Gno. Il greco che greco non è. Secondo qualcuno il monosillabo gnò scritto con la o accentata verrebbe dal latino cognosco, che riecheggia la parola greca γιγνώσκω: conosco, so, capisco (https://cilentoreporter.it/2019/11/06/un-vocabolo-tutto-cilentano/). Se invece si parte da gno senza accento nel dialetto napoletano si scopre che la traduzione italiana proposta è semplicemente "signore". Di fatto questa parolina non viene mai pronunciata in prima battuta. Si usa come risposta a una chiamata. L'esempio tipico è dato da una persona che invoca ad alta voce il nome di un amico e si sente rispondere gno da un interlocutore che non era ben visibile. La derivazione da "signore" diventa trasparente quando il monosillabo si allunga e arriva a includere un sì o un no: gnorsì, gnornò. Il risultato corrisponde a una affermazione o a una negazione accompagnata da un atto di ossequio formale nei confronti del destinatario. Il dizionario tedesco Sansoni prima propone la trascrizione "gnor sì" per poi segnalare il termine come scherzoso e tradurre: jawohl, mein Herr. Molte volte la parola esprime un ossequio puramente formale. In due famose canzoni, dà luogo a una sorta di conferma stizzita. 'A Cammesella racconta di un marito che durante la prima notte di nozze chiede alla moglie di spogliarsi:
-
E levate 'o mantesino!
- 'O mantesino, gnornò, gnornò!
-
Si nun te lo vuò levà,
Mme soso e mme ne vaco da ccà!
-
E levate 'a vesticciolla!
- 'A vesticciolla, gnornò, gnornò!
-
E levati il grembiule!
- Il grembiule, signornò, signornò!
-
Se non te lo vuoi levare,
Mi alzo e me ne vado da qua!
-
E levati il vestito!
- Il vestito, signornò,
signornò!
Reginella invece ha per protagonista un innamorato deluso:
Te sì fatta 'na vesta scullata
'Nu
cappiello cu 'e nastre e cu 'e rrose
Stive
'mmiez'a tre o quatto sciantose
E parlave
francese
È accussì?
Fuje
ll'autriere ca t'aggio 'ncuntrata
Fuje
ll'autriere a Tuleto, 'gnorsì.
Ti sei
fatta un vestito scollato
Un cappello
coi nastri e con le rose
Eri tu tra
tre o quattro sciantose
E
parlavi francese
È così?
Ti ho
incontrata l'altro ieri
In
via Toledo, sissignore.
Paccaro, o anche pàcchero. Parola napoletana di origine greca, pàccaro non figura nel repertorio di Rohlfs perché la derivazione diretta dall’antichità classica non è dimostrabile. Viene dall’unione di due termini, pas, che sta per tutto, e keir, mano. L’equivalente italiano è sberla. A Napoli come nel Cilento è uno schiaffo a mano aperta diretto al volto. Nel vocabolario della camorra come in una particolare occasione di scontro il ceffone può essere uno solo, sferrato con l’intenzione di offendere o umiliare il destinatario. Diversamente si usa il nerbo paccariare per schiaffeggiare e si dice piglià a paccari per prendere a schiaffi. Picchiare semplicemente dà mazziare, le botte sono le mazzate. Da qui il proverbio Mazze e panell fanno i figli bell, botte e buon cibo (forme tonde di pane) fanno i figli belli. L’altra faccia della medaglia è: Panelle senza mazze, fanno i figli pazz, inutile tradurre. Piglià a mmazzate (prendere a botte) in senso figurato designa un atteggiamento aggressivo. Pàcchero serve poi a designare un tipo di pasta. Con questa accezione la parola esiste in italiano. Viene registrata da qualche dizionario (Devoto Oli, Treccani). I pàccheri, o schiaffoni, sono un tipo di pasta, dalla taglia molto superiore alla norma, in genere accompagnato da condimenti saporiti. I paccheri possono essere anche farciti, con ricotta e altri ingredienti, e serviti con il ragù.
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