Paolo Di Stefano
Corriere della Sera, 12 luglio 2025
Un uomo dalle tante vite, passioni, amicizie, umori, rabbie, entusiasmi. Tra i ricordi usciti ieri, dopo la morte di Goffredo Fofi, quello di Sandro Ferri, l’editore di e/o, fotografava benissimo il carattere della persona e dell’intellettuale. Lo si dice troppo spesso per crederci, ma questa volta la scomparsa di Goffredo Fofi segna davvero la fine di un’epoca: il secondo dopoguerra del confronto, del conflitto intellettuale, delle discussioni aperte consegnate al fervore delle riviste. Fofi è stato, dopo l’esperienza dei «Quaderni piacentini», il più ostinato e geniale coagulatore di persone e di mondi, inventore di riviste che concepiva come luoghi di accoglienza e di contaminazioni tra vecchi e giovani, tra politica, cinema, critica, letteratura, intervento sociale, teatro, educazione, arte, fotografia, fumetto: «Ombre rosse», «Linea d’ombra», «La Terra vista dalla Luna», «Lo straniero», «Gli asini». Raccontare, studiare, far parlare le situazioni concrete, positive e negative. Questo era il proposito.
Nel 2001, quando «Lo straniero» divenne un mensile, Fofi disse che il vero piacere era ritrovarsi e discutere con insegnanti, operatori del terzo settore, scrittori, artisti, studiosi, cineasti, disegnatori, anche se non sempre avevano le stesse idee. La curiosità apriva in lui aree di speranza e anche di delusione. Una delle grandi delusioni fu il venir meno, negli anni Novanta (vissuti in buona parte a Napoli), di una promessa implicita: l’idea che tante energie individuali della cultura libera di sinistra, dell’associazionismo e del volontariato si potessero unire in una nuova forza o area capace di incidere nella politica. Il suo contributo lo offriva con straordinaria generosità, burbera e però anche allegra, andando per periferie povere (specie nel Sud), lavorando con le scuole dei margini, con i malati, con i poveri, con i detenuti, con gli immigrati, con quelli che un tempo si potevano chiamare gli zingari e i matti.
Fofi nasce a Gubbio il 13 aprile 1937 (essendo nato in casa, solo il 15 fu dichiarato all’anagrafe) da genitori modesti contadini-artigiani (il padre aggiustava biciclette) presto emigrati per lavoro in Francia, dove il piccolo Goffredo vive gli orrori della guerra e assiste a una strage di civili compiuta da una squadra di nazisti. A Parigi si innamora precocemente del cinema: passione della vita (come racconta qui accanto Paolo Mereghetti). È stato un intellettuale impegnato sul campo, diceva di odiare «gli scrittori che scrivono bene e basta», stava dalla parte di Camus che diceva che la solidarietà si fonda sulla rivolta. L’impegno sociale Fofi lo conosce presto. Sin da ragazzo, quando diciassettenne, dopo il diploma magistrale, parte in Sicilia per raggiungere il filosofo della non violenza, Danilo Dolci, a Partinico, dove lavora con i braccianti contro le mafie, promuovendo con i disoccupati gli «scioperi al rovescio». Ne viene buttato fuori con un «foglio di via». Una vicenda raccontata in Quante storie, recente raccolta di ritratti e ricordi. Finita l’esperienza con Dolci (descritto nel diario del ’60, Strana gente, come un «facciatosta» e «trombone») si avvia verso un altro lavoro di comunità, in Calabria, negli ospizi, negli ospedali psichiatrici per bambini. Raccontava di aver dovuto accompagnare un bambino a fare un elettrochoc, tenerlo per mano prima e dopo, abbracciarlo, consolarlo con vergogna infinita. Si trasferisce a Roma, dove conosce Giliola Venturi, si avvicina all’altro Gandhi italiano, l’amato Aldo Capitini, a Ernesto De Martino, a Manlio Rossi-doria, a Norberto Bobbio, a Ernesto Rossi. Conosce Elsa Morante, la preferita, «rabdomante zingaresca», entra nel giro dei suoi giovani amici e pupilli. Più tardi, a Napoli, anima la Mensa dei bambini proletari.
