Viktor Nekrasov, Sovietico in Italia, Vallecchi editore, Firenze 1960
…
la
genuina cucina italiana la conoscemmo qualche giorno dopo, ospiti di
Linuccia Saba, la figlia del famoso poeta italiano Umberto Saba, ora
morto. Non ricordo esattamente quello che ci fu offerto; ricordo
soltanto che era tutto molto gustoso: Linuccia Saba è famosa per i
suoi pranzi raffinati. Ma la sera trascorsa in in casa sua mi restò
impressa non tanto per le pietanze che mi furono offerte, quanto per
ciò che avvenne quando il pranzo finì.
Una breve nota scritta
dalla nostra ospite e pubblicata sul giornale “Il Punto”,
cominciava così:
“- Dei russi invitati a pranzo? – mi
domandò la mia cuoca, e nei suoi occhi apparve la paura.
- Oggi
da voi ci saranno veramente dei russi? – domandò la portiera, e i
suoi occhi si accesero di un bagliore fanatico”.
Evidentemente,
a provare questo interesse non furono solo la cuoca e la portiera
della signora Saba, dal momento che alla fine del pranzo
nell’accogliente appartamentino al sesto piano era difficile
rigirarsi, tanti furono gli ospiti che arrivarono.
C’era
anche Vasco Pratolini, l’autore del meraviglioso libro “Cronache
di poveri amanti”, calmo, riservato, con lo sguardo un po’ triste
sotto gli occhiali, e Giovanni Pirelli, il critico letterario Angelo
Maria Ripellino, ancora giovanissimo, che parla correntemente il
russo, autore di una ricca antologia di poesia russa. C’era,
s’intende, anche Carlo Levi, sorridente e affabile, il principale
animatore di questo incontro. Gli altri non li conoscevo.
Prendemmo
posto in una piccola stanza arredata molto semplicemente, ma con
gusto. E qui ebbe inizio una discussione che terminò, più o meno,
alle tre di notte.
Non
dirò che queste poche ore furono le più facili della mia vita. Il
fatto è che, sebbene fossero passati pochi mesi dall’ottobre 1956,
tutto quanto si riferisse all’Ungheria era ancora troppo fresco. I
miei interlocutori, seduti tutt’intorno su divani, poltrone, tavoli
e sul pavimento mi sottoposero per almeno due ore, ad un incrociato
fuoco di fila. Non tocca a me giudicare quanto felici e convincenti
siano state le mie risposte (…); ma alle due di notte eravamo tutti
d’accordo che nessuno sarebbe riuscito a scuotere i rapporti
amichevoli stabilitisi fra noi e che il modo migliore per rafforzarli
era dire ciò che si pensa, difendere ciò in cui si crede,
apertamente, francamente e fino in fondo.
Due
mesi dopo, quando ero già a Kiev, lessi non senza sorridere, nel
giornale italiano arciborghese “Il Mondo”, una specie di
resoconto di quella serata. Anche in Italia avevamo sentito parlare
di questo articolo, ma, chissà perché, non potemmo trovarlo. I
nostri amici italiani, temendo evidentemente di guastarci l’umore,
dicevano: Sciocchezze, non vale neppure la pena di leggerlo! E Carlo
Levi, considerandosi fino a un certo punto il responsabile della
serata, un po’ imbarazzato disse:
-Ma
nessuno l’aveva invitata questa signora, benché si sia fermata
“L’invitata”. Ne ha avuto sentore e si è presentata. Era
impossibile non farla entrare.
È
probabile che fosse veramente impossibile, ma, forse, sarebbe stato
anche inutile, sebbene quando si va a un pranzo sia molto più
piacevole trovarsi in una cerchia di gente che non stia seduta in un
angolo con un block-notes. D’altra parte può anche darsi che
l’”Invitata” non avesse alcun block-notes: la propria
fantasia l’aveva sostituito felicemente. Lo giudico dal fatto che
nell’articolo la mia persona era vestita, chissà perché, con una
giubba di soldato, e io stesso ero descritto con l’aspetto “di un
contadino siciliano”, con le mani muscolose e il viso scolpito come
pietra, con folte sopracciglia sugli occhi neri”. Sinceramente mi
piacque molto questo aspetto esotico attribuitomi, ma, ahimè, esso
era così lontano dalla verità, quanto l’affermazione che alla
serata erano presenti “due dell’ambasciata russa”. Ma che ci
vuoi fare! Così è molto più interessante.
Il
senso dell’articolo era racchiuso nella considerazione che sotto la
grandine di domande che gli piovevano addosso “il povero scrittore
russo” aveva incominciato a sudare, si era tolto la giacca,
restando in giubbetto da soldato, e, avendo esaurito la riserva di
lodi all’indirizzo del suo paese, passò al contrattacco, accusando
gli italiani di far proiettare film antisovietici di produzione
americana, non volendo più parlare d’altro. Tutto finì in modo
tale che
solo in strada al povero scrittore, sempre accompagnato da quei
misteriosi “rappresentanti dell’ambasciata”, riuscì di
respirare liberamente.
