sabato 30 novembre 2024

Vico e Joyce



Umberto Eco

... Poi pensate che Joyce
nell'opera matura
la concezion del tempo
tutta quanta struttura
sui ricorsi dell'ottimo
Giovan Battista Vico
(controllare nel Finnegans
s'è vero quel che dico)

Joyce said, "My imagination grows when I read Vico as it doesn't when I read Freud or Jung. " Joyce employed Vico's New Science as the basis of Finnegans Wake, as he employed Homer's Odyssey as the basis of Ulysses. In what ways are Vico and Joyce similar? To what extent is Vico an influence on Joyce? And in what ways can Vico's philosophy be newly understood when seen in relation to Joyce's use of it? .

Joyce ha detto: "La mia immaginazione cresce quando leggo Vico, cosa che non accade quando leggo Freud o Jung". Joyce utilizzò La Scienza Nuova di Vico come base per Finnegans Wake, così come impiegò l'Odissea di Omero come base per l'Ulisse. In che cosa Vico e Joyce sono simili? In che misura Vico ha influenzato Joyce? E in quali modi la filosofia di Vico può essere compresa in modo nuovo se vista in relazione all'uso che ne fa Joyce? 


Israele, il cambiamento che c'era già stato



Anna Momigliano
, Ritorno in Israele, per vedere com'è cambiato
Il Post, lunedì 7 ottobre 2024


Nell’ultimo decennio, forse negli ultimi due decenni, sono successe tre cose
 importanti e connesse fra loro. Primo, si è fatta strada l’illusione che la questione palestinese potesse essere dimenticata, che Israele sarebbe potuto andare avanti con l’Occupazione senza essere per questo in guerra. Secondo, quella che gli esperti chiamano la One State Reality: la Cisgiordania è stata annessa di fatto, se non sulla carta, la linea verde che separava Israele dai Territori occupati è come evaporata, per gli israeliani almeno (per i palestinesi, ovviamente, no), e il risultato è che l’Occupazione e il paese sono diventati tutt’uno.
Terzo, la vecchia guardia, la maggioranza di un tempo, sta diventando una minoranza. È un cambiamento demografico epocale. Fino a poco tempo fa gli ebrei laici, che credevano in uno Stato ebraico e democratico, con tutte le limitazioni e le contraddizioni del caso, erano una maggioranza netta, che conviveva con due minoranze con valori diversi: da un lato gli ultraortodossi, che non si riconoscono nell’idea di democrazia moderna; dall’altro i palestinesi con cittadinanza israeliana, che per ovvi motivi non si riconoscono nell’idea di Stato ebraico. Questi due gruppi, che oggi messi insieme rappresentano il 35 per cento della popolazione, sono anche quelli che tendono a fare più figli. Sono fatti collegati perché, volendo tirare le somme, l’Occupazione è entrata dentro Israele, l’ha contagiato come farebbe un virus.

Vado a Gerusalemme per trovare un’amica, giochiamo a fare le turiste, andiamo nella Città Vecchia, dove i negozi sono quasi tutti chiusi perché di turisti non se ne vede l’ombra, entriamo nel Santo Sepolcro che è deserto, tutto per noi.

Alloggio fuori dalle mura, a Emek Refaim, un quartiere verde e in tempi normali vivace, dove abitano molti americani e professori universitari. Era il quartiere di Hersh Goldberg-Polin, il ragazzo di 23 anni preso ostaggio il 7 ottobre e morto, pare giustiziato dai suoi carcerieri, ad agosto. Hersh nel quartiere lo conoscevano un po’ tutti, era molto attivo nella tifoseria dell’Hapoel, una delle due squadre di calcio di Gerusalemme, e negli ambienti di sinistra, ci sono le sue foto ovunque, appese sui balconi, nei ristoranti, davanti a una palestra, su qualcuna hanno incollato sticker dell’Hapoel o appoggiato una sciarpa.

Sono a Gerusalemme per vedere la mia amica, ma colgo l’occasione per incontrare un contatto di lavoro, una persona con cui volevo parlare dei cambiamenti che ho visto. «Una volta dicevamo che l’Occupazione corrompe, ma ormai dovremmo dire che l’Occupazione ha corrotto», mi racconta Yehuda Shaul, quando ci vediamo alla First Station, la vecchia stazione dei treni che oggi è un mercato semicoperto. Esattamente vent’anni fa, quando aveva appena finito il servizio militare, Yehuda ha fondato Breaking the Silence, l’ong di soldati israeliani che denunciano le violazioni dei diritti umani nei Territori, e ora lavora per Ofek, un think tank.

Il suo ragionamento è lo stesso che ho sentito da molti altri (su questo ha scritto un libro molto bello la politologa Dahlia Scheindlin): se ti abitui a opprimere gli altri con violenza, la violenza entra a fare parte di te. Per più di cinquant’anni Israele ha imposto un sistema antidemocratico nei Territori palestinesi che occupa, mentre si illudeva di potere restare una democrazia – magari imperfetta, ma pur sempre una democrazia – all’interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti. Ma alla lunga non puoi difendere la democrazia a casa tua mentre imponi una specie di apartheid agli altri. Alla fine anche il sistema antidemocratico entra a fare parte di te.

Ecco, la normalizzazione della violenza. Yehuda Shaul mi dice che quando è nata l’organizzazione, i racconti di Breaking the Silence su come erano trattati i palestinesi scioccavano il pubblico israeliano, la gente faceva domande, ora non se li fila più nessuno. Dal 2018 esiste perfino una legge che impedisce a quelli di Breaking the Silence di andare a parlare nelle scuole, non sia mai che gli alunni diventino troppo pacifisti.

