Peter Mattei (Don Giovanni) e Ana Maria Martinez (Donna Elvira) |
Il Sole 24ore, 10 novembre 2024
Quando penso a tutta la musica che ho diretto e ai compositori che ho studiato e portato nelle sale da concerto e nei teatri di tutto il mondo, mi rendo conto che alcuni di loro mi sono rimasti particolarmente nel cuore, tra questi Mozart.
Scrisse Le nozze di Figaro nel 1786, quando aveva trent’anni, e il libretto di Da Ponte deriva dalla commedia Le mariage de Figaro di Beaumarchais.
Siamo di fronte a un’opera buffa, ma i suoi personaggi vivono esperienze intense, segnate senza requie dalle debolezze umane. A parte il conte, un fedifrago incallito, e Cherubino, un giovane dongiovanni attratto da ogni donna, anche la nobile contessa e l’astuta Susanna, pur essendo profondamente innamorate dei loro uomini, sfiorano il pericoloso confine dell’infedeltà. Per non parlare di Bartolo e Basilio: il primo, arrogante e malvagio, nella sua unica aria rivendica meschinamente e con lussuria la sua vendetta; il secondo, un tempo abate mite, ora diventa intrigante perché ha compreso che solo così può evitare di essere calpestato. Eppure, Mozart non giudica e non condanna nessuno dei suoi personaggi. Consapevole dell’imperfezione umana, li assolve. Questa benevolenza si riflette nella scelta delle tonalità musicali: tutte le arie solistiche sono in tonalità maggiore, tranne quella di Barbarina. Anche l’opera nel suo insieme inizia e si conclude in una tonalità maggiore, in Re. Mozart però è cosciente delle nostre fragilità, e nel finale introduce un sottile dubbio sulla felicità futura delle coppie: tra il concertato quasi religioso sulle parole «Contessa, perdono!» e l’allegro assai conclusivo Questo giorno di tormenti, appare una fugace modulazione in minore, quasi a suggerire che l’amore, pur trionfando su tutto, potrebbe non essere eterno.
Don Giovanni andò in scena per la prima volta a Praga nel 1787, e per scrivere il libretto Da Ponte prese spunto da diverse fonti letterarie.
È l’opera più enigmatica, misteriosa, indecifrabile di tutta la trilogia. […] La chiave di questo capolavoro è già nell’ouverture, con un inizio tragico in Re minore, una tonalità funebre che Mozart userà anche per il Requiem. Questa atmosfera cupa, quasi infernale, si trasforma poi in un allegro frenetico, a simboleggiare una vita insaziabile e inquieta.
Don Giovanni vive nel disordine morale, sociale e affettivo, lo crea e lo alimenta. Quando ci sono le tre orchestrine sul palco che suonano tre danze diverse, il Minuetto, la Follia e l’Alemanna, don Giovanni dice: «Senza alcun ordine la danza sia». E Mozart le sovrappone l’una sull’altra, le incastra con ritmi diversi. Si forma un caos ordinato e al tempo stesso disordinato. Don Giovanni è un uomo che non si pone degli obiettivi stabili, il suo girovagare da una parte all’altra, gli sbalzi di tonalità danno l’idea di un personaggio che non trova pace. È la personificazione del male. Non conclude nulla. Conquista e distrugge, è una figura tenebrosa. Non c’è altra opera di Mozart che sia così pervasa dal senso della morte, che ritroviamo anche nel gioco, nelle battute a doppio senso, negli ammiccamenti. Quando don Giovanni sprofonda all’inferno, gli altri personaggi si smarriscono: sono persi nella nebbia, ognuno cerca una strada. Era la forza del male a tenerli vivi. Il finale, che alcuni – per esempio Mahler – decisero di eliminare, va visto come una risoluzione drammatica: senza la luce sinistra di don Giovanni i personaggi piombano nel buio della routine, dell’infelicità, di un’esistenza priva di scopo.
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