Ovviamente la sua vitalità, l’impeto pasoliniano (pur con tutti i dubbi che aveva maturato sull’antiprogressivo Pasolini) contro l’omologazione della modernità, contro il consumo folle, le logiche e le lobby di ogni potere, gli hanno procurato le ostilità del cinismo dell’establishment di destra come di sinistra. Ma non bisogna dimenticare che le idiosincrasie spiazzanti e gli slanci mutevoli convivevano in Goffredo con un lato di lieve allegria. Scopriva in continuazione piccole realtà locali, gruppuscoli marginali, voci e volti inediti, soprattutto
giovani: da Baricco a Leogrande, per dirne solo due. Ai suoi «discepoli» richiedeva rigore e coerenza, e talvolta bastava poco per rimanerne deluso, se intravedeva in loro la furbizia o la ricerca del successo. In Zone grigie, nel 2011, motivava il suo disgusto per il «lieve degrado verso la stupidità» e censurava la cultura corrente come «oppio dei popoli» (disse che avrebbe potuto intitolare quel libro Odio di classe, ma l’odio non gli apparteneva, semmai il disprezzo).
Ha fiancheggiato il lavoro di tanti scrittori e scrittrici di diverse generazioni che non ha mai cessato di amare: Volponi, Ermanno Rea, Ramondino, Ferrante, Atzeni, Benni, Lagioia, Falco… E non solo scrittori, anche disegnatori, attori e registi (Ciprì e Maresco, Bergamasco, Emma Dante, Rohrwacher), cantanti (è stato tra i primi a scrivere di Capossela). Da consulente editoriale per decenni ha segnalato anche nomi stranieri sconosciuti in Italia, di area sudamericana, francese, nordamericana. C’erano poi le amicizie di una vita: quelle dei fondatori dei «Quaderni piacentini», Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, e i compagni di strada, Cesare Cases, Franco Fortini, i due dissidenti einaudiani, Francesco Ciafaloni e Luca Baranelli, Renato Solmi. È rimasta incisa nella storia dell’editoria la bocciatura della sua Inchiesta sugli immigrati meridionali a Torino, che nel 1963 provocò una frattura politica dentro l’Einaudi e che uscì poi da Feltrinelli.
Nella sua lunga e operosa esistenza, Fofi ha sposato «l’ottimismo della disperazione» di Heinrich Böll: Sono nato scemo e morirò cretino è il titolo di una sua antologia di interventi critici, che avrebbe voluto come ironico titolo di una ideale autobiografia mai scritta. Spirito sostanzialmente libertario, pedagogo popolare, ammiratore di Orwell e di Silone, di Carlo Levi e di Adriano Olivetti, dei teologi disobbedienti, laico che parlava ai credenti, convinto assertore di un confronto tra anarchismo e cristianesimo povero, vegetariano per responsabilità etica e politica (Non mangio niente che abbia gli occhi è un altro suo titolo), Fofi ha espresso il suo attivismo critico in numerosi giornali, dall’«unità» al domenicale del «Sole 24 Ore», dal «manifesto» a «Internazionale», da «Panorama» a «Avvenire». Ultimamente, commentando lo stato attuale del mondo, tra stragi quotidiane nelle famiglie e la ferocia delle nuove guerre, ha scritto: «Solo la fantascienza più dura ha già previsto e raccontato tutto questo».
Sandro Ferri
fondatore delle edizioni e/o
Libero, 12 luglio 2025
«Su Goffredo leggeremo tante cose, perché era un uomo dalle tante vite, dalle tante passioni, dalle tante amicizie, dai tanti umori addirittura. Lo voglio ricordare solo per un paio di queste cose straordinarie che erano sue e che ha sempre trasmesso agli altri. Mi faceva ridere. Negli ultimi anni abbiamo lavorato assieme alla collana Piccola Biblioteca Morale, che lui dirigeva per la nostra casa editrice. Abbiamo trascorso insieme molto tempo e i ricordi più belli sono quelli delle cento storie buffe che mi ha raccontato. Aneddoti con personaggi famosi come Luis Buñuel, Elsa Morante, Bianca Guidetti Serra, Fabrizia Ramondino, Alex Langer, Federico Fellini e moltissimi altri. Sempre divertenti, dissacranti ma con un lato di empatia. Coglieva gli aspetti contraddittori delle persone, i loro difetti e debolezze, ma con umanità. Era così: ti attaccava violentemente, ma poi ti abbracciava. Ti faceva morire dal ridere e, al tempo stesso, morire per una visione tragica che aveva del mondo.
Era un contadino cresciuto nelle campagne povere dell’Umbria ed era anche un intellettuale cosmopolita, capace di confrontarsi con l’immensa varietà del mondo. Non ho mai conosciuto un'altra persona come lui, in grado di tenere insieme tante visioni ed emozioni diverse e di trasmetterle agli altri. Ha sempre pagato il prezzo di questo anticonformismo e di questo coraggio e di questo rifiuto di chiudersi dentro gli asfittici recinti del nostro mondo intellettuale. Onore a te, Goffredo. Continueremo a ridere della follia e della meschinità del mondo».