Lui ha una teoria: il punto di non ritorno è stato nel 2016, con la vicenda di Elor Azaria, il paramedico dell’esercito israeliano che sparò a un miliziano palestinese già ferito e a terra, colpevole di avere sparato a un suo commilitone. Azaria finì in carcere, condannato da una corte marziale, ma il governo di destra lo dipinse come una vittima e costrinse il ministro della Difesa, che invece si era schierato coi giudici militari, a dimettersi. «Quello è stato lo spartiacque, il momento in cui la nuova classe dirigente ha detto alla vecchia che le regole non contavano più, ora comandiamo noi», dice Yehuda.

Quello che stiamo vedendo in questi mesi a Gaza è una reazione al 7 ottobre, ma anche il risultato della traiettoria che Israele aveva preso da un po’, un sostrato di incattivimento che c’era già prima, a cui si sono aggiunte la paura e la vendetta. Ricordo che nelle prime settimane dopo l’attacco di Hamas, gli amici e colleghi di Tel Aviv che vivevano nei rifugi dicevano speriamo che il conflitto non si estenda, che l’esito non sia quello in cui spera Hamas: costringere Israele a combattere in contemporanea su più fronti, in Libano, in Cisgiordania. Invece è successo, il conflitto si è esteso.

Qualche giorno fa l’Iran ha lanciato centinaia di missili su Tel Aviv e altre città. Nelle ore precedenti all’attacco, mi ha telefonato una cara amica, salutiamoci, mi ha detto, parliamo un po’finché ne abbiamo la possibilità. Intendeva dire che i suoi figli sono dei rompipalle e i miei pure, chissà quando ci ricapita di avere una mezz’ora, ma intendeva anche dire altro. Le notizie di questi giorni sono il Libano e l’Iran, spero che qualcuno le racconti bene quelle storie, perché l’unica storia che posso raccontare io è quella di Israele, e mi spiace davvero che sia una storia brutta.

venerdì 29 novembre 2024

Hegel e Stendhal, la vita che diventa precaria



Remo Bodei, 2014

La dialettica in Hegel costituisce l’elemento corrosivo; rappresenta la trascrizione in termini moderni di quello che era lo scetticismo antico. Essa serve, innanzitutto, a dimostrare l’inconsistenza dei concetti per come vengono presentati dall’intelletto, ovverosia come qualcosa di giustapposto e di tabellare. Tuttavia, il culmine del pensiero hegeliano non è rappresentato dalla dialettica, ma dalla speculazione, ossia la ricostruzione articolata e sistematica — ma allo stesso tempo mobile, quindi che si evolve — di tutto un determinato orizzonte. Per quanto riguarda, invece, l’idea di porre in evidenza gli aspetti legati al lavoro, alla disoccupazione, alle macchine e soprattutto, al denaro, questa mi viene dalla nuova esperienza, che abbiamo vissuto, delle crisi economiche e finanziarie. Da un lato, questo è un vissuto che fa guardare a quello che avevo scritto prima con occhi diversi, senza, tuttavia, inficiarne le altre parti. Ma è dovuto anche al fatto che, effettivamente, la pubblicazione delle Lezioni berlinesi e di Heidelberg hanno messo a disposizione una quantità di materiali che prima non si conoscevano. Essi rafforzano l’idea di uno Hegel lettore di testi di economia politica e di giornali inglesi e francesi, che conosceva banchieri e discuteva di sansimonismo, che era conscio di vivere nella Restaurazione, ovverosia in un’epoca prosaica rispetto ad un’epoca eroica precedente, un’epoca i cui caratteri sono fatti risaltare splendidamente ne Il rosso e il nero di Stendhal. Tale percezione mette alla luce, anche attraverso l’apporto di questi nuovi testi, quello che noi sentiamo, ossia di vivere in un’epoca in cui la vita è diventata precaria; non solamente perché la disoccupazione giovanile è aumentata, ma anche perché tutta l’esistenza nel suo complesso e il futuro si sono un po’ oscurati. La talpa anche presso di noi continua a scavare e non sappiamo in quali direzioni. Anche in questo senso, l’idea di Hegel è quella di mostrare che Das Kapital — il quale non è un’invenzione di Marx — domina la politica, nella misura in cui le strutture che lo costituiscono si sono rese indipendenti dal piano politico stesso. Le accuse a Hegel di essere uno statolatra, uno strenuo difensore dello stato prussiano sono, anche in questo senso, da ridimensionare. Egli vede che lo Stato è fortemente indebolito dall’economia e che la logica della società civile si sta sovrapponendo a quella politica. Per questo motivo, almeno all’inizio, egli cerca di porvi rimedio conferendo autorità allo Stato contro queste forze individualistiche proprie dell’economia. Inoltre, vede che l’effetto dell’apporto delle macchine è stato quello di produrre un eccesso; un eccesso che la gente non è più in grado di acquistare e che determina crisi economiche, le quali hanno come conseguenza la sollevazione, per esempio, degli operai inglesi che distruggono le macchine e la produzione di un’enorme miseria, ossia la plebe diffusa. Hegel si accorge che l’emigrazione nelle colonie non è più una soluzione sufficiente a fermare questi conflitti, poiché il denaro è diventato potenza incontrastata, la cui circolazione, tra l’altro, riproduce la medesima struttura del sistema, un “circolo dei circoli” che aumenta e si ingrandisce ogni volta. La crisi mostra l’insolubilità di tale conflitto; dal punto di vista politico, poiché si tratta di un’epoca farsesca, nella quale non si riescono a creare delle maggioranze, dal punto di vista socio-economico a causa della disoccupazione (Arbeitslosigkeit). Ma soprattutto, in questi testi si ha a che fare con uno Hegel straordinariamente eversivo, che dice che gli operai senza lavoro, senza pane (die brotlosen Arbeitern), hanno il diritto di rubare, poiché c’è un problema di sopravvivenza che è più importante della legalità. Qualcosa che oggi si direbbe nei circoli anarchici o nei centri sociali, ossia che la proprietà è un furto, etc. Hegel lo dice incidentalmente, anche perché era un uomo cauto, che sapeva di essere controllato dalla polizia, ma indubbiamente questi nuovi testi, di cui mi servo moltissimo nel libro, mostrano uno Hegel più ad amplio spettro. In questo libro* ho trattato Hegel non per farne un’apologia, né soltanto per liberare il suo pensiero dai fraintendimenti a cui era stato soggetto; queste operazioni erano certamente necessarie per comprenderlo meglio, ma anche per capire i suoi limiti. Il limite principale è che, sostanzialmente, lui pensa come un europeo. Di conseguenza, vede gli altri continenti e le altre culture come un qualcosa di non maturo, dove addirittura la filosofia è assente e c’è soltanto una forma di saggezza. Noi, invece, viviamo in un’epoca in cui le civiltà del mondo si confrontano, e la dialettica hegeliana nella sua forma classica non regge, così come dopo la sua morte l’architettura del sistema non funziona e ne vengono mutuate solamente delle componenti. La stessa cosa era accaduta in epoca ellenistica con la dissoluzione del modello aristotelico-platonico. Aristotele, per esempio, riguardo alla condotta umana, prendeva in considerazione vari elementi: la Τύχη, il caso, l’Ἀνάγκη, la necessità e il Tέλος, la finalità. Accadde che gli epicurei attribuirono grande importanza al caso, gli stoici alla necessità, mentre la finalità finì per essere irrisa già a partire dai neoplatonici. Allo stesso modo Hegel pensa che la sua struttura sia valida per la diagnostica, ma non per la prognostica e, pertanto, il sistema si sfalda, come si diceva prima, dando origine a dei frammenti incomponibili all’interno di una visione generale. Questo ha portato molti a denigrare l’idea di sistema, che sembra l’opera di un pazzo, mentre io, al contrario, ho cercato di mostrare come esso abbia un suo senso e come, sebbene questo sistema oggi non sia più edificabile, sia necessario partire da esso per comprendere Hegel, i suoi limiti e le sue possibilità e la coerenza presente nell’evoluzione del suo pensiero.

