Sì, vediamo anche con il corpo, un corpo che abita lo spazio e rende la visione un tutt’uno con l’esperienza. Per questo non lascia indifferenti entrare nel Foro Romano e sentire l’impatto col tempo, la meraviglia per l’inverosimile sopravvivenza di cose antiche, pur nella versione consumabile in cui si presentano oggi. Si passa così sotto le colonne del tempio di Faustina e Antonino Pio – il vociare dei turisti, il cielo di vetro – e dopo poco ecco l’ingresso del Tempio del Divo Romolo.
È uno dei due siti in cui si sviluppa la mostra Penelope (a cura di Claudio Franzoni e Alessandra Sarchi, fino al 12 gennaio 2025) nel Parco archeologico del Colosseo. Un luogo straordinario. Nella grande aula rotonda si innalza una sorta di schermo semicircolare di legno, un’intelaiatura attorno agli oggetti, ai dipinti, agli affreschi che ripercorrono il mito della regina di Itaca dall’età classica fino ai giorni nostri. Fasce di stoffa bianche, rosse e nere intrecciate tra i pali, riquadri di tessuto tesi tra le assi: l’allestimento ha un chiaro valore metaforico. Gli spettatori entrano nell’impalcatura-telaio, oltrepassando simbolicamente quell’antica tela mai compiuta, soglia di una dimensione immaginaria. Si cammina lungo una passerella e la cadenza dei passi sul legno ricorda ancora una volta il gesto mai definitivo di Penelope – alzare il liccio, far passare il filo, avvicinare il pettine, ancora e ancora.
L’impostazione data dai due curatori appare essa stessa una tessitura, essendo il filo di trama la disposizione cronologica delle opere e l’ordito i nuclei tematici suggeriti nelle diverse sezioni per illuminare i tratti peculiari del personaggio; la Penelope dolente, velata, la Penelope che sogna e attende, la moglie regina al potere e ancora le sfumature del suo essere donna (per un mio recente ritratto di Penelope, leggi qui). D’altra parte, proprio la complessità e il mistero legati al personaggio hanno contribuito alla fortuna del mito e stimolato le sue numerose reinterpretazioni, facendo prevalere un tratto o l’altro a seconda dell’epoca e dei valori culturali di riferimento.
La mostra non è solo una affascinante ricostruzione storica e filologica dell’iconografia di Penelope, ma riflette al tempo stesso su come si è evoluta la fascinazione per la sua figura e pone implicitamente agli spettatori la domanda: cosa può dirci, oggi, il mito di Penelope? Ci tocca di più la sofferenza della persona o la psicologia della donna, la cifra morale o una rilettura politica del suo ruolo? L’operazione si interroga anche su un’altra interessante questione, quella del rapporto tra letteratura e immagine. Le due sfere sono in una relazione complicata, si direbbe, perché, come scrive Claudio Franzoni nel bel catalogo che accompagna la mostra, “quando c’è di mezzo una grande pagina letteraria siamo portati a pensare alle immagini come mere traduzioni visive, eppure questo non succede quasi mai, poiché l’uno e l’altro medium hanno un loro autonomo meccanismo narrativo”. Così, ad esempio, nonostante nell’Odissea Penelope non sia mai descritta nell’atto di tessere (quando inizia il poema l’inganno della tela è già stato scoperto), questa è proprio la raffigurazione più frequente dal tardo Medioevo a oggi.
