Lucia Tozzi
Non può esserci sviluppo senza redistribuzione
il manifesto, 17 luglio 2025
La notizia delle nuove indagini che hanno coinvolto l’assessore alla Rigenerazione urbana di Milano Giancarlo Tancredi e soprattutto Manfredi Catella, ceo di Coima, simbolo, più di ogni altro, del cosiddetto “modello Milano”, è un segnale importantissimo dal punto di vista culturale e politico.
Indipendentemente dal corso degli eventi futuri e dall’esito dei processi, quello che è emerso dalle carte redatte dai magistrati è una versione intensificata del sistema di sviluppo iniquo e suicida denunciato per anni dagli attivisti, dai cittadini sempre più a disagio e da (pochi) giornalisti e studiosi.
Lo sbandierato, o meglio propagandato successo di Milano non è il fausto prodotto di una sana e serena sinergia tra pubblico e privato, ma il frutto avvelenato dell’asservimento delle istituzioni agli interessi finanziari. La ricchezza che ha attratto non è stata redistribuita tra la popolazione, ma concentrata nelle mani degli investitori e degli intermediari che hanno alimentato i processi (società di consulenza, avvocati d’affari, un numero ristrettissimo di professionisti e fondazioni). E il risultato non ha migliorato servizi e spazi pubblici ma li ha privatizzati e distrutti. Le disuguaglianze sono aumentate e le classi meno agiate sono state espulse.
L’origine di tutto questo, è ovvio, non è la corruzione. Sarebbe assurdo ridurre un fenomeno così violento a una questione morale. Si tratta di una scelta politica consapevole e ideologica, di matrice neoliberale, e che è insita nell’assunto che le città (e i territori tutti) debbano essere attrattive, competere tra loro per strapparsi flussi di denaro e di persone, investimenti e turisti, oltre che la merce più pregiata, i milionari. E che solo vincendo questa gara continua e spietata sia possibile trasformare la città, mentre chi perde è condannato all’immobilità, alla marginalità e infine al declino definitivo.
Chi sposa questa linea – il principio opposto della redistribuzione equa delle risorse – non può che puntare su una crescita incontrollata del tessuto urbano, sulla sua densificazione e sull’aumento del suo valore, a favore della rendita. Il che equivale a una guerra contro gli abitanti e contro qualsiasi politica ambientale, e di conseguenza contro le regole e i processi democratici che li tutelano.
La deregolamentazione, lo smantellamento delle norme ambientali, edilizie e urbanistiche e dei sistemi di tassazione legati alla trasformazione urbana è un obiettivo centrale dell’agenda neoliberale, e non solo a Milano: ma storicamente Milano ha sempre avuto un ruolo importante nel proporre teorie e prassi ostili alla pianificazione e al controllo pubblico dei processi urbani (il ben noto «rito ambrosiano»), e con l’Expo 2015 ha elaborato quello che è diventato un vero e proprio modello per le altre città italiane.
Napoli, Bologna, Torino, Genova, la stessa Roma stanno adottando lo stesso schema di sviluppo, e le loro classi dirigenti forse addirittura sorridono sotto i baffi per le tempeste giudiziarie che offuscano il capoluogo meneghino, stolidamente pensando di poterne approfittare. Mors tua, vita mea, si illudono, mentre si avviano tutti insieme verso un suicidio collettivo. Già chiamano i consulenti in fuga, i topi che scappano dalla nave che affonda, sperando di catturare le loro relazioni, i loro clienti, di imparare dalle loro best practice. Come a Milano, “semplificano” le procedure, opacizzano i dati e i processi decisionali, bypassano le sedi istituzionali, mortificano le competenze dei propri funzionari ed esternalizzano responsabilità e gestione, tacitano il dibattito pubblico e neutralizzano il conflitto, pretendono poteri speciali e straordinari con l’alibi di emergenze e grandi eventi. E, ubriachi di questi nuovi poteri, li utilizzano per allocare fondi e finanziamenti agli antipodi di quello che chiedono, e di cui hanno bisogno, i cittadini, ottenendo città orrende e ingiustizia sociale.
Ma se il paradigma è fondato sull’erosione delle regole, allora le semplificazioni e le legalizzazioni non sono mai sufficienti, e i pochi paletti rimasti vanno comunque aggirati. Un velo sottilissimo separa il lobbismo e la corruzione, come secondo le ipotesi degli inquirenti succede a Milano, ora. Ed è una storia che non finisce mai bene.

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