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| Irène Frain |
Tullia Bartolini
Il fattore K.
L’eterna storia della coppia aperta. Stavolta la spiamo da vicino, questa coppia, utilizzando i diari e le lettere che Simone scrisse a Nelson (perché le lettere di Nelson alla donna non sono mai state pubblicate e i suoi agenti non ne hanno mai autorizzato la divulgazione).
Attraverso quest’amore comprendiamo meglio (per converso) il legame che tenne assieme il padre dell’esistenzialismo e la francese che ragionava come un uomo.
La scrittrice bretone Irène Frain, sulla vicenda dei tradimenti reciproci di Simone de Beauvoir e
Jean-Paul Sartre, ha imbastito un romanzo molto bello, intitolato ‘Beauvoir in love’(*), che ha il grande merito di essere equidistante e impietoso nei confronti dei protagonisti.
Jean-Paul Sartre, ha imbastito un romanzo molto bello, intitolato ‘Beauvoir in love’(*), che ha il grande merito di essere equidistante e impietoso nei confronti dei protagonisti.
Siamo nel 1947, Sartre vive una passione ricambiata per una bella donna di origini algerine – ma trapiantata in America - di nome Dolores Vanetti, che Simone ribattezzerà ‘la maledetta’. Non è il solito amore contingente, Sartre è molto attratto dalla ragazza e Simone sa che, questa volta, aspettare non sarà sufficiente. Sta in guardia, osserva, è più vigile che mai. Raccoglie i dati, ricorda a Sartre il patto, non invade, avanza con estrema scaltrezza per evitare che lui possa sentirsi oppresso.
Naturalmente, si concede delle avventure: Nathalie, l’amica di sempre con cui fa l'amore di tanto in tanto; qualche amico che frequenta assieme a Jean Paul. Prova pure a proporsi a uomini sposati che, però, non se la sentono di tradire le proprie compagne.
Sta male. Ha solo trentanove anni, ma si sente vecchia. Si vede brutta: ha un incisivo rotto e le sembra di non avere più un corpo. Non va a letto con Sartre da otto anni; li unisce quello che tutti e due definiscono un amore necessario, in realtà si tratta – a guardare freddamente la questione - di una funzionalità: il loro rapporto è utile al successo, alla carriera e alle ambizioni personali di entrambi.
Simone viene invitata a New York per una serie di conferenze che poi si estenderanno anche ad altre città. Beve, dorme poco, prende amfetamine. C’è un ritornello, nella sua mente, che è sempre lo stesso: Sartre, Sartre, Sartre. Incontra anche Dolores; riesce a mantenersi fredda e calma. In lei c’è come un doppio: da una parte il Castoro, che distingue la mente dal corpo e non cade nella dolorosa trappola delle emozioni. Dall’altro c’è Simone, che soffre le pene di qualunque donna e che non ce la fa ad andare avanti, immaginando il suo uomo tra le braccia di un’altra. Ma: donne non si nasce, si diventa. Deve tener fede alle teorie che professa, resistere a dispetto di tutto. Non si accorge, nel far questo, di mentire a se stessa, di comportarsi come una femmina qualunque: una Penelope in attesa, silenziosa tessitrice di trappole, che vuole sapere e, forse, anche vendicarsi. Così incontra Nelson Algren. E, volente o nolente, senza alcun rispetto, sfoderando tutto il suo fascino, lo strappa alla donna che glielo ha fatto conoscere.
Nelson vive a Chicago ed è bellissimo. Nulla a che vedere con quel rospo di Sartre. Simone ci va a letto e Nelson si innamora o, almeno, si invaghisce di lei. Lei gli mente, gli nasconde le sue pene per
Jean-Paul, il fatto che lui frequenti un’altra donna. Non gli spiega che, tra lei e il filosofo, c’è un patto che fa riferimento all’amore necessario. Gli dice solo che sono anni che non hanno rapporti sessuali. Nicchia, prende tempo, è evasiva, vuol tenersi la capra e i cavoli.
Jean-Paul, il fatto che lui frequenti un’altra donna. Non gli spiega che, tra lei e il filosofo, c’è un patto che fa riferimento all’amore necessario. Gli dice solo che sono anni che non hanno rapporti sessuali. Nicchia, prende tempo, è evasiva, vuol tenersi la capra e i cavoli.