La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, Il Mulino, Bologna 1975

Microsoft Word - Intervista a Remo Bodei (last).docx (hegelpd.it)

Figli sani del patriarcato


Francesca Ghio, messaggio per Giorgia Meloni

Buonasera presidente, sono Francesca e sono morta a 12 anni e anche per colpa di persone come lei che, pur avendo il potere nelle mani, pur avendo gli strumenti per cambiare, scelgono di guardare da un'altra parte trovando continuamente un capro espiatorio e deresponsabilizzare le istituzioni, addossando al singolo. La colpa per evitare di risolvere il problema, nascondendolo dietro parole retoriche: sono figli sani di un sistema malato, non è uno slogan è la realtà". 


Elena Cecchettin, Lettera al giornale
Corriere del Veneto, 20 novembre 2023


Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I «mostri» non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura. 

Viene spesso detto «non tutti gli uomini». Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini. Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto. È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio. 

Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’ amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto.

Crimini gravi, non un genocidio



Liliana Segre, Attenti alle parole: a Gaza crimini gravi, non un genocidio
Corriere della Sera, 29 novembre 2024

Le parole, a volte, diventano clave. Negli ultimi mesi ho fatto appelli per il cessate il fuoco, ho
condannato le violenze, ho espresso la più profonda partecipazione al dramma delle vittime innocenti palestinesi e israeliane, ho invocato un rispetto sacrale verso i bambini di ogni nazionalità, di ogni credo, di ogni religione, ho manifestato ripulsa verso lo spirito di vendetta.

Eppure, o ti adegui e ti unisci alla campagna che tende ad imporre l’uso del termine «genocidio» per descrivere l’operato di Israele nella guerra in corso nella Striscia di Gaza, o finisci subito nel mirino come «agente sionista».

Le cose in realtà sono più complesse e colpisce che alcuni tra i più infervorati nell’uso contundente della parola malata si trovino in ambienti solitamente dediti alla cura, talora maniacale, del politicamente corretto, del linguaggio sorvegliato che si fa carico di tutte le suscettibilità fin nelle nicchie più minute.

Nella drammatica situazione di Gaza non ricorre nessuno dei due caratteri tipici dei principali genocidi generalmente riconosciuti come tali — il Medz Yeghern degli armeni, l’holodomor dei kulaki ucraini, la Shoah degli ebrei, il Porrajmos dei rom e sinti, la strage della borghesia cambogiana, lo sterminio dei tutsi in Ruanda — mentre sono piuttosto evidenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano.

I caratteri tipici dei genocidi sono essenzialmente due, uno è la pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria, l’altro è l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra. Anche i genocidi commessi durante le due guerre mondiali (armeni, ebrei, rom e sinti) non ebbero la guerra né come causa né come scopo, anzi furono eseguiti sottraendo uomini e mezzi allo sforzo bellico.

D’altronde, anche di fronte ad operazioni militari volte intenzionalmente a produrre vittime civili e che hanno causato morti innocenti nell’ordine di decine di migliaia (Dresda) o centinaia di migliaia in pochi giorni (Hiroshima e Nagasaki) o addirittura un milione (assedio di Leningrado), non si è mai parlato di genocidi.

L’abuso della parola genocidio dovrebbe essere evitato con estrema cura per più di una ragione.

