lunedì 7 luglio 2025

Lenin imbalsamato

L'ingresso del mausoleo 

Boris Souvarine
Stalin (1935)

Benché Lenin non partecipasse più alla direzione del Partito e dello Stato, il suo tenue legame con la vita manteneva tuttavia nel bolscevismo il rispetto di una certa tradizione marxista formale, arginava ancora la tendenza degli eredi a sacrificare i princìpi agli interessi immediati del potere, conteneva infine le ambizioni in­torno all’eredità di Ottobre. La sua morte [21 gennaio 1924] libera da ogni scrupolo dottrinale gli epigoni, che mettono liberamente in atto la propria iniziativa, rivelando a poco a poco la vera natura del loro dominio. Le prime misure adottate al Politbjuro estendono il lutto imponendolo in vari modi a tutta la popolazione con l’intento di sfruttarlo a fini particolari. A Mosca la milizia ordina, sotto pena d’ammenda, di esporre le bandiere e di abbrunarle prima ancora che se ne cono­sca il motivo. Col pretesto di onorare il ricordo del defunto, l’apparato ricorre ai più grossolani artifici delle religioni feticiste, modernizzati dai metodi della pubbli­cità più triviale. La stampa comincia a suscitare una mistica fittizia, a elaborare un culto di circostanza per sottomettervi la folla ignorante che sarebbe suo compito illuminare. Imbalsamato come un faraone, il corpo del grande rivoluzionario materialista è usato per intermi­nabili e spettacolari cerimonie, esposto in permanenza alla curiosità pubblica, suscitata, attizzata e alimentata con tutti i mezzi, catturata e convogliata in un corteo quasi perpetuo. Davanti al muro del Cremlino un santuario consacra l’inconsapevole oltraggio dei leninisti alla memoria di Lenin. Vi si attirano i curiosi, vi si mandano i lavoratori obbligatoriamente in orario di lavoro, vi si trascineranno i bambini, in attesa della processione senza fine di contadini superstiziosi mesco­lati a turisti increduli… La tomba di Karl Marx, nel cimitero di Highgate, consiste in una semplice pietra. Le spoglie di Engels furono incenerite, l’urna delle ceneri gettata nel mare del Nord. Ma nel XX secolo, nell’unico paese il cui regime si richiami al Manifesto comunista, una salma illu­stre sarà esposta con grande cerimoniale in un monu­mento sepolcrale, ispirato al mausoleo di Tamerlano. Il contrasto è significativo non solo negli aspetti esteriori, poiché all’imbalsamazione delle spoglie di Lenin corri­sponde nell’Internazionale comunista la mummifica­zione dell’opera del suo fondatore, la cristallizzazione del suo pensiero incompreso da coloro che se ne procla­mavano eredi naturali e detentori qualificati, ma che invece non erano neppure capaci di comprendere l’anti­co detto: «I grandi uomini hanno per tomba l’universo intero». Non era sufficiente che Lenin fosse stato un eroe, un superuomo, un genio; i triumviri della trojka lo trasfor­mano in una sorta di divinità di cui aspirano a essere considerati i profeti. Divinizzandolo, preparano la propria beatificazione futura. Secondo loro, Lenin sapeva tutto, aveva visto tutto, previsto tutto, detto tutto, pre­detto tutto. Il suo ritratto in piedi o a mezzo busto, di faccia e di profilo, modellato in statuette, coniato su medaglie, fuso in distintivi, tessuto su fazzoletti, stam­pato, inciso, sbalzato, ricamato, riprodotto a milioni di esemplari, soppianta le icone in una concorrenza di ortodossie rivali. La stessa effigie torna in modo ossessi­vo sui muri, nelle stazioni, nelle vetrine delle drogherie, e si moltiplica sui piatti, sui portaceneri, sui pacchetti di sigarette, sui più piccoli oggetti d’uso comune. Una iconografia pia e antiestetica illustra in bianco e nero e a colori una letteratura indigesta e ampollosa che traboc­ca in prosa e in versi. [...] Alcuni fotografano la poltrona di Lenin, altri collezionano le sue reliquie. Dappertutto ven­gono battezzate col suo nome città, strade, istituzioni, industrie, club, stadi, innumerevoli luoghi e cose. Pietrogrado diventa Leningrado, e ci sarà Lenino, Leninsk, Leninskaja Sloboda, Leninakan, Leninsk-Kuzneckij, Ul’janovsk, Ul’janovska. Uno zelo febbrile ispira i pro­getti commemorativi più bizzarri. Sotto il sottile strato di vernice, già sbiadita, delle teorie marxiste di importazione riappare il viso ben noto della vecchia Russia barbarica. Più di chiunque altro Stalin conduce l’orchestrazione di queste chiassose manifestazioni di delirio collettivo, in cui il farisaismo si unisce all’impeto spontaneo. [...] Anche ai tempi della Rivoluzione francese, dopo l’assassinio di Marat, la cronaca registrò numerose stranezze. Davanti alla sbarra della Convenzione, non mancò chi presentò una petizione per proporre: « Che il corpo di Marat venga imbalsamato e portato in tutti i dipartimenti… Che il mondo intero veda le spoglie di questo grand’uomo! »; un oratore al Club dei Cordeliers intonò un cantico: « Cuore di Gesù, cuore di Marat! »; alcuni apologeti attribuirono a vari luoghi il nome dell’Ami du peuple, per esempio chiamaro­no Montmartre Mont-Marat. Ma si trattava dell’e­spressione ingenua di una spontanea esplosione di emo­zione popolare, non di un calcolo cinico dei dirigenti, e inoltre i sans-culottes non pretendevano di professare il materialismo storico né citavano Il Capitale. E ci fu pure un Robespierre per rimpiangere che ci si occupasse « di iperboli esagerate, di figure retoriche ridicole e vuote di significato, invece di pensare ai rimedi che la situazione del paese esigeva » e opporsi alla assunzione al panteon di Marat, il quale aveva prevenuto con le sue proteste « questo affronto sanguinoso » e si era premunito scri­vendo: «Preferirei mille volte non morire mai piuttosto che dover temere un così crudele oltraggio». Ci fu un David per dichiarare alla Convenzione: «I suoi funerali avranno la semplicità che si addice a un repubblicano incorruttibile, morto in dignitosa povertà»; ci fu anche un Hébert per dire ai giacobini: «C’è chi vorrebbe far credere che noi vogliamo sostituire un culto con un altro. Costoro fanno processioni e cerimonie religiose per Marat come per i santi. Già in passato abbiamo impedito questa profanazione, manteniamo una rigoro­sa sorveglianza… ». Nella Russia sovietica, la sola Krupskaja fu tanto lucida e veramente fedele allo spirito di Lenin da incita­re i seguaci della fede leninista a moderarsi: « … non permettete che il vostro cordoglio per Il’ič assuma la forma di reverenza esterna verso la sua persona. Non erigetegli monumenti, non intitolategli palazzi, non organizzate solenni manifestazioni per commemorarlo, eccetera: a tutte queste cose egli attribuiva così poca importanza durante la sua vita, tutte queste cose gli erano così fastidiose. Ricordate quanta gente vive anco­ra in povertà e abbandono nel nostro paese. Se volete onorare il nome di Vladimir Il’ič, costruite nidi, asili, case, scuole, biblioteche, centri medici, ospedali, case per invalidi, eccetera, e soprattutto mettete in pratica i suoi insegnamenti». Ma questa voce discreta e dignito­sa non trovava ascolto nel concitato fervore dell’adora­zione ufficiale. Il Congresso dei soviet decise, come tutta risposta, di erigere sei monumenti…

