Anna Zafesova, La strategia della paura, La Stampa, 23 novembre 2024
Vladimir Putin aveva imparato ad amare la bomba atomica già anni e anni fa. Il compiacimento con il quale parlava di missili, testate, tonnellate e velocità ipersoniche è degno di un cattivo dei film di Hollywood, e l'atomica è un argomento sul quale torna spesso e molto volentieri (così come i suoi cortigiani, che sanno bene come compiacere il loro Capo, come lo chiama la responsabile della propaganda russa Margarita Simonyan). Ci aveva costruito perfino sopra un'intera campagna elettorale, quella del 2018, quando il suo discorso programmatico davanti al parlamento russo era stato quasi interamente dedicato alle nuove armi russe, con un megaschermo che mostrava simulazioni di missili che colpivano a pioggia la Florida (più o meno nella zona di Mar-a-Lago, avevano notato molti commentatori). Il messaggio di Putin era stato dichiarato a chiare lettere: dare alla Russia un vantaggio tale da permetterle di iniziare e concludere vittoriosamente una guerra nucleare.
Il Putin di oggi, che appare da uno studio che probabilmente si trova in uno dei suoi bunker, è molto più provato e arrabbiato per non essere stato compreso, ma lancia sempre lo stesso messaggio. Minaccia. Tuona. Non è mai speculare, rilancia sempre: all'autorizzazione degli americani e degli inglesi di usare missili tattici a corto raggio replica con un missile balistico a testate multiple capace potenzialmente di distruggere un'intera metropoli. Perfino un generale russo commenta al quotidiano Moskovsky Komsomolets che «non si inizia la terza guerra mondiale per due depositi munizioni». Ma Putin non pratica l'occhio per occhio, raddoppia e triplica da sempre, anche quando rispondeva - già nel 2014 - alle sanzioni contro i suoi oligarchi proibendo l'importazione di quasi tutti i prodotti alimentari occidentali in Russia. Quello che chiede non è il ritorno alle regole di parità del terrore della Guerra Fredda. Che era trascorsa, dal 1945 in poi, e soprattutto negli ultimi 25 anni - dalla crisi di Cuba al collasso del Muro - in una affannosa ricerca di simmetria, di una rete di regole, impegni, accordi che dovevano mantenere le due principali potenze nucleari in un equilibrio di tensione che non diventasse mortale. Ovviamente non escludeva tiri mancini ed escalation, ma la dottrina Brezhnev proclamava la necessità di una «coesistenza pacifica tra due sistemi diversi». La dottrina Putin parla di «guerra eterna dell'Occidente contro la Russia», e il privilegio che esige - anche riscrivendo la nuova dottrina nucleare a suo piacimento - è quello di prendere ciò che ritiene già suo, dando nel processo martellate all'ordine mondiale.
«Se non abbiamo intenzione di stringere il nodo e condannare il mondo alla catastrofe della guerra termonucleare, dobbiamo non solo allentare la presa sui due capi della corda, ma sciogliere il nodo del tutto. Noi siamo pronti a farlo». Queste parole sono state scritte da Nikita Khrusciov a Jonh F. Kennedy il 26 ottobre 1962, quando il mondo si stava chiedendo quante ore mancavano all'Apocalisse. Impossibile immaginarle oggi, e Simonyan loda il suo "Capo" perché «non sarà mai lui a ingranare per primo la retromarcia». Anche Steve Rosenberg, il "Russia editor" della Bbc, conviene che la «Putinmobile non ha freni né retromarcia, ma solo un pedale del gas schiacciato a tavoletta». In effetti, in un quarto di secolo il dittatore russo non ha dato prova di grandi abilità diplomatiche, né dentro, né fuori dal suo Paese. Non ha molto chiara l'idea di un negoziato, e usa molto il bastone senza ricorrere quasi mai alla carota. Lo si è visto anche in questo momento per lui straordinariamente favorevole, con un nuovo presidente americano che gli ha già fatto aperture notevoli, una serie di governi europei in relativa difficoltà e perfino un'opinione pubblica ucraina che comincia a non opporsi a un negoziato con Mosca. Un gesto di buona volontà - una tregua, una restituzione di qualche centinaio di bambini ucraini deportati, un'apertura diplomatica - avrebbe potuto far vincere punti a Trump e togliere argomenti ai sostenitori della linea dura. Invece Putin ha deciso di rilanciare, chiamando in aiuto i soldati di Kim, bombardando le centrali della luce e del riscaldamento alla vigilia della prima neve, e minacciando l'utilizzo dell'atomica e attacchi agli alleati occidentali di Kyiv. Nella sua visione, il desiderio di trattare è una debolezza, e un avversario debole va martellato.