In primo luogo, solo coprendosi occhi e orecchie si può evitare di percepire il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro. Un complesso di colpa collettivo prodotto dalla storia si scioglie in un rabbioso sfregio liberatorio verso lo Stato ebraico di Israele, non solo equiparandolo ai nazisti ma rinfocolando tutti i più vieti stereotipi sugli ebrei vendicativi, suprematisti, assetati del sangue dei bambini non ebrei. L’impennata delle manifestazioni di antisemitismo nel mondo, a livelli mai visti da decenni, dimostra l’effetto devastante delle tossine che sono tornate in circolo.

In secondo luogo, l’accusa strumentale del genocidio proietta sull’intero Stato di Israele e su tutto il popolo israeliano — non solo sul pessimo governo in carica — l’immagine del male assoluto. Una demonizzazione ingiusta, ma anche controproducente per le prospettive di pace e convivenza. Ogni riduzione dell’altro a mostro, ogni cancellazione manichea delle sue ragioni — vale per i sostenitori acritici dei palestinesi, ma vale specularmente anche per i sostenitori acritici del governo israeliano — serve solo a perpetuare la guerra, a rinsaldare la trappola dell’odio e ad allontanare il giorno in cui potrà, dovrà sorgere uno Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele.

In terzo luogo, la cultura antifascista e antitotalitaria ha avvertito da sempre le implicazioni velenose delle operazioni di negazionismo, riduzionismo, relativizzazione, distorsione o banalizzazione dei genocidi. Di lì passano inesorabilmente le rivalutazioni delle peggiori dittature e le campagne nostalgiche. Da lì parte il sistematico abbassamento degli anticorpi che sorreggono la coscienza democratica dei cittadini. Inquieta che anche alcuni di coloro che meritoriamente si dedicano alla tutela e alla trasmissione della Memoria sembrino non capire che lasciar passare oggi l’abuso del termine genocidio significa produrre una crepa in un argine. E se crolla quell’argine, domani, potrà passare ben altro.


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Riguardo al fatto se sia genocidio

Mark O'Connell: riguardo all'interrogativo se le azioni di Israele in Palestina possano essere considerate o no un genocidio, mi sembra molto difficile dare un senso a quello che stanno facendo se non si crede che, almeno, sia in corso un qualche progetto di pulizia etnica.

Rashid Khalidi: Devi capire un paio di cose. Uno, c'è un desiderio quasi inestinguibile di vendetta per quanto accaduto il 7 ottobre dello scorso anno: la distruzione non solo della divisione di Gaza dell'esercito israeliano ma di un gran numero di insediamenti lungo il confine con Gaza; l'uccisione del maggior numero di civili israeliani dal 1948; il rapimento di oltre cento civili e forse un centinaio di soldati; la distruzione del senso di sicurezza, che è la pietra angolare di come si vedono gli israeliani. Quindi la sete di vendetta per ciò che è successo sembra essere inestinguibile. Questa è la prima cosa.

La seconda cosa è che l'establishment israeliano ha un piano. Ogni volta che Israele è in guerra, attacca le popolazioni civili con la scusa che lì c'è un bersaglio militare. Ha sempre fatto questo. C'è sempre stato un bersaglio militare apparentemente da qualche parte, ma il punto non è mai stato solo quell'obiettivo militare. Il punto era anche punire i civili e costringerli a rivoltare contro i ribelli. Questa è la loro pratica e lo è sempre stata. È tratta direttamente dalla dottrina militare britannica. Pensate alle guerre britanniche in Kenya, andate in Malesia, e vedrete che l'esercito britannico ha fatto la stessa cosa. Il punto è, quindi, che stanno uccidendo di proposito i civili. Stanno rendendo la vita impossibile di proposito. Stanno rendendo Gaza apposta inabitabile, come mezzo - nelle menti contorte e criminali di guerra dello Stato Maggiore - per costringere la popolazione a rivoltarsi contro gli insorti.

E la terza cosa è che c'è un progetto coloniale nel nord di Gaza: riprendersi un pezzo di Gaza, svuotarlo della sua popolazione e piantare coloni. Questo può succedere o meno, ma molti ministri anziani hanno chiesto nuovi insediamenti lì. Tutti e tre quegli elementi, direi, spiegano le atrocità cui stiamo assistendo. Se questo non corrisponde alla descrizione del genocidio, basta buttare per aria la Convenzione sul genocidio. Non vale assolutamente nulla.




https://www.nybooks.com/articles/2024/12/19/israels-revenge-an-interview-with-rashid-khalidi-mark-oconnell/?srsltid=AfmBOopv9ybSPzESGKU5tZaNPDhRu77qmfcJ7ZESUJFw5VmqcTctZQUI




giovedì 28 novembre 2024

Pangloss, Candido e Cunegonda




Voltaire, Candido o l'ottimismo, 1759, traduzione di Maria Moneti

Garzanti, Milano 2008 (1973)

Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmologo-scempiologia. Egli dimostrava mirabilmente che non c'è effetto senza causa, e che in questo migliore dei mondi possibili, il castello di Sua Grazia il Barone era il più bello di tutti i castelli, e la di lui consorte la migliore delle possibili baronesse.

È provato, diceva, che le cose non potrebbero stare altrimenti: essendo tutto quanto creato in vista di un fine, tutto è necessariamente inteso al fine migliore. I nasi, notate, son fatti per regger gli occhiali: e noi infatti abbiamo gli occhiali. Le gambe non è chi non veda come siano istituite per essere calzate: e noi abbiamo appunto le calzature. Lo scopo delle pietre è di esser tagliate e murate in castelli: e Sua Grazia possiede precisamente un castello bellissimo. Il maggior barone della provincia ha da essere il meglio alloggiato; e i porci essendo creati perché si mangino, noi mangiam porco tutto l'anno. Ne consegue che coloro i quali hanno affermato che tutto va bene, han detto una castroneria. Bisognava dire che meglio di così non potrebbe andare.