Carola Susani
L'Osservatore romano, 12 luglio 2025
Negli ultimi anni, Goffredo Fofi (morto oggi, 11 luglio, a Roma) ce l’ho sempre in mente arrabbiato, sarcastico, affettuoso, me lo ricordo sollevare il bastone e scagliarlo contro la porta di un autobus che si chiudeva in faccia a qualcuno, irato contro l’ingiustizia, in uno sfogo che solo visto da fuori aveva qualcosa di teatrale. Sembra un’immagine donchisciottesca, e invece no, nessun mulino a vento, l’ingiustizia c’era stata e Goffredo d’istinto reagiva. Non credo che sia stato sempre così, ma credo che da un certo momento in poi sottotraccia l’ira ci sia stata. Mi ricordo la crudeltà ridanciana che metteva in scena quando un uomo più giovane secondo lui si dava arie, gli diceva professorino, lo liquidava. Aveva maturato un pessimismo profondo, da cui preservava, ma non sempre e non del tutto, i piccoli gruppi, gli amici.
Era nato nel 1937 e come molti della sua generazione era assetato di giustizia, era diventato subito consapevole del fatto che per rendere possibile la giustizia bisogna capire come stanno le cose, leggere la realtà, ed era convinto che fosse un lavoro da fare insieme agli altri. La sua passione pedagogica era legata alla sua passione per la letteratura e per il cinema, le due cose andavano insieme: per educare, ci vuole presa, a più voci, a partire da sguardi differenti, sulla realtà. La sete di giustizia era al fondamento della sua passione pedagogica e l’amore per l’arte ne era un corollario.
Abitando uno spazio terzo, stretto fra cattolicesimo e comunismo, aveva cercato negli anni un gruppo, uno spazio amicale, una specie di casa.
Nel 1955 era sceso in Sicilia per lavorare con Danilo Dolci, che portava avanti un progetto collettivo di sviluppo dal basso, che aveva la nonviolenza e l’ascolto reciproco come metodo. In quegli anni in cui fra Partinico e il Borgo di Dio a Trappeto intellettuali, architetti, scrittori, sociologi di tutto il mondo, aveva conosciuto Lorenzo Barbera, con lui aveva frequentato il Cepas, scuola per assistenti sociali fondata da Adriano Ossicini, poi lui prima, Lorenzo dopo, lasciarono Dolci, rimanendo però amici per tutta la vita.
La storia delle comunità di pensiero e di azione è sempre anche una storia di fratture, ma a volte invece ci si resta vicini. Lorenzo fu l’animatore del movimento per la ricostruzione dopo il terremoto del Belice del 1968, ne parlo perché al gruppo di Lorenzo si unirono i miei genitori, così che quando molto più tardi incontrai Goffredo, fu una specie di agnizione, riconoscemmo una forte aria di famiglia, di quel genere di famiglia parallelo che indica Fofi in Strana Gente (ripubblicato da Donzelli nel 2012).
Fra le molte cose importanti, fu in «Quaderni piacentini», con Bellocchio e Cherchi, dal 1968 in poi fu molto amico di Elsa Morante, fondò riviste, come «Lo Straniero», «Gli asini». Divenne a sua volta una casa, o almeno una stazione di sosta, per generazioni di cineasti, di scrittori, di giornalisti diversissimi fra loro, da Nicola Lagioia
Nel 1955 era sceso in Sicilia per lavorare con Danilo Dolci, che portava avanti un progetto collettivo di sviluppo dal basso, basato su nonviolenza e ascolto
a Roberto Saviano, da Lorenzo Pavolini a Giordano Meacci, da Nadia Terranova fino a Giulia Caminito, da Giuliano Battiston a Nicola Villa, sempre a lui molto vicino. Negli ultimi tempi gli dava profondamente rabbia che ai bambini fosse sottratta persino l’esperienza.
Massimo Raffaeli
il manifesto, 12 luglio 2025
Pensare a cos’abbia rappresentato per almeno due generazioni la figura di Goffredo Fofi è lo stesso che ritrovarselo davanti all’improvviso, sorridente, affettuosamente pungente nel suo socratico deambulare e intanto parlare, sempre partecipe, entusiasta anche nel dissenso, elegante di una sua speciale eleganza necessariamente delabré. Insomma Goffredo era Goffredo senza altri possibili aggettivi mentre la sua immagine poteva ricordare d’acchito un antico fraticello umbro (forse frate Leone, «pecorella di Dio») di quelli che stanno nei Fioretti e poi in Francesco giullare di Dio dell’amatissimo Rossellini ma rammentava anche un militante di base che abbia la voce arrochita in ore di assemblee, riunioni e discussioni dove peraltro Fofi prodigava il tesoro di una memoria sterminata (una anagrafe coi nomi di tutta quanta la letteratura, il cinema, la politica) la quale riaffiorava a cadenza in aneddoti all’improvviso trasformati in apologhi e parabole morali e politiche.