Paradossalmente, questa escalation può rendere molto più difficile se non impossibile a Trump giustificare, dopo il 20 gennaio, un compromesso con uno che si comporta come il dottor Stranamore. Putin tende a ripetere gli stessi errori, e la sua escalation verbale e missilistica ricorda quella del febbraio 2022, quando aveva deciso di invadere l'Ucraina, sopravvalutando le proprie forze e sottovalutando la determinazione degli ucraini, degli europei e degli americani. Un errore fatale, dal quale si poteva uscire soltanto a marcia indietro. Mille giorni dopo, l'inquilino del bunker del Cremlino continua a vedere un Paese pronto a crollare, e crede che i suoi alleati hanno bisogno soltanto di un buon spavento per abbandonarlo. Purtroppo, questo potrebbe significare che la testata nucleare per colpire una città ucraina sia già stata montata su uno di quei missili tanto amati da Putin. E che probabilmente anche gli ucraini, e gli occidentali, lo sanno.
Il Putin di oggi, che appare da uno studio che probabilmente si trova in uno dei suoi bunker, è molto più provato e arrabbiato per non essere stato compreso, ma lancia sempre lo stesso messaggio. Minaccia. Tuona. Non è mai speculare, rilancia sempre: all'autorizzazione degli americani e degli inglesi di usare missili tattici a corto raggio replica con un missile balistico a testate multiple capace potenzialmente di distruggere un'intera metropoli. Perfino un generale russo commenta al quotidiano Moskovsky Komsomolets che «non si inizia la terza guerra mondiale per due depositi munizioni». Ma Putin non pratica l'occhio per occhio, raddoppia e triplica da sempre, anche quando rispondeva - già nel 2014 - alle sanzioni contro i suoi oligarchi proibendo l'importazione di quasi tutti i prodotti alimentari occidentali in Russia. Quello che chiede non è il ritorno alle regole di parità del terrore della Guerra Fredda. Che era trascorsa, dal 1945 in poi, e soprattutto negli ultimi 25 anni - dalla crisi di Cuba al collasso del Muro - in una affannosa ricerca di simmetria, di una rete di regole, impegni, accordi che dovevano mantenere le due principali potenze nucleari in un equilibrio di tensione che non diventasse mortale. Ovviamente non escludeva tiri mancini ed escalation, ma la dottrina Brezhnev proclamava la necessità di una «coesistenza pacifica tra due sistemi diversi». La dottrina Putin parla di «guerra eterna dell'Occidente contro la Russia», e il privilegio che esige - anche riscrivendo la nuova dottrina nucleare a suo piacimento - è quello di prendere ciò che ritiene già suo, dando nel processo martellate all'ordine mondiale.
«Se non abbiamo intenzione di stringere il nodo e condannare il mondo alla catastrofe della guerra termonucleare, dobbiamo non solo allentare la presa sui due capi della corda, ma sciogliere il nodo del tutto. Noi siamo pronti a farlo». Queste parole sono state scritte da Nikita Khrusciov a Jonh F. Kennedy il 26 ottobre 1962, quando il mondo si stava chiedendo quante ore mancavano all'Apocalisse. Impossibile immaginarle oggi, e Simonyan loda il suo "Capo" perché «non sarà mai lui a ingranare per primo la retromarcia». Anche Steve Rosenberg, il "Russia editor" della Bbc, conviene che la «Putinmobile non ha freni né retromarcia, ma solo un pedale del gas schiacciato a tavoletta». In effetti, in un quarto di secolo il dittatore russo non ha dato prova di grandi abilità diplomatiche, né dentro, né fuori dal suo Paese. Non ha molto chiara l'idea di un negoziato, e usa molto il bastone senza ricorrere quasi mai alla carota. Lo si è visto anche in questo momento per lui straordinariamente favorevole, con un nuovo presidente americano che gli ha già fatto aperture notevoli, una serie di governi europei in relativa difficoltà e perfino un'opinione pubblica ucraina che comincia a non opporsi a un negoziato con Mosca. Un gesto di buona volontà - una tregua, una restituzione di qualche centinaio di bambini ucraini deportati, un'apertura diplomatica - avrebbe potuto far vincere punti a Trump e togliere argomenti ai sostenitori della linea dura. Invece Putin ha deciso di rilanciare, chiamando in aiuto i soldati di Kim, bombardando le centrali della luce e del riscaldamento alla vigilia della prima neve, e minacciando l'utilizzo dell'atomica e attacchi agli alleati occidentali di Kyiv. Nella sua visione, il desiderio di trattare è una debolezza, e un avversario debole va martellato.
Paradossalmente, questa escalation può rendere molto più difficile se non impossibile a Trump giustificare, dopo il 20 gennaio, un compromesso con uno che si comporta come il dottor Stranamore. Putin tende a ripetere gli stessi errori, e la sua escalation verbale e missilistica ricorda quella del febbraio 2022, quando aveva deciso di invadere l'Ucraina, sopravvalutando le proprie forze e sottovalutando la determinazione degli ucraini, degli europei e degli americani. Un errore fatale, dal quale si poteva uscire soltanto a marcia indietro. Mille giorni dopo, l'inquilino del bunker del Cremlino continua a vedere un Paese pronto a crollare, e crede che i suoi alleati hanno bisogno soltanto di un buon spavento per abbandonarlo. Purtroppo, questo potrebbe significare che la testata nucleare per colpire una città ucraina sia già stata montata su uno di quei missili tanto amati da Putin. E che probabilmente anche gli ucraini, e gli occidentali, lo sanno.
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