Candido ascoltava con attenzione, e con innocenza credeva. Madamigella Cunegonda gli pareva infatti bellissima, quantunque non trovasse mai il coraggio di dirglielo. Secondo le sue conclusioni, il primo grado della felicità era quello d'esser nato Barone di Thunder-ten-Tronckh; il secondo, d'esserci la damigella Cunegonda; il terzo, di vederla tutti i giorni; il quarto, d'ascoltare Mastro Pangloss, il più gran filosofo di tutta la provincia, e perciò del mondo intero.

Cunegonda, passeggiando un giorno nei pressi del castello, capitò nel boschetto che aveva nome di parco, e vide tra le frasche il dottor Pangloss nell'atto d'impartire una lezione di fisica sperimentale alla cameriera della Baronessa, brunetta graziosa e docile molto. D'ingegno ottimamente aperto alle scienze, madamigella osservò senza fiatare le replicate sperimentazioni che si compivano dinanzi ai suoi occhi; notò chiaramente la ragion sufficiente del dottore, gli effetti e le cause; e se ne venne via tutta commossa, tutta pensierosa, tutta occupata dalla brama di addottrinarsi, parendole di poter essere lei molto bene la ragion sufficiente del giovane Candido, ed egli la sua.

Incontrò Candido mentre tornava al castello, e arrossì. Candido si fece rosso a sua volta. Ella gli diede il buon giorno con voce rotta, egli rispose senza saper quello che dicesse. Il giorno seguente, all'uscir di tavola dopo il pranzo, Candido e Cunegonda si ritrovarono dietro un paravento. A Cunegonda cadde il fazzoletto, Candido lo raccattò; ella gli prese innocentemente la mano, e innocentemente il giovane depose un bacio sulla mano della damigella, dando mostra d'una particolarissima animazione, grazia e sensibilità. Le bocche s'incontrarono, gli sguardi s'infocarono, le ginocchia tremarono, le mani si fuorviarono. Il signor Barone di Thunder-ten-Tronckh venne a passare accanto al paravento, e accortosi di quella causa e di quell'effetto, scacciò Candido dal castello a gran calci nel sedere. Cunegonda perse i sensi; appena li ebbe ritrovati fu presa a ceffoni dalla signora Baronessa. Il più bello e ameno di tutti i castelli fu in preda a una generale costernazione.

La strega



Jules Michelet, La Strega, traduzione di Stefano Lanuzza
Nuovi Equilibri, Viterbo 2005 


Unico medico del popolo fu, per mille anni, la strega. Imperatori, re, papi, i più ricchi baroni avevano qualche dottore di Salerno, qualche moro o ebreo; ma la grande massa, un po' tutti e d'ogni condizione, consultavano solo la Saga Saggia-donna. Non guarendo, la insultavano e le dicevano strega. Ma di solito, per rispetto e anche timore, la chiamavano Buonadonna Belladonna: lo stesso nome dato alle fate.

Le capitò quanto ancora capita alla sua pianta preferita, la belladonna, e alle pozioni benefiche da lei usate, rimedi dei grandi flagelli del medioevo. Il ragazzo e l'ignaro passante maledicono queste livide erbe senza conoscerle. I colori indefiniti li terrorizzano. Arretrano, s'allontanano. Eppure si tratta solo di lenitivi (solanacee) che, somministrati con misura, hanno spesso guarito e alleviato molti mali.

Li trovate nei luoghi più sinistri, solitari e pericolosi, tra macerie e ruderi. Anche in questo somigliano a chi li utilizzava. Dove se non in lande selvagge avrebbe potuto vivere quell'infelice così perseguitata, quella maledetta, reproba, avvelenatrice che guariva e salvava? La sposa promessa del diavolo e del Male in persona, colei che ha fatto tanto del bene, come dice il gran dottore del Rinascimento Paracelso: che, nel 1527, fece a Basilea un falò di tutta la medicina, dichiarando di non sapere niente oltre a quanto appreso dalle streghe.

Meritavano un premio. L'ebbero. Le compensarono con torture e roghi. S'escogitarono appositi supplizi, inediti strazi. Venivano giudicate in massa e condannate per una parola. Mai ci fu più spreco di vite umane. Per non dire della Spagna, classica terra di roghi dove non c'è moro né ebreo senza strega, se ne contano settemila a Trèviri e non so quante a Tolosa. A Ginevra, cinquecento in tre mesi (1513); ottocento a Würzburg, quasi in un'infornata; e millecinquecento a Bamberg (due piccolissimi vescovadi). Ferdinando II in persona, il bigotto e crudele imperatore della guerra dei trent'anni, fu costretto a controllare i suoi bravi vescovi: non avrebbero risparmiato un solo suddito. Nella lista di Würzburg trovo uno stregone undicenne, uno scolaro e una strega di quindici anni; a Bayonne due di diciassette, per loro disgrazia graziose.



A quando risale la strega? Rispondo senza esitare: "Ai tempi della disperazione". Della profonda disperazione causata dal mondo della Chiesa. Senza esitare, dico che "la strega è il suo delitto".