PERCHÉ FOFI HA SCRITTO TANTO e però da intellettuale naturaliter cristiano (una sua stella fissa è stata Aldo Capitini) ha sempre creduto che la verità della letteratura, pari a quella del cinema o di qualunque altra espressione artistica, stesse in ultima istanza fuori della letteratura, ovvero che se presa in sé stessa, o ridotta appena a sé stessa, la letteratura non fosse altro che una stolta o ambigua decorazione. Viceversa, per usare le parole di Franco Fortini (altro suo riferimento cruciale e insieme controverso), voleva che essa diventasse «cibo di molti» e cioè si traducesse o se non altro alludesse a un ethos, a una coerenza tra il dire e il fare, a una allegoria indirizzata, nella consapevolezza di mancarla ogni volta, verso la ricerca di una propria verità.
Prima e più che un critico (che da giovane, sfogliando le annate di Quaderni Piacentini o Ombre Rosse, poteva sembrare intransigente e persino efferato), Fofi era divenuto uno sparring degli scrittori, un vero e proprio compagno di via. E qui basta scorrere uno dei tanti libri il cui titolo è forse il più rivelatore nella sua insolenza, Le nozze coi fichi secchi. Storie di un’altra Italia (L’ancora del mediterraneo 1999), per ritrovare la costellazione dove accanto ai maestri secolari di una sinistra libertaria e fieramente antistalinista (Silone, Camus, Victor Serge, Nicola Chiaromonte) compaiono fisionomie dei grandi outsider con cui Fofi è entrato in contatto e a volte in intersezione, da Raniero Panzieri, il fondatore di Quaderni Rossi, all’economista Manlio Rossi-Doria, allo scrittore e meridionalista Danilo Dolci e a Danilo Montaldi, l’autore delle stupende Autobiografie della leggera, pioniere della ricerca sul campo e della storia orale che molto lo influenzò nella stesura del primo libro, un’opera pionieristica che sarebbe riduttivo definire di sola sociologia, L’immigrazione meridionale a Torino, edita da Feltrinelli nel 1964 (dal 2009 è nel catalogo di Aragno) dopo che Einaudi l’aveva rifiutata, per non avere grane con la Fiat e La Stampa, licenziando in tronco i redattori Panzieri e Renato Solmi che l’avevano sostenuto.
Ma c’è un altro libro che rappresenta, per così dire, il canone fofiano ed è Scrittori per un secolo. I narratori, i poeti, i saggisti italiani del ‘900 (Linea d’ombra, 1993) costruito sulle immagini fotografiche di Giovanni Giovannetti. Il centro pulsante è, in funzione anti-ermetica e più generalmente anti-accademica, la poesia di Saba, così calda di vita e fraterna al lettore, mentre le diramazioni vanno verso una letteratura di figure laterali e presunti minori che in realtà si scoprono maggiori, da Emilio Lussu (l’autore di Un anno sull’altipiano) al sempre poco rammentato Piero Jahier, da Alberto Savinio a Fausta Cialente, da un poligrafo geniale quale Luigi Bartolini, a Noventa, Carlo Levi, Brancati, Bilenchi, Volponi, Flaiano.
SOLO DELLE NUOVE AVANGUARDIE e del Gruppo 63 non v’è traccia perché Fofi diffidava in genere delle costruzioni intellettualistiche e, in particolare, delle opere uscite dal Gruppo 63 che riteneva così à la page da trasformarsi subito in esercitazioni accademiche. L’epicentro della seconda metà del secolo per lui è invece Elsa Morante su cui non ha mai smesso di scrivere e di interrogarsi, facendo del libro più amato Il mondo salvato dai ragazzini (data topica d’uscita: 1968), una bibbia personale all’insegna della libera inventiva da basso che contesti il potere (politico, economico, militare, accademico) sempre esercitato dall’alto.