Il testo omerico precede del resto di vari secoli le prime immagini di Penelope arrivate a noi; solo verso la metà del V secolo a.C. gli artisti figurativi mettono a punto un’iconografia della regina che ne privilegia l’aspetto umano. Ne è un esempio il vaso attico di Chiusi, risalente al 440 a.C. circa, tra pezzi più antichi dell’esposizione: Penelope appare seduta, la mano sinistra appoggiata allo sgabello, la destra preme la guancia e forse asciuga le lacrime. Anche le crepe della terracotta dicono la sua sofferenza, quando finirà la pena? ll corpo richiuso su sé stesso, dolorante di nostalgia: Telemaco, in piedi di fronte a lei, non può davvero avvicinarsi, né capire la madre, donna sola al mondo, sola di giorno e di notte. Alle loro spalle il sudario di Laerte, incompiuto, dà la misura del silenzio, anni vuoti pieni di fantasmi. Pende dalla staffa come il braccio del Cristo morto, triste. Il disegno ha permesso di ricostruire un modello a grandezza naturale visibile in mostra ed è una sorpresa trovarsi di fronte allo stesso telaio, noi oggi lei allora, percepire le proporzioni, immaginare l’ampiezza dei movimenti.
E poi l’idea del tempo che consuma il corpo – onda e risacca, speranza e sconforto – anche quando il corpo è di pietra. Tra le opere più struggenti, una testa di Penelope dal Tevere, copia romana del I secolo d.C. Si riconoscono appena i tratti del volto e commuove; una profonda spaccatura orizzontale le cuce gli occhi, lacrime secche, la bellezza scivolata altrove.
Il velo è l’elemento su cui insiste una serie di raffigurazioni. La donna si copre ai pretendenti che l’attendono nella sala, questo ci si aspetta da lei nel suo ruolo: riserbo e pudore. Ma il nascondimento ha sempre un legame con la seduzione e Penelope sa di essere bella, elude: tenere sospeso il regno è la formula del suo potere.
Proseguendo il percorso, il visitatore trova reperti in bronzo, gioelli, rilievi in terracotta. Due meravigliosi frammenti di un affresco proveniente da Pompei del I sec d.C. raccontano gli episodi forse più carichi di tensione narrativa del poema omerico. Nel primo, Euriclea riconosce Ulisse nel mendicante a cui lava i piedi; nel secondo, Penelope incontra il marito, punto decisivo in cui si decide per lei – per noi – la totalità del suo mondo, se le cose abbiano o no un senso, se si possa resistere alla fine del dolore, se il desiderio sopravviverà al suo soddisfacimento. La scena si svolge dentro una casa patrizia, la regina è in piedi, veste una tunica romana, mentre Ulisse porta il copricapo di feltro della tradizione iconografica antica; ancora una volta le immagini fondono i piani temporali, creano, seguono percorsi autonomi distanti dal testo omerico.
Collocare un oggetto nello spazio non è mai gesto innocente e talvolta riaffiora l’inconscio del luogo, dal dialogo tra l’opera e ciò che sta attorno. Un originale perduto, di cui vediamo in mostra una riproduzione, una statua di Penelope dolente ha come sfondo l’affresco di una Madonna in trono con Bambino tra i Santi Medici. Ne risulta un corto circuito iconografico interessante, anche perché nel mondo medievale si impone una Penelope non più astuta, ma devota, come ad esempio nelle miniature illustrate del De mulieribus claris di Boccaccio: una casta donna coperta da un manto azzurro, emblema della virtù cristiana, modello di pudicizia.
I due padiglioni delle Uccelliere Farnesiane sul Palatino ospitano la seconda parte della mostra, con i dipinti e i disegni più recenti. In epoca moderna, la raffigurazione di Penelope prende le strade più diverse; all’interpretazione del testo omerico prevalgono le ragioni dell’epoca nonché l’intenzione dell’autore. Abbiamo così la Penelope guerriera, regina dei serpenti, in abito da amazzone a seno scoperto disegnata da Georges-Antoine Rochergosse. Oppure la Penelope di Leandro Bassano: la giovane tesse nella penombra al lume di candela, medita, la nostalgia diventa un nido dolcissimo in cui appartarsi. Oppure ancora la bella Penelope secentesca di Pellegrino Pellegrini da Fanano, con occhi che guardano altrove, il realismo dei dettagli e nel complesso una quotidianità pervasa di sentimento.
