venerdì 29 novembre 2024

Hegel e Stendhal, la vita che diventa precaria



Remo Bodei, 2014

La dialettica in Hegel costituisce l’elemento corrosivo; rappresenta la trascrizione in termini moderni di quello che era lo scetticismo antico. Essa serve, innanzitutto, a dimostrare l’inconsistenza dei concetti per come vengono presentati dall’intelletto, ovverosia come qualcosa di giustapposto e di tabellare. Tuttavia, il culmine del pensiero hegeliano non è rappresentato dalla dialettica, ma dalla speculazione, ossia la ricostruzione articolata e sistematica — ma allo stesso tempo mobile, quindi che si evolve — di tutto un determinato orizzonte. Per quanto riguarda, invece, l’idea di porre in evidenza gli aspetti legati al lavoro, alla disoccupazione, alle macchine e soprattutto, al denaro, questa mi viene dalla nuova esperienza, che abbiamo vissuto, delle crisi economiche e finanziarie. Da un lato, questo è un vissuto che fa guardare a quello che avevo scritto prima con occhi diversi, senza, tuttavia, inficiarne le altre parti. Ma è dovuto anche al fatto che, effettivamente, la pubblicazione delle Lezioni berlinesi e di Heidelberg hanno messo a disposizione una quantità di materiali che prima non si conoscevano. Essi rafforzano l’idea di uno Hegel lettore di testi di economia politica e di giornali inglesi e francesi, che conosceva banchieri e discuteva di sansimonismo, che era conscio di vivere nella Restaurazione, ovverosia in un’epoca prosaica rispetto ad un’epoca eroica precedente, un’epoca i cui caratteri sono fatti risaltare splendidamente ne Il rosso e il nero di Stendhal. Tale percezione mette alla luce, anche attraverso l’apporto di questi nuovi testi, quello che noi sentiamo, ossia di vivere in un’epoca in cui la vita è diventata precaria; non solamente perché la disoccupazione giovanile è aumentata, ma anche perché tutta l’esistenza nel suo complesso e il futuro si sono un po’ oscurati. La talpa anche presso di noi continua a scavare e non sappiamo in quali direzioni. Anche in questo senso, l’idea di Hegel è quella di mostrare che Das Kapital — il quale non è un’invenzione di Marx — domina la politica, nella misura in cui le strutture che lo costituiscono si sono rese indipendenti dal piano politico stesso. Le accuse a Hegel di essere uno statolatra, uno strenuo difensore dello stato prussiano sono, anche in questo senso, da ridimensionare. Egli vede che lo Stato è fortemente indebolito dall’economia e che la logica della società civile si sta sovrapponendo a quella politica. Per questo motivo, almeno all’inizio, egli cerca di porvi rimedio conferendo autorità allo Stato contro queste forze individualistiche proprie dell’economia. Inoltre, vede che l’effetto dell’apporto delle macchine è stato quello di produrre un eccesso; un eccesso che la gente non è più in grado di acquistare e che determina crisi economiche, le quali hanno come conseguenza la sollevazione, per esempio, degli operai inglesi che distruggono le macchine e la produzione di un’enorme miseria, ossia la plebe diffusa. Hegel si accorge che l’emigrazione nelle colonie non è più una soluzione sufficiente a fermare questi conflitti, poiché il denaro è diventato potenza incontrastata, la cui circolazione, tra l’altro, riproduce la medesima struttura del sistema, un “circolo dei circoli” che aumenta e si ingrandisce ogni volta. La crisi mostra l’insolubilità di tale conflitto; dal punto di vista politico, poiché si tratta di un’epoca farsesca, nella quale non si riescono a creare delle maggioranze, dal punto di vista socio-economico a causa della disoccupazione (Arbeitslosigkeit). Ma soprattutto, in questi testi si ha a che fare con uno Hegel straordinariamente eversivo, che dice che gli operai senza lavoro, senza pane (die brotlosen Arbeitern), hanno il diritto di rubare, poiché c’è un problema di sopravvivenza che è più importante della legalità. Qualcosa che oggi si direbbe nei circoli anarchici o nei centri sociali, ossia che la proprietà è un furto, etc. Hegel lo dice incidentalmente, anche perché era un uomo cauto, che sapeva di essere controllato dalla polizia, ma indubbiamente questi nuovi testi, di cui mi servo moltissimo nel libro, mostrano uno Hegel più ad amplio spettro. In questo libro* ho trattato Hegel non per farne un’apologia, né soltanto per liberare il suo pensiero dai fraintendimenti a cui era stato soggetto; queste operazioni erano certamente necessarie per comprenderlo meglio, ma anche per capire i suoi limiti. Il limite principale è che, sostanzialmente, lui pensa come un europeo. Di conseguenza, vede gli altri continenti e le altre culture come un qualcosa di non maturo, dove addirittura la filosofia è assente e c’è soltanto una forma di saggezza. Noi, invece, viviamo in un’epoca in cui le civiltà del mondo si confrontano, e la dialettica hegeliana nella sua forma classica non regge, così come dopo la sua morte l’architettura del sistema non funziona e ne vengono mutuate solamente delle componenti. La stessa cosa era accaduta in epoca ellenistica con la dissoluzione del modello aristotelico-platonico. Aristotele, per esempio, riguardo alla condotta umana, prendeva in considerazione vari elementi: la Τύχη, il caso, l’Ἀνάγκη, la necessità e il Tέλος, la finalità. Accadde che gli epicurei attribuirono grande importanza al caso, gli stoici alla necessità, mentre la finalità finì per essere irrisa già a partire dai neoplatonici. Allo stesso modo Hegel pensa che la sua struttura sia valida per la diagnostica, ma non per la prognostica e, pertanto, il sistema si sfalda, come si diceva prima, dando origine a dei frammenti incomponibili all’interno di una visione generale. Questo ha portato molti a denigrare l’idea di sistema, che sembra l’opera di un pazzo, mentre io, al contrario, ho cercato di mostrare come esso abbia un suo senso e come, sebbene questo sistema oggi non sia più edificabile, sia necessario partire da esso per comprendere Hegel, i suoi limiti e le sue possibilità e la coerenza presente nell’evoluzione del suo pensiero.

La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, Il Mulino, Bologna 1975

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