E non è un caso che Fofi, maestro elementare, umbro che si sentiva in cuor suo napoletano e cittadino del Sud universale, si sia sempre interessato alla pedagogia antiautoritaria e a figure come don Milani e Paulo Freire. Né va mai dimenticato il suo impegno di talent scout appassionato e molto generoso, pure se dolcemente assillante come sanno esserlo solo i frati questuanti: in Italia non si vedeva un simile esempio di fervore organizzativo dai tempi di Elio Vittorini, leggendario promotore di riviste e di collane editoriali. Al riguardo, è sufficiente scorrere il sommario dei periodici che Fofi ha fondato (da Ombre Rosse e Linea d’ombra alle più recenti Lo Straniero e Gli asini) per constatare l’infinità degli autori ospitati e, talvolta, da lui direttamente promossi: per stare ai soli narratori fra gli altri vi compaiono Gianni Celati, Giorgio Pressburger, Pier Vittorio Tondelli, Claudio Piersanti, Luca Doninelli, Giorgio van Straten, Stefano Benni, Alessandro Baricco, Maurizio Maggiani, Roberto Saviano e Lorenzo Pavolini.
FRA I TITOLI DEL SUO DIORAMA bibliografico spicca un libro-intervista che ben testimonia del talento prodigato in un’eterna ricerca di sé e dei propri compagni di via, La vocazione minoritaria (a cura di Oreste Pivetta. Laterza, 2009) dove Goffredo Fofi, involontariamente, scrive non soltanto il suo testamento ma anche il proprio autoritratto etico-politico.
Antonio Lamorte
l'Unità, 11 luglio 2025
Goffredo Fofi era conosciuto come critico cinematografico e letterario, come scrittore lui stesso. Saggista, ma anche educatore, animatore culturale di riviste che hanno formato romanzieri e intellettuali. È morto a 88 anni uno dei personaggi più polivalenti, prolifici e non catalogabili della cultura italiana. Non aveva mai rinunciato all’impegno civile, alla costruzione di nuovi progetti contro la cultura che si propone soltanto come intrattenimento e all’individualismo alimentato dalla società consumistica del capitalismo.
Era nato a Gubbio, in Umbria, nel 1937. Figlio di artigiano socialista, aveva sviluppato da subito una passione spontanea per i libri e i film nonostante la famiglia di umile estrazione sociale. Ha vissuto principalmente a Roma e a Napoli ma ha trascorso lunghi periodi di permanenza in tutte le città italiane, ogni volta un’occasione per approfondire caratteristiche culturali, editoriali, sociali, antropologiche. A Palermo aveva per esempio lavorato come assistente sociale con il filosofo e attivista antimafia Danilo Dolci, il “Ghandi Italiano”, nel periodo degli scioperi al contrario.
A Napoli aveva animato la Mensa dei bambini proletari. A Torino aveva osservato quel movimento interno da Sud a Nord che lo aveva portato alla pubblicazione del suo primo libro, L’immigrazione meridionale a Torino. È stato vicino ai movimenti studenteschi e della sinistra extraparlamentare tra gli anni Sessanta e Settanta. Lontano anche dal Partito Comunista Italiano, era stato catturato nei primi mesi dal Sessantotto per finire profondamente deluso dal movimento.
Fofi ha animato riviste come i Quaderni piacentini, La Terra vista dalla Luna, Ombre Rosse, Linea d’Ombra e Gli Asini. Prova della sua predilezione per il lavoro di gruppo, il confronto, la squadra. Ha alimentato e partorito realtà editoriali e letterarie a partire dagli anni Sessanta. Alle sue riviste hanno collaborato scrittori come Alessandro Leogrande, Nicola Lagioia e Roberto Saviano. Fofi ha collaborato con diversi quotidiani, negli ultimi anni scriveva regolarmente sul settimanale Internazionale. Passati alla storia della critica i suoi lavori su Totò, Alberto Sordi, Marlon Brando. Riabilitazione memorabile anche quella di Nino D’Angelo, dell’album Tiempo del 1993 che contiene Ciucculatina d’a ferrovia.
“Con la sua attività di animatore e organizzatore di cultura – la nota del ministro della Cultura Alessandro Giuli – Goffredo Fofi ha saputo incidere come pochi altri sul dibattito italiano contemporaneo, ponendo questioni di grande interesse attraverso un approccio produttivo di nuovi significati. Il suo genuino coinvolgimento nei temi del meridionalismo, il suo confronto con il pensiero di Gaetano Salvemini e Manlio Rossi-Doria, la sua capacità di rivalutare e rileggere espressioni popolari come cultura alta, hanno aperto inediti percorsi intellettuali. Ricordando la sua opera voglio esprimere ai suoi familiari le mie condoglianze, e la vicinanza mia e del Ministero della Cultura”.
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