venerdì 22 novembre 2024

Alice Munro e la sua disgrazia



Ilaria Gaspari, "Non la leggerò più": Alice Munro e la reputazione postuma
Il Libraio, 22 novembre 2024

Il primo racconto di Alice Munro che ho letto in vita mia era la storia di una ragazza su un treno.

Un tizio vicino a lei iniziava a parlarle, la infastidiva, e lei, con fatica, riusciva a sottrarsi a quel fastidio, innescando così una serie di coincidenze su cui pesava una tensione inesplosa come negli attimi prima di un temporale.

All’epoca in cui lo lessi, non avevo idea che fosse la cifra stilistica di Munro, questo senso di sospensione scandito nella concretezza quasi insostenibile dei dettagli di vita quotidiana raccontati con un’esattezza dolorosa (non procedono così anche gli incubi? Hanno sempre qualcosa di reale, per cui non riesci a convincerti che stai sognando).

Non ne avevo idea, perché non sapevo nulla di Munro, ero un’adolescente che aveva trovato un libro in casa e sfogliandolo si era lasciata incuriosire da un racconto. Perché anche se non potevo compararlo a nient’altro che avesse scritto Munro, anche se non avevo la più pallida idea di chi fosse l’autrice, se non un nome su una copertina, la forza del racconto era tutta lì, compressa, formidabile.

Ho comprato, negli anni successivi, molti altri libri che avevano in copertina il nome di Alice Munro. Nel frattempo l’idea che avevo dell’autrice si era arricchita di sparuti dettagli. Munro ha vinto il Nobel, nel 2013; i suoi libri li vedevo ovunque. Non ho mai pensato molto alla sua vita. Il fatto è che, da innamorata di Proust, sono con lui contro Sainte-Beuve: non subisco il fascino della biografia degli artisti.

Ci sono scrittori e scrittrici che adoro senza conoscerne la fisionomia; e benché mi emozioni il pensiero che chi crea opere straordinarie sia costretto poi come tutti noi alle magnifiche e squallide piccolezze del vivere – prendere sonno la sera, abbottonare una camicia, parlare al telefono, soffiarsi il naso –; benché sia per carattere eccessivamente curiosa, non mi sfiora il pensiero che bastino i dettagli di una vita, per quanto avvincenti, a spiegare il mistero del talento. Il talento lo si può desiderare fino allo struggimento, ma è una forma di grazia capricciosa, che nessuno guadagna per merito o per impegno, bontà o intenzioni. È una stravaganza del caso, un’eccezione inquietante (ingiusta, persino) alle ferree leggi delle cause e degli effetti.

Il racconto sullo sconosciuto in treno si chiama Fatalità. Non l’ho mai riletto; ne conservo una memoria imperfetta e preferisco così, non voglio correre il rischio di sciupare il ricordo della rivelazione che era stata, per me, quella prima e unica lettura. Perché, anche se non con gli esiti fatali che Munro mette in scena con il suo senso per la tragedia, sobrio, perfetto e crudele, io il fastidio per l’intrusione di uno sconosciuto che in treno vuole attaccare bottone quando tu sei stanca, hai i tuoi pensieri, non hai voglia di chiacchierare, l’avevo conosciuto, e molte volte, e molte volte ancora l’avrei vissuto in seguito. Quello, e l’innominabile disagio velenoso, languido e colpevole, della chiusura, che nel racconto scivola verso le conseguenze che l’immaginazione paventa senza confessarlo. Perché se la ragazza esercita il proprio diritto di non dare corda allo sconosciuto, lo sconosciuto è a un passo dal suicidio, e questo lei non può saperlo, forse non lo sa nemmeno lui; ma quando salterà fuori che la catena inesorabile delle cause e degli effetti ha forgiato proprio quel giorno l’anello della morte di lui, e lui si uccide poco dopo la mancata conversazione, l’atto di volontà con cui lei lo ignora cambia di segno. Il pensiero insinuante – se avessimo parlato, sarebbe cambiato qualcosa? – lo colora di un riverbero sinistro. A rigore, lei ha fatto quello che era suo pieno diritto. Ma la dissonanza permane.

