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Carl Blechen, Tiberiusfelsen auf Capri, 1828-’29, Hannover – Niedersächsisches Landesmuseum
Giorgio Villani
L'isola di Capri da Tiberio a Douglas
il manifesto, 20 luglio 2025
Se Capri abbia effettivamente esercitato una forte attrazione su quel genere di creature «incapaci di creare capolavori, che cercano, non potendo fare altro, di divenirlo loro stessi», come scrisse Cocteau del barone Fersen, non saprei. Certo è vero che l’isola raccolse molti spiriti eccentrici, i cui costumi si prestarono al pettegolezzo. A prestar fede a quanto si legge nel libro che gli dedicò Roger Peyrefitte L’Esule di Capri, il barone sarebbe stato, invece, proprio un caratteristico esempio di quella stirpe di «strani esuli dal palato fine» – tra le cui file s’annovererebbero Asinio Pollione, Oscar Wilde, Friedrich Krupp, Maurice Sandoz e perfino l’imperatore Tiberio – che scelsero d’abitare questi luoghi rocciosi in mezzo al mare.
Sorta di nido per procellarie solitarie, Capri avrebbe attratto quanti erano in rotta con il mondo. Ma le favole fiorite intorno all’isola non riguardarono soltanto i suoi più illustri residenti. In Some Antiquarian Notes del 1907, che La nave di Teseo ripropone oggi assieme a un breve scritto sull’imperatore Tiberio col titolo Capri Annotazioni antiquarie (a cura di Giuseppe Balducci, pp. 155, euro 17,00), Norman Douglas elencava molti casi di quella ch’egli allora definiva archeologia di Cicerone, di quella «archeologia», cioè, «deliberatamente creata per compiacere i viaggiatori» e che «tende costantemente e in modo allarmante a insinuarsi nell’archeologia seria dei primi antiquari».
Forse la ragione delle tante fole e leggende è da attribuirsi all’azione delle acque e dei venti che, alterando perpetuamente la fisionomia della costa ed erodendone le rocce, hanno reso difficile l’interpretazione di molti siti archeologici: nel palinsesto di civiltà, laddove le lettere sono mozze e illeggibili, soccorre la fantasia a colmare i vuoti. «Diventa più facile – leggiamo nelle pagine di Douglas – credere quanto quest’isola sia cambiata dai tempi di Tiberio e quanto violenti siano stati alcuni di questi cambiamenti, allorché ampliamo lo sguardo al continente vicino». Come sulla terraferma, anche qui le frequenti frane (perlopiù dovute «all’infiltrazione dell’acqua attraverso il terreno dissodato fino a colpire il duro calcare, laddove essa si accumula») e le alluvioni hanno talmente segnato i luoghi che «la pioggia, dilavando il terreno dall’alto, ha riempito in epoca post-romana valli come quelle del Valentino e del Campo sotto San Michele e ha cancellato tracce di strade romane». Alla perdita d’informazioni dovuta agli agenti naturali si devono aggiungere, spiega l’autore, anche quelle prodotte dall’avidità o dall’incuria degli uomini. Episodi di statue frantumate a colpi di martello (come quella rinvenuta a Timberino), vasi e mosaici infranti sono gustosamente enumerati in uno dei capitoli, dove si racconta anche di una testa scolpita in pietra nera con la quale i ragazzini erano soliti giocare, fino al momento in cui non ne rimase più nulla.
La scomparsa di tanti reperti ha dato la stura alla fantasia della popolazione locale e di qualche dilettante straniero. Soprattutto sotto il segno di Tiberio, luoghi adibiti a occupazioni ben più prosaiche sono stati rivestiti di una coltre d’audace mistero, al punto che quasi ogni rovina, osserva Douglas, sotto la spinta della credulità degli stranieri, è stata mutata in una prigione o in un palazzo imperiale. La leggenda che faceva di Tiberio un principe vizioso e crudele costituiva il presupposto di tali fraintendimenti. Uno dei più famosi fra questi è imputabile a Svetonio e riguarda uno strapiombo dal quale il principe avrebbe gettato i condannati, perché, semiaffogati nell’acqua, fossero poi finiti a bastonate dai marinai.
Nel dissolvere i fantasmi d’antichi culti aboliti, d’atrocità imperiali, di passaggi sotterranei e di sirene, Douglas adotta uno stile che coniuga l’ironia volteriana al pragmatismo dello studioso anglosassone. Tanto più che lo scrittore si dimostra un ottimo conoscitore di marmi, pietre, mattoni e di tutti gli altri materiali di costruzione impiegati nel mondo antico. Tutte le notazioni storiche, archeologiche ed erudite su Capri di Douglas – confluite nel 1930 in uno dei bei volumi che a Firenze stampava l’editore avventuriero Giuseppe Orioli col titolo Capri. Materials for a description of the Island – rivelano una competenza che va ben oltre quella del semplice amatore. Ma l’ambito nel quale lo scrittore esercita con più abilità la sua critica è l’etimologia.
La sua vasta conoscenza delle fonti classiche e dei moderni resoconti di viaggio, la sua viva curiosità per la toponomastica lo portano a trattare con grande disinvoltura dell’origine più probabile di molti dei nomi dei siti capresi. Quanto a quello di Matromania, che si dà a una delle grotte, per esempio, confuta ch’esso possa derivare da una contrazione di magnum Mithrae antrum e considera risibile la voce Mitromania, usata per la prima volta da Speyer nel 1859. Altrettanto improbabile ritiene che la grotta di Lucina fosse sacra alla dea omonima, parendogli invece che dovesse chiamarsi così da un leccio che sovrastava l’altura («così che questo nome – scrive – è qui ritornato al suo significato originario: lucus a non lucendo»).
L’attitudine sovente credulona dei viaggiatori è stata assecondata negli anni dalla maliziosa gente del posto: «la Vergine e suo figlio – leggiamo nel capitolo dedicato ai tesori immaginari celati sotto la terra – sono adorati con feste, ma imitarne i comportamenti non è una prerogativa dei capresi. Nemmeno il demone più crudele terrebbe uno di questi figli della natura fuori da una grotta marina, se dentro ci fossero granchi per mezzo franco. Racconteranno le loro storie di diavoli, perché agli stranieri piace ascoltarli; gli stranieri sono persone piuttosto semplici per certi aspetti». Forse Douglas, che arrivò per la prima volta nel 1888 e cominciò a prendervi dimora più stabile a partire dal 1902, attribuisce ai capresi un po’ d’avidità e furberia di troppo. Ma come dubitare che in fondo un po’ di questo spirito scettico e pagano non dispiacesse al suo caustico buon senso inglese?
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