Hélène Sallon Bombardando Damasco, Israele impone le sue linee rosse al nuovo governo siriano
Le Monde. 17 luglio 2025
Il messaggio inviato al presidente di transizione Ahmed Al-Sharaa non potrebbe essere più chiaro. Israele esorta il governo siriano a " lasciare in pace" i drusi di Suweida e a ritirare le sue forze da questa città della Siria meridionale, dove gli scontri tra fazioni druse, combattenti tribali beduini e forze governative hanno causato oltre 300 morti in tre giorni, secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani. " Come abbiamo chiarito, Israele non abbandonerà i drusi in Siria e imporrà la politica di smilitarizzazione" nel sud del Paese, insiste il Ministro della Difesa israeliano Israel Katz. Promette "colpi dolorosi" se il messaggio non verrà recepito, mentre il suo esercito annuncia il rafforzamento delle truppe al confine siriano.
Di fronte al rischio di una nuova guerra, Ahmed Al-Sharaa non ha avuto altra scelta che arrendersi . In un messaggio televisivo trasmesso nella notte tra mercoledì e giovedì, ha confermato i termini del cessate il fuoco siglato poche ore prima con i notabili drusi di Suweïda. L'esercito siriano ha già iniziato il ritiro dalla città, la cui sicurezza è stata affidata a "fazioni locali e sceicchi drusi ", ha annunciato Al-Sharaa. Il presidente siriano ha accolto con favore la mediazione americana, turca e araba, che ha "salvato la regione da un destino incerto ". Di fronte a quello che ha denunciato come un tentativo di Israele di seminare divisione e caos in Siria, ha inviato un messaggio di unità ai 700.000 drusi siriani, promettendo loro protezione e giustizia per le atrocità subite durante i combattimenti.
Sfiducia nei confronti dei sunniti al potere
Il presidente Al-Sharaa non aveva altra scelta. Concentrato sul ripristino della sovranità di Damasco sull'intero Paese e sulla sua ricostruzione dopo quattordici anni di guerra, non ha né l'intenzione né i mezzi per affrontare Israele. Dalla caduta del presidente Bashar Al-Assad nel dicembre 2024, lo Stato ebraico ha effettuato oltre 800 attacchi aerei in Siria per distruggere i suoi siti militari e il suo arsenale. L'esercito israeliano, che ha stabilito un punto d'appoggio nella zona demilitarizzata siriana ai piedi delle alture del Golan, da esso occupata, si trova a 50 chilometri dalle porte di Damasco. Intenzionato a trovare un accordo di sicurezza, persino politico, con Israele, il signor Al-Sharaa ha accettato, su richiesta di Washington, di ritirare il suo esercito da Suweida per disinnescare la situazione, dopo che l'amministrazione americana non è riuscita a fermare gli attacchi israeliani.
La tregua che regnava da diverse settimane tra Israele e il nuovo governo siriano, impegnato in colloqui discreti, si è infranta lunedì. Israele ha iniziato a bombardare le forze siriane per impedire loro di prendere piede a Suweida. Lo Stato ebraico giustifica il suo intervento con il pretesto di proteggere i drusi siriani. I leader drusi in Israele stanno facendo pressioni sul governo di Benjamin Netanyahu a tal fine. Le fazioni druse siriane, che si rifiutano di rinunciare alla propria autonomia per integrarsi nelle forze nazionali, si sono avvicinate a Israele, con cui condividono la stessa diffidenza verso i gruppi islamisti sunniti al potere a Damasco.
"È possibile che questa preoccupazione israeliana per i drusi siriani coesista con quello che si potrebbe considerare un obiettivo più cinico: ovvero che la Siria sia uno stato debole, di fatto diviso in enclave autonome, settarie ed etniche ", sottolinea Aymenn Al-Tamimi, analista britannico-iracheno specializzato in Siria. L'interferenza israeliana ha ampliato la frattura tra i drusi siriani e il governo di Damasco, e tra i drusi stessi. Mercoledì, mentre l'influente leader religioso druso, Hikmat Al-Hijri, ha nuovamente chiesto aiuto a Israele e agli Stati Uniti e ha respinto l'accordo di cessate il fuoco con Damasco, altri leader religiosi hanno respinto qualsiasi ingerenza da parte dello stato ebraico.
