Lucrezia Reichlin
Corriere della Sera, 29 luglio 2025
Nel 2011 l’Europa si è trovata ad affrontare una crisi del debito senza avere gli strumenti economici necessari, né la coesione politica per costruirli. Fu una crisi esistenziale che portò l’euro quasi al collasso. Quattordici anni dopo, la guerra commerciale iniziata da Trump ha trovato l’Europa altrettanto impreparata pur avendo, questa volta, lo strumento giusto, cioè la competenza esclusiva a negoziare accordi commerciali internazionali a nome dei suoi 27 Stati membri.
Impreparata perché arrivata tardi a fare il necessario per rafforzare la sua autonomia strategica e per via della mancanza di coesione e determinazione ad agire insieme dei Paesi che ne fanno parte. Il risultato è stato un accordo commerciale negativo che indebolisce il suo ruolo nel mondo e la rende vulnerabile all’acuirsi delle sue divisioni interne. Un momento buio che avrà conseguenze di lungo periodo.
L’accordo è totalmente asimmetrico: l’Europa non ottiene nulla, ad eccezione della promessa di non essere colpita ancora più pesantemente e su questo non c’è alcuna garanzia. Non ne esce meglio dell’ultra conciliante Giappone e fa peggio di una economia molto più piccola e vulnerabile come il Regno Unito. Inoltre, il patto smaschera la ipocrisia di chi, a parole, difende il multilateralismo, ma, di fatto, accetta di siglare un accordo che viola le regole dell’organizzazione Mondiale del Commercio (Wto). È un’intesa che mostra in modo inequivocabile la sua debolezza.
Si dice che l’alternativa a questo accordo capestro sarebbe stata una guerra commerciale distruttiva per l’economia europea. Ed è certamente vero che è troppo facile criticare senza valutare i costi dell’alternativa, ma sia una strategia pragmatica, perseguita con coesione e lucidità, sia una strategia radicale, basata su accordi con altri Paesi, avrebbero dato risultati migliori di questa disfatta.
L’intesa arriva dopo una serie di miti dichiarazioni pubbliche e deboli tatticismi. Da aprile, ogni volta che l’Unione si è trovata di fronte a una scelta, ha ceduto. Il primo cedimento, ed il grande errore, è stato proprio in aprile, quando ha deciso di non impiegare il suo Strumento anticoercitivo (Aci) per rispondere ai «dazi reciproci» minacciati da Trump e poi, quando questi sono stati temporaneamente sospesi, di non rispondere alle tariffe su acciaio e alluminio e tenersi pronta ad attivare ci. Anche una politica che accettasse — come volevano alcuni Paesi — l’inevitabilità di un accordo asimmetrico per non mettere Trump in difficoltà politica, avrebbe potuto essere più aggressiva. Un migliore equilibrio tra compromesso e minaccia di far saltare il tavolo avrebbe probabilmente portato a un risultato migliore, simile a quello ottenuto da Starmer nel Regno Unito.
Ma la vera domanda è perché l’Europa non abbia scelto di sfidare il bullismo di Trump e di rispondere con una strategia di ritorsione «occhio per occhio» basata su alleanze strategiche con altri Paesi. Perché non una linea assertiva, combinata alla costruzione di un fronte comune con altre aree del mondo, strategia in cui l’Europa avrebbe potuto esercitare una leadership globale per la difesa dei principi del multilateralismo e la cooperazione per la difesa dei beni comuni globali? Questa strategia si sarebbe potuta basare su accordi commerciali intelligenti con quelle economie con cui abbiamo importanti complementarità e avrebbe isolato gli Stati Uniti, evitando la trappola di un negoziato bilaterale.
Certo, si sarebbe rischiata una guerra commerciale, ma le conseguenze economiche e politiche di tale conflitto sarebbero state peggiori per gli Stati Uniti che per noi. Non scordiamo che gli Usa, con l’enorme debito da rifinanziare, avrebbero tra l’altro dovuto affrontare le conseguenze del loro isolamento sulla volatilità nel mercato del debito. Il prezzo economico dell’isolamento si sarebbe fatto sentire nel 2026, nel momento del voto del mid-term, un rischio politico a cui Trump è sicuramente sensibile.
L’Europa non ha perseguito questa strategia perché dipende dagli Usa per la sua difesa e per le tecnologie chiave, ma anche perché, pur avendo la delega a negoziare in nome di tutti gli Stati dell’Unione, è indebolita da interessi divergenti tra i suoi Paesi membri e dalle loro diverse sensibilità politiche. Il fatto che Francia, Germania e Italia non abbiano fatto fronte comune e condiviso le linee strategiche del negoziato ha pesato sul risultato e mostra che la fragilità dell’Unione non sta solo nel limite delle sue competenze, ma soprattutto nella assenza di un’unione politica o comunque di qualcosa che gli si avvicini.
Nel 2011, alla fine la crisi economica si è superata dotandosi di maggiori strumenti economici collettivi, ma oggi, in una situazione in cui le sfide sono geo-politiche, abbiamo bisogno non solo di strumenti economici a livello federale, ma di maggiore potere politico al centro. Non è chiaro come questo sia possibile nel presente regime politico-istituzionale e sembra veramente utopico se si pensa a come sia difficile fare passi avanti su dossier importanti come quello della difesa comune o quello di un aumento del bilancio europeo. L’Europa è la terza potenza mondiale per Pil, ma è un gigante di argilla. Siamo arrivati oggi ad un punto di crisi esistenziale nella storia dell’Unione, più grave di quello che quattordici anni fa ci portò quasi alla disintegrazione dell’euro e più difficile da affrontare senza una leadership europea con l’ambizione giusta e lo sguardo lungo.
https://www.ilfoglio.it/politica/2012/07/02/news/la-principessa-storia-di-lucrezia-reichlin-1854207/

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