Nemmeno mi soffermo su ipocrite spiegazioni che vorrebbero minimizzare: "Debole, fragile era la creatura, facile alle tentazioni. La concupiscenza l'ha spinta al male". Ma, nell'indigenza e nella carestia dell'epoca, come poteva una passione portarla alla furia diabolica? Se la donna innamorata, trascurata e gelosa, se la ragazza scacciata dalla matrigna o la madre malmenata dal figlio (vecchi temi di leggende), hanno avuto la tentazione d'invocare lo spirito maligno, tutto questo non è la strega. Che queste povere creature invochino Satana, non significa che vengano accettate. Sono ancora lontane, ben lontane, dall'essere pronte per lui. Non hanno l'odio di Dio.
Per capire un po' meglio, leggete gli odiosi registri tramandati dall'Inquisizione non negli estratti di Llorente e Lamothe-Langon, ma in ciò che resta degli originali di Tolosa. Leggeteli nella loro piattezza, nella loro lugubre aridità così spaventosamente feroce. Bastano poche pagine, per sentirsi gelare. Vi assale un freddo crudele. La morte, la morte, la morte: ecco cosa si sente a ogni riga. Siete alfine nella bara, o in una stretta cella di pietra dai muri ammuffiti. I più fortunati vengono messi a morte. La cella, l' in pace, è l'orrore. Tale formula ricorre all'infinito, come una campana d'infamia che suoni e risuoni per avvilire i morti in vita. Sempre la stessa parola: Murati.

Orrifico sistema per annientare e opprimere, spietata pressa per schiacciare l'anima. Un giro di vite dopo l'altro, strozzata, zoppicante, schizzò dal marchingegno cadendo nell'ignoto. La strega, al suo apparire, non ha padre né madre; non ha figli, marito, famiglia. È un mostro, una meteora giunta chissà da dove. Chi, gran Dio, oserebbe avvicinarla?

mercoledì 27 novembre 2024

Il corpo delle donne mature


Cristina Battocletti, 50enni dal viale del tramonto al chirurgo plastico. Identità femminile, Il Sole 24ore, 25 novembre 2024

 Nell’incipit de Il corpo delle donne (Feltrinelli, 2010) l’autrice, Lorella Zanardo, racconta lo stupore e lo sconvolgimento nell’accendere la televisione nel pomeriggio e vedere una donna di mezz’età su un lettino, come in una sala operatoria, con medici e presentatori che simulano un intervento di lipoaspirazione. All’interno del libro, alcune immagini mostrano momenti di programmi televisivi in cui si plaude all’intervento chirurgico estetico al seno – che nulla ha a che fare con operazioni successive a un carcinoma – con palpazione della cavia in presenza.

The substance, il film di Coralie Fargeat ancora nelle sale con successi incerti, propone lo stesso sguardo misogino, spudorato, consumista e rapace sul corpo delle donne. Elisabeth, interpretata da un’ottima Demi Moore, è il volto di un celeberrimo programma televisivo americano di fitness. La sorprendiamo nel giorno in cui compie 50 anni in una forma fisica eccellente e, nonostante questo, viene cassata dal palinsesto. Di ricambio è fatta la società e in particolare quella dello spettacolo, ma la regista, che ha 48 anni, impernia tutta la sceneggiatura sul fatto che l’annuncio venga confezionato proprio al raggiungimento dei cinquant’anni, inducendo Elisabeth a mettersi in trappola con “The substance”, ovvero sottoponendosi a una dolorosa clonazione di sé stessa in versione giovane.

Guidata da una specie di memoria istintiva, sono andata a rivedere Sul viale del tramonto, finalmente trovando la frase che cercavo, cioè quando Joe Gillis (William Holden) rimprovera a Norma Desmond (Gloria Swanson): «Tu sei una donna di cinquant’anni. Apri gli occhi!». Swanson-Norma con i suoi amici incartapecoriti, sembra la rappresentazione della vetustà. Il film di Billy Wilder è del 1950, ma non molto è cambiato. Al corpo delle donne mature continua a non essere concesso di piacere alla gioventù, come dimostra l’altissimo ascolto di Inganno di Pappi Corsicato, una serie tivù piuttosto soap con Monica Guerritore che a sessant’anni ha un rapporto carnale e sentimentale con un trentenne. L’avidità con cui la serie è seguita, schizzando al vertice delle classifiche, è spinta dalla generale incredulità e scabrosità di quel legame oltraggioso per la morale. Mentre l’inverso è più che accettato, anche se ormai meno frequente.

«Assisto alla cancellazione dei volti delle donne mature dallo schermo televisivo come un’onta, una vergogna, un sopruso terribile contro tutte noi», scrive ancora Zanardo. A quarant’anni sono molte le donne che tirano quasi un sospiro di sollievo: niente più cat calling, niente più ammiccamenti consci o inconsci sulle rotondità fisiche, dal fruttivendolo al rapporto professionale. Finisce il tempo in cui una donna è “troppo bionda, mora o rossa” per essere anche intelligente, troppo piccola per non aver bisogno di essere “protetta”, troppo acerba “per essere presa in considerazione”. Ma quasi per tutte, a prescindere dalla forma fisica, raggiungere 50 anni è imperdonabile, una colpa verso la società. Senza volerlo, sono molti i maschi che non celano la propria delusione di fronte all’invecchiamento femminile: «Ma io ti ricordavo...», come se la donna non avesse messo abbastanza impegno a conservarsi una smagliante ventenne. A dispetto del film sci-fi-horror, artisticamente non riuscito, ma personalmente intrigante fino alla prima parte, quello che mette in rilievo The substance è che, nonostante tutti i propositi e i passi avanti, la nostra società è ancora legata a una tribale questione riproduttiva. A cinquant’anni, chi prima chi dopo, la donna entra in menopausa, il che sancisce l’impossibilità di procreare, cosa che non avviene per gli uomini. Siamo ancora dunque fondati sulla primitiva, ancestrale, crudele idea che la donna in fondo sia, prima di tutto, una macchina riproduttiva, un utero. Mi affiorano in testa alcuni versi di Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, anche se probabilmente l’autrice li ha scritti per altri motivi: «Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna?».

