Matteo Marchesini, La verità va cercata nella lettera, Il Foglio, 13 novembre 2024
La storia del pensiero occidentale, è stato detto, è una lunga nota a margine a Platone. Questo vale in parte anche per la definizione del rapporto tra filosofia e letteratura; ma in parte, la modernità ha cambiato i termini del problema. Lo affronta oggi Eleonora Caramelli nel suo “Poetiche del testo filosofico. Hegel, Merleau-Ponty e il linguaggio letterario” (Carocci). Caramelli mostra un controllo sorprendente delle due tradizioni, filosofica e letteraria, e del dibattito sul loro statuto: forse anche perché ha studiato bene Hegel, nella cui opera si depositano i primi temi moderni (il mito classico, la rivoluzione romantica) e al tempo stesso si annuncia il loro tramonto. All’inizio dell’800, tutta la cultura precedente viene storicizzata: emerge la distanza critica da una sorta d’innocenza perduta, e anche dalle regole fisse che governavano il lavoro intellettuale ancien régime. Fioriscono allora forme dai limiti incerti, sia in letteratura (lirica assoluta, romanzo) sia in filosofia (dove lo sgretolarsi dei sistemi fa emergere uno stile che taglia trasversalmente i generi). Questa eredità romantica è entrata in crisi nel secondo ’900, senza che però si delineasse un quadro davvero nuovo: così la si è riutilizzata in modi via via più arlecchineschi e meno necessari. Intanto il rapporto tra filosofia e letteratura diventava equivoco, perché la cultura postmoderna le confonde in una notte delle vacche nere. Sulla scia di Heidegger, una tale cultura pretende di tenere insieme i vantaggi di una neoscolastica nebulosa e dell’oracolarità en poète; e i suoi gerghi si spartiscono poi il campo con la scrittura impoverita da paper universitario. Caramelli si oppone a questa tendenza autoreferenziale in nome dell’idea hegeliana secondo cui un’identità può definirsi solo nel confronto con l’altro da sé. Così, ad esempio, “La scrittura letteraria costituisce un banco di prova grazie al quale la filosofia mette in dubbio, critica e riflette sullo statuto del proprio discorso”. La domanda che riassume questa “prova” è fissata dall’autrice nella maniera più coraggiosamente semplice: “Che cosa significa scrivere un libro di filosofia?”. Per rispondere, Caramelli esamina due percorsi fenomenologici diversamente incompiuti, che segnano l’inizio e la fine della storia culturale moderna: quelli di Hegel, appunto, e di Merleau-Ponty. Finissima è la sua analisi del modo in cui l’autore della “Fenomenologia dello spirito”, passata in proverbio come romanzo di formazione filosofico, mette in discussione la grammatica del pensiero, proponendo una dialettica che non è solo concettuale ma espressiva. Quanto a Merleau-Ponty, notevole è il suo tentativo, condotto con l’aiuto di Montaigne e Proust, di risalire dai concetti al loro sfondo sensoriale. In letteratura come in filosofia, la verità va cercata nella lettera, che non è un mero vestito dello spirito; e occorre meditare sul valore delle analogie, che non possono essere ridotte a identità senza perdere il loro potenziale conoscitivo. Ma se la filosofia è fatta della stessa materia linguistica della letteratura, avvisa Caramelli, con la letteratura tuttavia non coincide, perché là dove tenta di fondere forma e contenuto deve esporsi a un peculiare scacco. Non può infatti legare inscindibilmente le idee a una forma o a un personaggio: le tocca affrontare anche una loro discussione “nuda”, come in poesia capita a volte solo nel teatro (molto belle le pagine sul corpo a corpo di Hegel con l’“Antigone”). In conclusione, viene da chiedersi se il genere da restaurare non sia il saggio, nel quale, diceva Garboli, le idee sono quel che sono i personaggi nel romanzo: risultano credibili, cioè, solo se hanno uno sviluppo contrastato, una durata. E’ una definizione quasi hegeliana, o sbaglio?
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