L’invitato, Povero russo, Il Mondo, anno IX, n. 16, 16 aprile 1956
Il
russo non era sprofondato nel divano ma stavo seduto con cautela come
volendo sorvegliare oltre che gli interlocutori di fronte, anche
quelli di destra e di sinistra: aveva
la giacchetta aperta su una camicia grigioverde da soldato, grosse
mani nodose e una faccia scura e scavata, con occhi neri dalle folte
sopracciglia, con capelli neri dall’attaccatura bassa. Era un
contadino siciliano. Accanto, gli sedeva l’interprete, al di là
dell’interprete, Carlo Levi sorrideva a tutti e a se stesso. Poco
lontano, chiacchieravano due dell’ambasciata russa. Tutto attorno,
gli ospiti che erano in prevalenza socialisti, fissavano il russo
diritto negli occhi che sfuggivano, formulando domande che
l’interprete traduceva con voce sempre eguale. La padrona di casa,
Linuccia Saba, è un’ottima cuoca, oltre che una
pittrice intelligente, ed è una cuoca che non dimentica, quando
cucina, di essere una pittrice: aveva preparato un pranzo squisito, e
l’odore riempiva il piccolo appartamento e tutto era propizio alle
conversazioni pigre. Ma nessuno era pigro, tranne l’unico comunista
presente, il critico d’arte dai capelli rossi che tentò più volte
di parlare di argomenti vari, più tranquilli. Si rifiutarono gli
altri: il figlio di un intellettuale famoso, l’architetto, lo
scrittore di recente uscito dal PCI. Attorno al russo, con le teste
chine per non perdere una parola della lingua incomprensibile,
chiedevano dell’Ungheria e della Polonia, della Russia e della
Cina. Prima erano seduti un po’ in giro per la stanza, ora gli si
stringevano attorno. Era un cerchio stretto, sempre più stretto. Il
russo era uno scrittore noto non solo nel suo paese, ma anche in
Europa: si chiama Nekrassov. Il suo libro è stato tradotto
dall’editore Einaudi e dall’editore Feltrinelli, con titoli poco
diversi. Vi si narra la storia di un reduce che torna dalla guerra e
trova che le la moglie, in sua assenza, si è distratta: la
vicenda è nota, quindi, ma è cosa nuova che accade nella casta
Russia, dove mogli infedeli non esistono. Il reduce trova molte altre
cose cambiate, e talune non vanno bene: questo è perciò un libro
coraggioso e libero, nei limiti del possibile. Serrato in quel
cerchio, ora Nekrassov rispondeva come un disco: rivoluzioni sono
indispensabili, il sangue aiuta la grande causa, la destalinizzazione
dimostra l’autocritica d’un popolo ancora in sviluppo e sempre in
movimento. La soppressione dei kulaki fu un atto coraggioso. Il
comunista aveva un evidente desiderio di distensione. “Sì –
disse – Lukacs dovrebbe ora tornare in Ungheria”. Lo interruppe
il figlio dell’industriale: Parlo a nome del movimento operaio –
esclamò, urlò, sembrando, nonostante rimanesse seduto, che si fosse
alzato in piedi – Lukacs non deve tornare in Ungheria”. Diceva
Nekrassov, e l’interprete traduceva: “Io credo che dall’incontro
tra i popoli molto bene possa nascere, che la fratellanza universale
possa aumentare e l’Occidente va incontro all’Oriente e
viceversa”. Nekrassov sudava. Si mosse a disagio sul divano, si
tolse la giacca e rimase nella rude camicia da soldato: disse che in
Italia era stato al cinema e aveva visto il film “Sottana di ferro”
e aveva trovato strano che in Occidente si faccia ancora questo tipo
di propaganda. Il comunista di nuovo cercò di
disturbare qualcuno, ma lo scrittore V. C. commentò indignato: “Non
si può giudicare un paese da un film brutto, che del resto nessuno
di noi è andato a vedere”. Come non lo avesse sentito, Nekrassov
continuò a parlare della pellicola.
Erano
le due di notte. In piedi, con la faccia che appariva ancora più
scavata, lo scrittore si guardava attorno con sospetto. I due cani
che gli strusciarono sulle gambe lo fecero sussultare. Una signora
gli sorrise ed egli distolse lo sguardo. . Ma
il comunista diceva al figlio dell’industriale: “La tua
giacchetta cade senza una piega. Devi essere nato bene, tu”. Era
l’ora di andarsene ma nessuno voleva allontanarsi prima degli
altri. Uscirono insieme, e finalmente lo scrittore russo respirò:
perché lui, non conformista, capitato in un paese libero era
riuscito a dare solo risposte conformiste. Si avvicinò ai russi
dell’ambasciata.
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