lunedì 14 luglio 2025

Simone de Beauvoir su Carlo Levi


Simone de Beauvoir, La forza delle cose, Einaudi, Torino 1966 (1963)

L'Incaricato d'Affari francese tenne una cena a Palazzo Farnese; per la prima volta in vita mia indossai un abito da sera nero e lungo, anche se non scollato, che mi aveva prestato la moglie dell'addetto culturale. Temevo questa cerimonie, ma la grazia italiana ne addolciva la pompa. Carlo Levi intervenne senza cravatta, col colletto della camicia sbottonato. Alcune settimane prima il figlio di Jacques Ibert era venuto a "Temps Modernes" con un libro in mano: "E' uscito adesso in Italia e ha un enorme successo: lo sto traducendo". Si trattava del Cristo si è fermato a Eboli; l'avevo letto e dovevamo pubblicarne in novembre dei lunghi brani. Levi descriveva la vita di un villaggio del Sud dove per le sue idee antifasciste era stato relegato prima della guerra; ciò che di lui si poteva indovinare attraverso questo racconto mi era piaciuto molto e in carne e ossa non mi deluse. Medico, pittore, scrittore, giornalista, apparteneva al Partito d'Azione, erede del movimento Giustizia e Libertà creato in Francia dai fratelli Rosselli i quali avevano riunito contro il fascismo la borghesia democratica. Il Partito d'Azione, nato a Milano tra il 1941 e il 1942, aveva concluso con il PSI e con il PCI un patto di unità di azione, e con Parri alla presidenza del Consiglio aveva diretto il primo governo che ebbe l'Italia dopo la guerra. Si trattava di un piccolo gruppo, composto soprattutto di intellettuali, che non aveva contatto con le masse; qualche mese prima si era prodotta una scissione tra la frazione liberale e la frazione rivoluzionaria, di cui Levi faceva parte, era molto vicina ai comunisti. La nostra posizione somigliava alla sua. Parlando esercitava lo stesso fascino di quando scriveva. Pieno d'interesse per tutto, tutto lo divertiva e la sua insaziabile curiosità mi ricordava quella di Giacometti; persino morire gli sembrava un'esperienza interessante; descriveva la gente e le cose senza mai servirsi di idee generali, ma all'italiana, con aneddoti brevi e ben trovati. Abitava in un vasto studio all'ultimo piano di un palazzo; giù, ai piedi della scala monumentale - che il signore del luogo saliva un tempo a cavallo - c'era un dito di marmo grande quanto un uomo; sul muro, accanto alla sua porta si potevano leggere gli insulti scritti a matita dal padrone di casa che tentava invano di mandarlo via; c'erano anche le risposte di Levi. Non era difficile capire perché tenesse tanto a quella casa: dalle finestre che davano su Piazza del Gesù lo sguardo abbracciava l'intera città. Tra la farragine di carte, libri e tele che ingombravano lo studio, conservava con cura delle rose appassite: "Altrove si sarebbero già sbriciolate, - diceva. - Io ho un influsso benefico". Pensava di emanare un'influenza determinante non solo sui fiori ma anche sugli uomini: "Quest'anno non esporrò, - ci disse.- Mi trovo in un periodo di ricerca. I giovani pittori si metterebbero a imitarmi, e io invece non sono affatto sicuro di quello che faccio". Convinto della sua importanza non sembrava da questo trarne vanità: l'attribuiva a un'aura fluttuante intorno a sé, dovuta più a una specie di dono naturale che ai suoi meriti veri e propri; questo fluido lo teneva al sicuro da ogni disgrazia: il suo ottimosmo rasentava la superstizione. Durante la guerra aveva ritenuto inutile nascondersi, persuaso che un paio di baffi e degli occhiali bastassero a camuffarlo: lo si riconosceva lontano un miglio; per fortuna l'antisemitismo non aveva attecchito in Italia. Sensibile a tutti i piaceri della vita, aveva per le donne una devozione affettuosa, eccezionale in un italiano; inoltre era romantico; una sera, dopo averlo salutato, lo vedemmo con molta sorpresa arrampicarsi su un lampione e scavalcare una finestra.

Nessun commento:

Posta un commento