Boris Souvarine, Stalin

Questo libro è il primo che abbia detto alcune essenziali verità su Stalin. E le ha dette così presto, e con tale nettezza, che la sua presenza ha accompagnato come un’ombra gli ultimi vent’anni di vita del capo sovietico, oltre che la sua fortuna postuma. Non solo: le ha dette per bocca di uno storico che era stato uno dei segretari della Terza Internazionale, uno dei fondatori del Partito Comunista Francese, collaboratore di Lenin, Trockij, Zinov’ev, Bucharin, Radek, Rakovskij, Klara Zetkin, Gramsci, Bordiga, infine amico e compagno di Simone Weil nelle lotte del sindacalismo rivoluzionario in Francia. Souvarine giunse dunque a capire la natura di Stalin e del bolscevismo dall’interno, e da un interno assai intimo, senza però che la sua visione fosse a sostegno di un certo bolscevismo contro un certo altro, come avvenne invece ai molti trockisti che denunciarono i misfatti di Stalin negli Anni Trenta. Souvarine presentò per la prima volta all’Occidente un’immane quantità di fonti e documenti, fino allora ignorati o letti rozzamente: e soprattutto illuminò questo materiale con una lucidità e una fermezza esemplari, che vi facevano risaltare non solo il profilo della persona Stalin ma quello che Souvarine chiamò il «disegno storico del bolscevismo».
Pubblicato a Parigi nel 1935, dopo complesse vicissitudini editoriali, lo Stalin di Souvarine ebbe un’edizione ampliata nel 1940 – e infine, nel 1977, dopo lunghi anni in cui il libro era introvabile e ricercatissimo, riapparve nell’edizione che qui si presenta, con l’aggiunta di un capitolo sugli ultimi anni di Stalin e di una preziosa prefazione in cui l’autore ha raccontato la tortuosa storia della sua opera. A Georges Bataille, amico di Souvarine, che gli chiedeva notizie sulle decisioni dell’editore Gallimard riguardo allo Stalin, André Malraux rispose: «Penso che lei abbia ragione e, con lei, Souvarine e i vostri amici, ma sarò dalla vostra parte quando sarete i più forti». Il tempo sembra aver rafforzato in modo inaudito, con le rivelazioni e i fatti che si sono sgranati negli anni, la posizione di Souvarine. Ma non per questo oggi il suo libro si pone dalla parte dei «più forti». Rimane il fatto che rare volte gli eventi hanno a tal punto accentuato l’attualità di un libro di storia contemporanea come in questo caso. Tre decenni prima che il mondo occidentale cominciasse a capire il significato della sigla GULag, Souvarine scriveva: «Se si pensa alle condizioni miserabili dei milioni di deportati, alle masse di forzati maltrattati e ai campi di concentramento nei quali una spaventosa mortalità apre larghi vuoti, ai campi di isolamento e alle carceri gremite, ai milioni di bambini abbandonati fra cui una esigua percentuale riesce a sopravvivere alle esecuzioni capitali e alle spedizioni punitive, in breve alle moltitudini “falciate a larghe bracciate” da Stalin, non c’è da stupirsi davanti agli immensi carnai di questa gigantesca prigione definita con doppia antifrasi “patria socialista”». (presentazione editoriale)

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