Le donne sono sempre sotto “giudizio fecondativo”. Se i figli hanno qualche grosso problema, è sempre legato a una madre assente (soprattutto se lavora) o troppo protettiva. Se non hanno figli, perché non usano la propria capacità riproduttiva, come se sprecassero un talento. Se non possono averli sono trattate come se avessero attirato una maledizione o uno stigma. Agli uomini non viene richiesto un ruolo da fuco e non attirano un giudizio collettivo sulla mancata paternità.

Lunedì scorso è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il ddl n. 824 sulla “gestazione per altri”, cioè il disegno di legge che rende la maternità surrogata reato universale. In Italia il ricorso all’utero in affitto era già illegale, ora la norma vieta agli italiani di ricorrere alla pratica anche all’estero. Oltre ad essere punita in termini detentivi e pecuniari, la Gda è ammantata di distinguo morali che pesano ancora sul corpo delle donne.

The substance, che inizialmente appare profondamente antifemminista proprio per lo sguardo famelico sul corpo delle donne, a un’analisi successiva e angosciata, risulta profondamente femminista. Raccogliendo pareri tra cinquantenni – anche chi scrive lo è –, il giudizio, al netto dello splatter finale, è che il film ha colpito nel segno. Il messaggio è: hai raggiunto i cinquanta? La società ti comunica che non sarai più “adorata” come prima (parole del film). Ribellati, goditi la tua età, i progressi che hai fatto, l’equilibrio psico-fisico raggiunto con l’esperienza. La regista Fargeat è stata molto astuta a volere come protagonista Demi Moore, una delle pioniere nel sottoporsi a molteplici interventi di chirurgia estetica per conservarsi “adorata”. E Demi Moore è stata all’altezza del gioco. Penso a Margaret Spada, morta a 20 anni per una rinoplastica, e poi a Boris Pahor, morto a 108 anni dopo 5 campi di concentramento, che preservava il proprio fisico con rispetto e senza violenza, come se avesse in uso per sorte un elemento spinoziano dell’universo. «Il corpo è l’unica cosa che possediamo», diceva sempre...


Théo van Rysselberghe (1862-1926)


















L'intrusa radicale

 


Viktor Nekrasov, Sovietico in Italia, Vallecchi editore, Firenze 1960

la genuina cucina italiana la conoscemmo qualche giorno dopo, ospiti di Linuccia Saba, la figlia del famoso poeta italiano Umberto Saba, ora morto. Non ricordo esattamente quello che ci fu offerto; ricordo soltanto che era tutto molto gustoso: Linuccia Saba è famosa per i suoi pranzi raffinati. Ma la sera trascorsa in in casa sua mi restò impressa non tanto per le pietanze che mi furono offerte, quanto per ciò che avvenne quando il pranzo finì.
Una breve nota scritta dalla nostra ospite e pubblicata sul giornale “Il Punto”, cominciava così:
“- Dei russi invitati a pranzo? – mi domandò la mia cuoca, e nei suoi occhi apparve la paura.
- Oggi da voi ci saranno veramente dei russi? – domandò la portiera, e i suoi occhi si accesero di un bagliore fanatico”.
Evidentemente, a provare questo interesse non furono solo la cuoca e la portiera della signora Saba, dal momento che alla fine del pranzo nell’accogliente appartamentino al sesto piano era difficile rigirarsi, tanti furono gli ospiti che arrivarono.
C’era anche Vasco Pratolini, l’autore del meraviglioso libro “Cronache di poveri amanti”, calmo, riservato, con lo sguardo un po’ triste sotto gli occhiali, e Giovanni Pirelli, il critico letterario Angelo Maria Ripellino, ancora giovanissimo, che parla correntemente il russo, autore di una ricca antologia di poesia russa. C’era, s’intende, anche Carlo Levi, sorridente e affabile, il principale animatore di questo incontro. Gli altri non li conoscevo.
Prendemmo posto in una piccola stanza arredata molto semplicemente, ma con gusto. E qui ebbe inizio una discussione che terminò, più o meno, alle tre di notte.
Non dirò che queste poche ore furono le più facili della mia vita. Il fatto è che, sebbene fossero passati pochi mesi dall’ottobre 1956, tutto quanto si riferisse all’Ungheria era ancora troppo fresco. I miei interlocutori, seduti tutt’intorno su divani, poltrone, tavoli e sul pavimento mi sottoposero per almeno due ore, ad un incrociato fuoco di fila. Non tocca a me giudicare quanto felici e convincenti siano state le mie risposte (…); ma alle due di notte eravamo tutti d’accordo che nessuno sarebbe riuscito a scuotere i rapporti amichevoli stabilitisi fra noi e che il modo migliore per rafforzarli era dire ciò che si pensa, difendere ciò in cui si crede, apertamente, francamente e fino in fondo.
Due mesi dopo, quando ero già a Kiev, lessi non senza sorridere, nel giornale italiano arciborghese “Il Mondo”, una specie di resoconto di quella serata. Anche in Italia avevamo sentito parlare di questo articolo, ma, chissà perché, non potemmo trovarlo. I nostri amici italiani, temendo evidentemente di guastarci l’umore, dicevano: Sciocchezze, non vale neppure la pena di leggerlo! E Carlo Levi, considerandosi fino a un certo punto il responsabile della serata, un po’ imbarazzato disse:
-Ma nessuno l’aveva invitata questa signora, benché si sia fermata “L’invitata”. Ne ha avuto sentore e si è presentata. Era impossibile non farla entrare.
È probabile che fosse veramente impossibile, ma, forse, sarebbe stato anche inutile, sebbene quando si va a un pranzo sia molto più piacevole trovarsi in una cerchia di gente che non stia seduta in un angolo con un block-notes. D’altra parte può anche darsi che l’”Invitata” non avesse alcun block-notes: la propria fantasia l’aveva sostituito felicemente. Lo giudico dal fatto che nell’articolo la mia persona era vestita, chissà perché, con una giubba di soldato, e io stesso ero descritto con l’aspetto “di un contadino siciliano”, con le mani muscolose e il viso scolpito come pietra, con folte sopracciglia sugli occhi neri”. Sinceramente mi piacque molto questo aspetto esotico attribuitomi, ma, ahimè, esso era così lontano dalla verità, quanto l’affermazione che alla serata erano presenti “due dell’ambasciata russa”. Ma che ci vuoi fare! Così è molto più interessante.
Il senso dell’articolo era racchiuso nella considerazione che sotto la grandine di domande che gli piovevano addosso “il povero scrittore russo” aveva incominciato a sudare, si era tolto la giacca, restando in giubbetto da soldato, e, avendo esaurito la riserva di lodi all’indirizzo del suo paese, passò al contrattacco, accusando gli italiani di far proiettare film antisovietici di produzione americana, non volendo più parlare d’altro. Tutto finì in modo tale che solo in strada al povero scrittore, sempre accompagnato da quei misteriosi “rappresentanti dell’ambasciata”, riuscì di respirare liberamente.