Perché, con Nelson, ha avuto il primo orgasmo della sua vita ed è resuscitata dalla terra dei morti. Anche Nelson diviene, per certi aspetti, funzionale ai suoi bisogni, esattamente come Sartre. Ma questa, è in fondo, una chiave di lettura razionale dei fatti; una valutazione che risponde proprio a quei canoni che i due intellettuali, sfidando i costumi, avevano deciso da sempre di confutare. Leggendo il romanzo, però, anche volendo giustificare la pochezza sentimentale, per certi aspetti, dei due fautori della coppia aperta, viene fuori una profonda contraddizione, soprattutto in Simone, tra l’amore libero e il suo contrario. L’infelicità e l’oppressione dettate dalla 'gelosia' sono sempre presenti, in tanta apertura mentale. Anzi, paiono minare le basi stesse di un anticonformismo controcorrente. La libertà concessa era soprattutto sessuale, fisica, quasi animale e Simone la riconosceva al suo uomo per tenerlo legato a sé, a costo di sofferenze atroci e continui ripieghi su incontri a buon mercato. Tutto questo con poca attenzione nei confronti degli amori contingenti.
Nelson fu, in fondo, solo una vittima dell’egoismo dei due intellettuali francesi, del loro patto segreto e del loro narcisismo. Non è un caso che – dopo anni di strazio e indecisione - non volle più sentire Simone, né rispondere alle sue lettere. Si era reso conto di essere stato solo una pedina in una storia non sua. Non seppe mai che Simone aveva portato con sé, nella tomba, l’anello che lui le aveva regalato: forse avrebbe riso, alzando appena il suo sguardo dalla macchina per scrivere, e non avrebbe aggiunto neppure una parola.
(*) Irène Frain, Beauvoir in love, traduzione di Elena Cappellini, Mondadori, Milano 2014
Simone de Beauvoir, La forza delle cose, trad. di Bianca Garufi, Einaudi, Torino 1966 [1963]
Quando tornò dall'America, Sartre mi parlò molto di M. [Dolores Vanetti] Adesso il loro attaccamento era reciproco e si ripromettevano di passare ogni anno tre o quattro mesi insieme. Va bene; la separazione non mi spaventava, ma lui parlava con tanto entusiasmo delle settimane passate con lei a New York che mi preoccupai; avevo pensato che fosse attratto più che altro dall'aspetto romantico di questa avventura; all'improvviso però mi domandai se teneva più a M. che a me; l'ottimismo ormai non era più radicato in me come una volta: poteva succedermi tutto. In una unione che dura da più di quindici anni quanto è dovuto all'abitudine? Quali concessioni comporta? Conoscevo la mia risposta, non quella di Sartre. Adesso lo capivo meglio di prima e proprio per questo lui per me era meno chiaro; c'erano delle grandi differenze tra noi, che non mi disturbavano affatto, tutt'altro, ma a lui? Dai suoi discorsi sembrava che M. condividesse esattamente le sue reazioni, le sue emozioni, le sue impazienze, i suoi desideri. Quando passeggiavano, lei aveva voglia di fermarsi, di continuare, proprio nello stesso momento in cui ne aveva voglia lui; forse questo era il segno che tra loro esisteva un'armonia profonda - alle fonti stesse della vita, nel suo sgorgare e nel suo ritmo - che Sartre non aveva con me e che poteva essergli più preziosa della nostra intesa. Volli chiarire la situazione. Spesso succede, quando ci brucia sulle lebbra una domanda pericolosa, che si scelga il momento meno adatto per liberarsene: stavamo uscendo dalla mia camera per andare a pranzo dai Salacrou quando gli chiesi: "Francamente, tenete più a M. che a me ?" "tengo evidentemente a M., - mi rispose Sartre, - ma è con voi che sto". Mi mancò il respiro. Mi sembrò che con queste parole volesse dire: "Rispetto il nostro patto, non chiedetemi di più". Una simile risposta metteva tutto l'avvenire in discussione. Feci molta fatica a sorridere, salutare la gente, mangiare; vedevo che Sartre mi osservava inquieto, mi feci forza, ma mi sembrava che la fine di quel pranzo non sarebbe mai arrivata. Nel pomeriggio Sartre si spiegò: avevamo sempre attribuito più significato al comportamento che alle parole; perciò, invece che perdersi in discorsi, si era affidato all'evidenza dei fatti. Gli credetti.
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| Dolores Vanetti Ehrenreich |



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