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| Kalman Bar, rabbino capo di Israele |
Mario Giro
Il futuro amaro di Israele
Domani, 31 luglio 2025
A Gaza c’è l’attualità dell’orrore che produce – come scrive Giuliano Ferrara - «una maledetta inversione della colpa» su Israele. Ci sono le morti dei bambini e degli innocenti (cinico sostenere che ve ne sono state altre nella storia per giustificarle), c’è l’orrida fame e la denutrizione, si vede a occhio nudo la quasi totale distruzione di case e alloggi (per impedire ai palestinesi di restare), si rilevano bombardamenti continui di ospedali, scuole, moschee e ora anche di chiese e così via.
Questo è l’oggi, ripugnante e disgustoso, che rende plausibile l’accusa al governo israeliano di compiere crimini di guerra. Ma ancora peggio si prepara il domani, infettato da un immane senso di umiliazione che schiaccia un popolo intero, considerato terrorista e punito in maniera collettiva.
Tutto ciò tornerà indietro come un boomerang. Israele non sa quello che fa, perché – accecato com’è da una furia vendicativa - non si rende conto di cosa l’aspetta nel futuro, di quale serpente velenoso (molto peggiore di Hamas) striscerà fuori dalle macerie per avvelenarlo a morte. Questo riguarderà anche chi viene considerato complice con tanta atrocità, come gli Stati Uniti e l’Europa.
Olivier Roy ricorda un fatto politico importante: Hamas non ha mai commesso attentati fuori dalla Palestina. Si rammenti che al contrario l’Olp di Yesser Arafat lo faceva. Tuttavia, dopo innumerevoli e sanguinosi attentati (anche in Italia), quest’ultima alla fine è stata considerata un partner del negoziato e tolta dalla lista nera. Perché con Hamas non è avvenuto?
Per la questione dell’islam estremista, cioè per il pregiudizio anti-islamico occidentale. Certamente c’erano e permangono buoni motivi per dubitare di Hamas, ma in politica e diplomazia occorre saper andare oltre il presente e guardare le cose con profondità storica.
Infatti gli Stati Uniti stanno negoziando direttamente con Hamas: è una forma di riconoscimento. Chi sostituirà Hamas in futuro non è detto che si limiterà a compiere azioni violente solo in Palestina: vi sono tutte le condizioni (a cominciare dal tasso d’odio smisurato cresciuto a Gaza) per formare nuovi terroristi peggiori dei loro predecessori. Avviene sempre così: è una lezione della storia.
Il dramma è che nessuno crede che sia possibile risolvere la questione palestinese con gli strumenti della politica. Questo perché la guerra viene presentata come una lotta esistenziale, ultimativa, un conflitto di civiltà, mentre si tratta – come sempre - di una guerra politica dalle ragioni territoriali: spazio e potere.
Né l’attuale maggioranza di governo in Israele, né Hamas possono accontentarsi di una banalizzazione del conflitto, cioè della sua riduzione alla verità concreta. Di conseguenza ne esaltano il significato con terminologia apocalittica e religiosa in modo da farcelo considerare unico e insolubile.
È il noto concetto di guerra totale in cui si punta all’annientamento dell’avversario. Si tratta di un’impostazione idealista distorta e ultra-romantica, che non ha nulla a che vedere con le cause reali della crisi ma che fa leva sulle emozioni, paure e isterie (sapientemente alimentate) dei due popoli e dei loro rispettivi tifosi.
Così anche la verità dei fatti non ha più senso ed è coperta dalla propaganda volta ad infiammare gli animi del proprio campo. Entrambi i protagonisti utilizzano tali tattiche, anche se per ora Hamas è vincente in termini di comunicazione e quasi più nessuno crede a ciò che dicono i canali ufficiali israeliani (smentiti d’altronde dagli stessi soldati, ufficiali, civili, media e dai parenti degli ostaggi).
Israele sostiene di fare una lotta al posto nostro, contro la barbarie disumana degli islamisti, ma è ciò che dicevano e dicono i peggiori regimi autoritari arabi. Come uscire da tale impasse? Tornando alla realtà concreta: c’è una terra da dividere tra due popoli. Per ora non possono vivere assieme: vanno condotti (e costretti) a separarsi. Per farlo occorre che le tre superpotenze siano d’accordo e premano unite. Difficile, ma possibile: si tratta di politica, non di altro.

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