L’invitato, Povero russo, Il Mondo, anno IX, n. 16, 16 aprile 1956


Il russo non era sprofondato nel divano ma stavo seduto con cautela come volendo sorvegliare oltre che gli interlocutori di fronte, anche quelli di destra e di sinistra: aveva la giacchetta aperta su una camicia grigioverde da soldato, grosse mani nodose e una faccia scura e scavata, con occhi neri dalle folte sopracciglia, con capelli neri dall’attaccatura bassa. Era un contadino siciliano. Accanto, gli sedeva l’interprete, al di là dell’interprete, Carlo Levi sorrideva a tutti e a se stesso. Poco lontano, chiacchieravano due dell’ambasciata russa. Tutto attorno, gli ospiti che erano in prevalenza socialisti, fissavano il russo diritto negli occhi che sfuggivano, formulando domande che l’interprete traduceva con voce sempre eguale. La padrona di casa, Linuccia Saba, è un’ottima cuoca, oltre che una pittrice intelligente, ed è una cuoca che non dimentica, quando cucina, di essere una pittrice: aveva preparato un pranzo squisito, e l’odore riempiva il piccolo appartamento e tutto era propizio alle conversazioni pigre. Ma nessuno era pigro, tranne l’unico comunista presente, il critico d’arte dai capelli rossi che tentò più volte di parlare di argomenti vari, più tranquilli. Si rifiutarono gli altri: il figlio di un intellettuale famoso, l’architetto, lo scrittore di recente uscito dal PCI. Attorno al russo, con le teste chine per non perdere una parola della lingua incomprensibile, chiedevano dell’Ungheria e della Polonia, della Russia e della Cina. Prima erano seduti un po’ in giro per la stanza, ora gli si stringevano attorno. Era un cerchio stretto, sempre più stretto. Il russo era uno scrittore noto non solo nel suo paese, ma anche in Europa: si chiama Nekrassov. Il suo libro è stato tradotto dall’editore Einaudi e dall’editore Feltrinelli, con titoli poco diversi. Vi si narra la storia di un reduce che torna dalla guerra e trova che le la moglie, in sua assenza, si è distratta: la vicenda è nota, quindi, ma è cosa nuova che accade nella casta Russia, dove mogli infedeli non esistono. Il reduce trova molte altre cose cambiate, e talune non vanno bene: questo è perciò un libro coraggioso e libero, nei limiti del possibile. Serrato in quel cerchio, ora Nekrassov rispondeva come un disco: rivoluzioni sono indispensabili, il sangue aiuta la grande causa, la destalinizzazione dimostra l’autocritica d’un popolo ancora in sviluppo e sempre in movimento. La soppressione dei kulaki fu un atto coraggioso. Il comunista aveva un evidente desiderio di distensione. “Sì – disse – Lukacs dovrebbe ora tornare in Ungheria”. Lo interruppe il figlio dell’industriale: Parlo a nome del movimento operaio – esclamò, urlò, sembrando, nonostante rimanesse seduto, che si fosse alzato in piedi – Lukacs non deve tornare in Ungheria”. Diceva Nekrassov, e l’interprete traduceva: “Io credo che dall’incontro tra i popoli molto bene possa nascere, che la fratellanza universale possa aumentare e l’Occidente va incontro all’Oriente e viceversa”. Nekrassov sudava. Si mosse a disagio sul divano, si tolse la giacca e rimase nella rude camicia da soldato: disse che in Italia era stato al cinema e aveva visto il film “Sottana di ferro” e aveva trovato strano che in Occidente si faccia ancora questo tipo di propaganda. Il comunista di nuovo cercò di disturbare qualcuno, ma lo scrittore V. C. commentò indignato: “Non si può giudicare un paese da un film brutto, che del resto nessuno di noi è andato a vedere”. Come non lo avesse sentito, Nekrassov continuò a parlare della pellicola.
Erano le due di notte. In piedi, con la faccia che appariva ancora più scavata, lo scrittore si guardava attorno con sospetto. I due cani che gli strusciarono sulle gambe lo fecero sussultare. Una signora gli sorrise ed egli distolse lo sguardo. . Ma il comunista diceva al figlio dell’industriale: “La tua giacchetta cade senza una piega. Devi essere nato bene, tu”. Era l’ora di andarsene ma nessuno voleva allontanarsi prima degli altri. Uscirono insieme, e finalmente lo scrittore russo respirò: perché lui, non conformista, capitato in un paese libero era riuscito a dare solo risposte conformiste. Si avvicinò ai russi dell’ambasciata.