“Nessuno ha mai indovinato che il mio corpo era intento e teso, nessuno ha mai indovinato il bisogno che provavo di offrire il mio essere, completamente, a un altro essere” (La vita di Angelica Kauffman. Alla ricerca del bello e dell'amore, Leros Pittoni). Potrebbero essere le parole della stessa Penelope, invece è lo sfogo di Angelika Kauffmann, tra le più ammirate pittrici del Settecento: forse nella regina greca riconosce sé stessa, donna desiderante… l’infelicità? Non essere nel posto in cui vogliamo essere. Incalzata dai Proci, Penelope ha deciso di porre fine all’attesa e di risposarsi e per scegliere uno dei pretendenti ha indetto una gara, ma il suo corpo appartiene a un altro piange sull’arco di Ulisse. Il talamo rosso, la voglia di lui, il dolore ovunque.
Tessitura, textum, trama: il legame etimologico tra queste parole rende articolata la metafora della tela (per un approfondimento leggi qui), la lega al canto, alla scrittura, dunque al tempo. La portata simbolica della donna al telaio viene qui attualizzata con l’inserimento nella mostra di un omaggio a Maria Lai, l’artista che ha fatto della materia tessile il centro della sua poetica. Le strutture, la disposizione dei fili e le stoffe sono rielaborati con nuova libertà compositiva: il gesto diventa colore diventa materia. Splendido esempio: Errando n. 2. Un gioco di rimandi tra la tela della pittura e la tela ricamata, tra la cornice e il telaio; i fili e il tessuto inscritti nel quadro formano un paesaggio, un disegno sta per manifestarsi ma è ancora incompiuto. Questo spazio di azione, di attesa del gesto, quel che si nasconde tra l’idea e l’atto di metterla in pratica non rappresenta, in fondo, un’autentica possibilità di riscatto?
D’altra parte, il filo possiede grandi “potenzialità metaforiche”, e “malgrado tutti gli sforzi fatti per prendere il congedo da un’immagine del pensare tanto radicata, siamo qui ancora a misurarci con fili virtuali o metaforici che collegherebbero le cose le parole, la coscienza e i suoi contenuti”. (S. Catucci, Sul filo, Esercizi di pensiero materiale, Quodlibet 2024. Qui su Doppiozero una recensione).
Di Maria Lai sono poi esposti i libri, certamente tra i suoi lavori più noti. Qui il legame ancestrale tra ricamo e scrittura si rivela con grande intensità. Nelle fibre di parole lanuginose, si impiglia l’eco di antiche narrazioni. Le eccedenze di filo – e forse di frasi – raggrumate a lato della pagina assomigliano a formazioni organiche, alghe, cose primordiali della natura. E così la scrittura si fa motore della creazione, una forza misteriosa, indecifrabile.
Prima di tornare nel mondo, un ultimo sguardo alle opere incastonate nelle teche. Sì, noi vediamo attraverso la griglia del corpo e allora queste geometrie regolari, intrecci tra pali e montanti, stecche perpendicolari, inquadrature immaginarie in una sorta di mise en abyme in cui la struttura-telaio contiene una cornice che contiene un quadro con dentro disegnata la tela incompiuta… Penelope deve essersi sentita così, in una gabbia d’oro, prigioniera del ruolo, del suo desiderio, e del volere degli Dei.
Penelope, a cura di Claudio Franzoni e Alessandra Sarchi
Roma, Palatino e Foro romano
Fino al 5 gennaio 2025
Catalogo Electa
Leggi anche:
Francesca Zanette | Penelope, un ritratto di donna
Adriana Cavarero | Penelope al Colosseo
Daniela Brogi, Penelope, un telaio tutto per sé Quadri e letteratura
La Stampa Tuttolibri, 23 novembre 2024
https://ilmanifesto.it/penelope-una-regina-in-cerca-di-autonomia
https://machiave.blogspot.com/2015/02/penelope-prima-vista.html
https://machiave.blogspot.com/2024/09/penelope-la-sposa-ritrovata.html
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