superba» [riferisco compendiando]; quando pregò il Signore che nella terribile prova i nostri animi si rafforzassero e il nostro pensiero considerasse che questa vita è solo un passaggio. Sentii con quella forza subcosciente che è tanto forte in me nei momenti patologici che realmente la mia, la nostra vita è un brevissimo tempo; che già mezza è trascorsa senza frutto d'onore, senza una gioia; sentimenti con intensità spasmodica che non un sorriso di giocondità ha rallegrato i miei giorni distruttivi; ho patito tutto, la povertà, la morte del padre, l'umiliazione, la malattia, la debolezza, l'impotenza del corpo e dell'anima, la paura, lo schermo, per finire a Capo retto, nella fine delle fini. Non ho avuto amore, né niente. L'intelligenza mi vale soltanto per considerare e soffrire; gli slanci del sogno, l'amore della patria e del rischio, la passione della guerra mi hanno condotto una sofferenza​ mostruosa a una difformità spirituale che non ha, non può avere riscontri. Sentii in quel momento, con l'intensità d'un asceta, il vuoto, l'orribile vuoto della mia vita, la sua brevità, la sua fine. Che cosa avrò fatto per gli uomini, che cosa per il mio paese? Niente, niente. Morirò come un cane, fra dieci, fra trent'anni; senza famiglia, senza neppur aver goduto nel doloroso cammino di aver a lato mia madre, i miei cari fratelli. E nessuno al di là mi aspetta poiché l'intima religiosità de' miei sentimenti non ha riscontro nel pensiero e nella ragione.
Il Nunzio uscì della Chiesa e io saltai da una finestra, per raggiungerlo: si fermò sotto il capannone centrale del campo e ripeté su per giù il suo discorso; il colonnello tedesco ringhiava per l'affollamento, da quel cane che è. Quando il Nunzio levò i duemila marchi che lasciò per i più poveri di noi, un tedesco si precipitò tra lui e il generale Fochetti a significargli che il regolamento del campo vietava ai prigionieri di tenere danaro corrente; che la somma doveva essere cambiata con buoni del campo. Il Nunzio ci benedisse, con parole rapide, povere, secche, cento volte ripetute: mi pareva commosso del nostro soffrire che si palesava nell'intensità dell'ascoltazione e nel nostro stesso morboso affollarci. «Vi benedico, miei poveri figli, vi benedico; siate forti, siate calmi; vi benedico, vi benedico.» Il colonnello tedesco, con villania di mascalzone travestito, s'era già avviato che ancora quello stava parlando; gli faceva fretta, aveva la cerimonia come il fumo negli occhi. Andarono nella baracca 2 del blocco B, una camera da studio, dove il Nunzio ricevette degli ufficiali in particolare, persone raccomandategli dalle famiglie. I tedeschi gli stettero sempre intorno come poliziotti, il colonnello gli mise alle costole quattro interpreti che non lo lasciarono un secondo, notando col lapis quanto gli ufficiali dicevano. Vidi io stesso, sulla soglia della baracca il cane ringhioso quindi chiamare: «Dolmetscher, Dolmetscher», ammiccando con l'occhio. Dopo due ore il Nunzio uscì salutando, di tra la calca.
Ritornato per il Nunzio, egli dietro l'insistenza di alcuni ufficiali, era entrato in alcune baracche del blocco A; gli fecero ben vedere letti, pagliericci, sterpi, affollamento, sporcizia e tutto, gli dissero tutto quel che poterono; io te deschi erano gialli. Mi riferirono poi quanto noterò in seguito.
Il Nunzio lasciò poi il campo e nella giornata non si ebbero altri incidenti. Qualche ufficiale più svelto fece salta re nelle baracche alcuno dei pini piantati, per servire da combustibile prima che i tedeschi li asportassero.
... La sera si dette al blocco D il Romanticismo, senza incidenti; al nostro blocco si rappresenterà Scampolo, di Mario Niccodemi e io pure vi assistei da uno degli ultimi posti, annegando nella stanchezza l'ultima capacità di soffrire. La commedia venne data con successo, anche nelle parti femminili, tutt'altro che facili. Da relazioni di diversi ufficiali e dello stesso [Bonaventura] Tecchi, ufficiale d'ordinanza del Generale Fochetti, seppi che al Nunzio era stato detto il possibile, sul trattamento fattoci, dal Generale stesso, dal cappellano Di Leo, e dagli ufficiali della baracca visitata. Invece gli ufficiali chiamati singolarmente parlarono di loro interessi personali. Di Leo accennò alle angherie di carattere religioso-rituale (sospensione dalle funzioni religiose, proibizione di dir Messa, ecc.) che quel porco di cappellano tedesco fa ai preti italiani. (Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Einaudi, Torino 1980, pp. 316-319). 

Baviera, 1918. Eugenio Pacelli durante la visita ad un campo di prigionieri italiani

Per il soldato Gaspare che scrive ai suoi la fede è un'evidenza che dà luogo a una serie di formule rituali: grazie a Dio,  con l'aiuto del Signore. Il vescovo agisce nella pienezza delle sue funzioni predicando e visitando i luoghi. Per Gadda invece la religione è prima di tutto legata ai ricordi dell'infanzia ("ritto su una panca come da ragazzo a San Simpliciano"). Il vescovo Pacelli è da lui percepito come il rappresentante di una istituzione meritevole di rispetto, ma non percepita come propria ma tiene un discorso che suscita nell'ascoltatore una chiara risonanza emotiva. Intanto parla da italiano. E poi è accomunato ai prigionieri da una commozione che egli stesso sembra avvertire. Quanto al messaggio di carattere più propriamente religioso, Gadda distingue tra la sua partecipazione umana, viva e forte, legata alla consapevolezza del limite e della sofferenza, e la piena adesione al messaggio della fede. Questa adesione piena non c'è: "l'intima religiosità de' miei sentimenti non ha riscontro nel pensiero e nella ragione". La fede è per lui l'oggetto di un legame spirituale che ancora sussiste da qualche parte nel suo animo ma non arriva a coinvolgere la sfera della sua esistenza cosciente.  


 

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