Alberto Negri
Escalation in Siria: l’illusione del jihadista
il manifesto, 17 luglio 2025
... Forse Ahmed Al Sharaa, autoproclamato presidente e un lungo curriculum da jihadista, si era illuso, in parte, di essersi garantito la sopravvivenza. Prima con la mediazione saudita aveva stretto la mano a Trump, poi era entrato in trattative con Israele. Come ricordava ieri Michele Giorgio sul manifesto, Israele e Siria sono sedute ancora al tavolo negoziale in Azerbaijan, per allargare il Patto di Abramo voluto da Trump tra arabi e israeliani. Al Sharaa si è mostrato anche “volenteroso”, reprimendo con durezza le proteste dei palestinesi in Siria contro il genocidio di Gaza. E ha incontrato dieci giorni fa ad Abu Dhabi persino il capo per la sicurezza nazionale israeliano Tzachi Hanegbi per delineare i termini di un accordo.
Ma da ieri, come dimostra il bombardamento del palazzo presidenziale a Damasco, lo stesso Al Sharaa è entrato nel mirino di Israele, come lo sono già da un pezzo i leader di Hamas, degli Hezbollah libanesi e dei pasdaran iraniani. Al Sharaa «è un terrorista, un barbaro assassino che dovrebbe essere eliminato senza indugio», aveva detto solo ieri il ministro per la Diaspora di Israele, Amichai Chikli, in un messaggio sul suo profilo X. «Non possiamo restare inerti di fronte al regime terroristico islamista-nazista di Al Qaeda che deve essere combattuto», si legge nel messaggio.
Come se solo adesso in Israele, e qui da noi, si fossero accorti che Al Sharaa ha militato in Al Qaeda e nell’Isis prima di capeggiare a Idlib le milizie di Hayat Tahrir al Shams. Ma quando il jihadista è andato al potere con il sostegno della Turchia è stato salutato come il “liberatore” dalla dittatura di Assad, nonostante avesse sulla testa una taglia Usa da milioni di dollari.
In realtà qui bisogna intendersi su cosa vuole Israele – con gli Usa – in Medio Oriente dopo la tragiche esperienze dell’Iraq nel 2003 e dell’Afghanistan nel 2001, contrabbandate con il marchio della «esportazione della democrazia». In parte si è capito anche con la guerra “dei dodici giorni” contro l’Iran durante la quale Netanyahu ha agitato la bandiera del cambio di regime: una violazione della sovranità iraniana, attuata con il pretesto del nucleare, accolta con una certa diffidenza da una popolazione sempre più disillusa dal regime degli ayatollah ma che teme allo stesso tempo una discesa nell’inferno dell’anarchia, come accaduto nel vicino Iraq e nel confinante Afghanistan.
Come è scritto nell’ultimo numero di “Le Monde diplomatique”, l’idea del cambio di regime ottenuto con la forza – evocato per la Siria anche ieri da Israele – viene ormai sventolato da Netanyahu e dal suo governo per mettere sotto pressione i paesi del mondo arabo-musulmano che continuano a rifiutare qualsiasi normalizzazione finché non si avvierà una risoluzione della questione palestinese. Il messaggio è molto chiaro: lo stato ebraico è pronto a replicare ovunque il destino di Gaza e di Hamas, del Libano e degli Hezbollah.
A Israele della democrazia nel mondo arabo non importa nulla, casomai preferisce trattare con dittatori e autocrati sottomessi e manovrabili. «L’ unica democrazia del Medio Oriente» tiene molto al suo tratto distintivo: continuare, giorno dopo giorno, il genocidio strisciante di Gaza. Tutto molto «democratico», naturalmente, anche per noi.
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