Ogni volta che, dopo aver letto questo incredibile racconto, mi è capitato di rivivere la situazione dello sconosciuto che attacca bottone in treno, il mio disagio non è stato mitigato dal ricordo della lettura che continuava ad affacciarsi; al contrario, tornava come ricordo di un dolore che mi fosse stato affidato. Però ho potuto pensare alla vertigine del racconto; avevo uno strumento in più per leggere una situazione spiacevole. Ero meno sola in una forma di infelicità che la condivisione non addolciva, ma trasformava. Questo non significa che quel racconto mi abbia insegnato come comportarmi, o che mi abbia sollevata dalle mie responsabilità: anzi, ha insinuato una paura nuova per le conseguenze di un’eventuale scortesia. Eppure, la sensazione di non essere soli in una forma di infelicità talmente impalpabile da non poterla confessare è qualcosa di inestimabile, anche se concretamente serve a molto poco. È quello che fa la letteratura: mitiga la solitudine di sensazioni che non riusciamo nemmeno a dire, tanto sottilmente ci fanno sentire l’intollerabile inconsistenza del vivere.

Ma, se la letteratura ha questo potere, non possiamo dedurne che chi fa letteratura o chi se ne nutre si trasformi automaticamente in una persona migliore sul piano morale. Anzi, temo che avere una comprensione fin troppo chiara della distanza a cui può arrivare il dolore della condizione umana possa talvolta essere un inciampo all’agire, al far bene, al comportarsi come si aspetterebbe chi osserva dall’esterno la traiettoria di una vita.

Ripensavo a tutto questo lo scorso luglio, a pochi mesi dalla morte di Munro, quando la sua figlia minore, Andrea Robin Skinner, ha pubblicato sul Toronto Star un editoriale in cui racconta degli abusi subiti nell’infanzia da parte del patrigno, Gerald Fremlin – l’uomo a cui Munro rimase legata fino alla morte di lui, nonostante Andrea, adulta, le avesse rivelato delle molestie. È una storia tremenda, di dolori e ferite, la storia di una bambina che subisce una violenza indicibile, di una famiglia intossicata che ricorda le famiglie soffocanti di tanti racconti di Munro. È anche la storia della sua omertà.

Di lei che sceglie di non abbandonare l’uomo che ha abusato della bambina. Skinner, nel raccontarla pubblicamente, dichiara di averlo fatto perché alla memoria di sua madre potesse essere associata non solo la gloriosa produzione letteraria ma anche questo ricordo d’infamia. Più che legittimo.

Nel momento in cui ne veniamo a conoscenza, è una storia che ci mette in una posizione scomoda. Nelle discussioni che sono seguite alla pubblicazione dell’articolo molte persone (non necessariamente lettori di Munro) si sono rifugiate nella postura di giudici della vicenda, condannando la scrittrice. Una reazione comprensibile, e in un certo modo abituale al nostro tempo. Istintiva, per certi versi anche consolatoria, ma certo non costruttiva.

La verità, molto scomoda da ammettere, è che non possiamo sapere cosa faremmo, cosa avremmo fatto noi. Che ne sappiamo di cosa significa essere una donna nata nel 1931 che sceglie di convivere con un macigno del genere; una donna che scrive con quella torturante acutezza di sguardo che troviamo nelle sue storie pubblicate e, data questa combinazione di fattori, si trova di fronte a una rivelazione devastante? Non sappiamo cosa faremmo nemmeno nei panni della figlia di quella donna. Non lo sappiamo, perché non sono cose che si sanno in teoria.

I social media ci hanno assuefatti a un sainte-beuvismo saccente che ci illude di sapere più di quanto sappiamo delle vite altrui; la reputazione, anche postuma, la consideriamo una merce di cui l’algoritmo determina il valore, ed essendone consumatori sappiamo di poterne essere anche potenziali boicottatori. Per cui il risultato di questa rivelazione è stato un susseguirsi di vibranti “non la leggerò più”. È legittimo e comprensibile che ci sia chi sente di non riuscire a leggere un’autrice perché giudica disturbante la sua biografia, per come la conosce. Ancor più legittimo è non riuscire a leggere qualcuno perché non ci piace come scrive: libertà inalienabile dei lettori.

C’è però una cosa che mi preoccupa, in questa vicenda di tentata damnatio memoriae, e mi preoccupa in un modo che trascende la vicenda. È il sottinteso di questa delusione plateale: l’idea che chi fa letteratura sia un santino, al cui esempio siamo chiamati ad aderire, e non un testimone di un dolore che ci accomuna, come esseri umani, che su quel dolore ci offre il suo punto di vista parziale, imperfetto tanto quanto lo può essere il nostro.

Tratto da Un anno di storie – Vendesi io. Perché trionfa l’autobiografia, a cura di Tamara Baris, Paolo Di Paolo, Fiorella Favino. 

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