mercoledì 27 novembre 2024

L'intrusa radicale

 


Viktor Nekrasov, Sovietico in Italia, Vallecchi editore, Firenze 1960

la genuina cucina italiana la conoscemmo qualche giorno dopo, ospiti di Linuccia Saba, la figlia del famoso poeta italiano Umberto Saba, ora morto. Non ricordo esattamente quello che ci fu offerto; ricordo soltanto che era tutto molto gustoso: Linuccia Saba è famosa per i suoi pranzi raffinati. Ma la sera trascorsa in in casa sua mi restò impressa non tanto per le pietanze che mi furono offerte, quanto per ciò che avvenne quando il pranzo finì.
Una breve nota scritta dalla nostra ospite e pubblicata sul giornale “Il Punto”, cominciava così:
“- Dei russi invitati a pranzo? – mi domandò la mia cuoca, e nei suoi occhi apparve la paura.
- Oggi da voi ci saranno veramente dei russi? – domandò la portiera, e i suoi occhi si accesero di un bagliore fanatico”.
Evidentemente, a provare questo interesse non furono solo la cuoca e la portiera della signora Saba, dal momento che alla fine del pranzo nell’accogliente appartamentino al sesto piano era difficile rigirarsi, tanti furono gli ospiti che arrivarono.
C’era anche Vasco Pratolini, l’autore del meraviglioso libro “Cronache di poveri amanti”, calmo, riservato, con lo sguardo un po’ triste sotto gli occhiali, e Giovanni Pirelli, il critico letterario Angelo Maria Ripellino, ancora giovanissimo, che parla correntemente il russo, autore di una ricca antologia di poesia russa. C’era, s’intende, anche Carlo Levi, sorridente e affabile, il principale animatore di questo incontro. Gli altri non li conoscevo.
Prendemmo posto in una piccola stanza arredata molto semplicemente, ma con gusto. E qui ebbe inizio una discussione che terminò, più o meno, alle tre di notte.
Non dirò che queste poche ore furono le più facili della mia vita. Il fatto è che, sebbene fossero passati pochi mesi dall’ottobre 1956, tutto quanto si riferisse all’Ungheria era ancora troppo fresco. I miei interlocutori, seduti tutt’intorno su divani, poltrone, tavoli e sul pavimento mi sottoposero per almeno due ore, ad un incrociato fuoco di fila. Non tocca a me giudicare quanto felici e convincenti siano state le mie risposte (…); ma alle due di notte eravamo tutti d’accordo che nessuno sarebbe riuscito a scuotere i rapporti amichevoli stabilitisi fra noi e che il modo migliore per rafforzarli era dire ciò che si pensa, difendere ciò in cui si crede, apertamente, francamente e fino in fondo.
Due mesi dopo, quando ero già a Kiev, lessi non senza sorridere, nel giornale italiano arciborghese “Il Mondo”, una specie di resoconto di quella serata. Anche in Italia avevamo sentito parlare di questo articolo, ma, chissà perché, non potemmo trovarlo. I nostri amici italiani, temendo evidentemente di guastarci l’umore, dicevano: Sciocchezze, non vale neppure la pena di leggerlo! E Carlo Levi, considerandosi fino a un certo punto il responsabile della serata, un po’ imbarazzato disse:
-Ma nessuno l’aveva invitata questa signora, benché si sia fermata “L’invitata”. Ne ha avuto sentore e si è presentata. Era impossibile non farla entrare.
È probabile che fosse veramente impossibile, ma, forse, sarebbe stato anche inutile, sebbene quando si va a un pranzo sia molto più piacevole trovarsi in una cerchia di gente che non stia seduta in un angolo con un block-notes. D’altra parte può anche darsi che l’”Invitata” non avesse alcun block-notes: la propria fantasia l’aveva sostituito felicemente. Lo giudico dal fatto che nell’articolo la mia persona era vestita, chissà perché, con una giubba di soldato, e io stesso ero descritto con l’aspetto “di un contadino siciliano”, con le mani muscolose e il viso scolpito come pietra, con folte sopracciglia sugli occhi neri”. Sinceramente mi piacque molto questo aspetto esotico attribuitomi, ma, ahimè, esso era così lontano dalla verità, quanto l’affermazione che alla serata erano presenti “due dell’ambasciata russa”. Ma che ci vuoi fare! Così è molto più interessante.
Il senso dell’articolo era racchiuso nella considerazione che sotto la grandine di domande che gli piovevano addosso “il povero scrittore russo” aveva incominciato a sudare, si era tolto la giacca, restando in giubbetto da soldato, e, avendo esaurito la riserva di lodi all’indirizzo del suo paese, passò al contrattacco, accusando gli italiani di far proiettare film antisovietici di produzione americana, non volendo più parlare d’altro. Tutto finì in modo tale che solo in strada al povero scrittore, sempre accompagnato da quei misteriosi “rappresentanti dell’ambasciata”, riuscì di respirare liberamente.


L’invitato, Povero russo, Il Mondo, anno IX, n. 16, 16 aprile 1956


Il russo non era sprofondato nel divano ma stavo seduto con cautela come volendo sorvegliare oltre che gli interlocutori di fronte, anche quelli di destra e di sinistra: aveva la giacchetta aperta su una camicia grigioverde da soldato, grosse mani nodose e una faccia scura e scavata, con occhi neri dalle folte sopracciglia, con capelli neri dall’attaccatura bassa. Era un contadino siciliano. Accanto, gli sedeva l’interprete, al di là dell’interprete, Carlo Levi sorrideva a tutti e a se stesso. Poco lontano, chiacchieravano due dell’ambasciata russa. Tutto attorno, gli ospiti che erano in prevalenza socialisti, fissavano il russo diritto negli occhi che sfuggivano, formulando domande che l’interprete traduceva con voce sempre eguale. La padrona di casa, Linuccia Saba, è un’ottima cuoca, oltre che una pittrice intelligente, ed è una cuoca che non dimentica, quando cucina, di essere una pittrice: aveva preparato un pranzo squisito, e l’odore riempiva il piccolo appartamento e tutto era propizio alle conversazioni pigre. Ma nessuno era pigro, tranne l’unico comunista presente, il critico d’arte dai capelli rossi che tentò più volte di parlare di argomenti vari, più tranquilli. Si rifiutarono gli altri: il figlio di un intellettuale famoso, l’architetto, lo scrittore di recente uscito dal PCI. Attorno al russo, con le teste chine per non perdere una parola della lingua incomprensibile, chiedevano dell’Ungheria e della Polonia, della Russia e della Cina. Prima erano seduti un po’ in giro per la stanza, ora gli si stringevano attorno. Era un cerchio stretto, sempre più stretto. Il russo era uno scrittore noto non solo nel suo paese, ma anche in Europa: si chiama Nekrassov. Il suo libro è stato tradotto dall’editore Einaudi e dall’editore Feltrinelli, con titoli poco diversi. Vi si narra la storia di un reduce che torna dalla guerra e trova che le la moglie, in sua assenza, si è distratta: la vicenda è nota, quindi, ma è cosa nuova che accade nella casta Russia, dove mogli infedeli non esistono. Il reduce trova molte altre cose cambiate, e talune non vanno bene: questo è perciò un libro coraggioso e libero, nei limiti del possibile. Serrato in quel cerchio, ora Nekrassov rispondeva come un disco: rivoluzioni sono indispensabili, il sangue aiuta la grande causa, la destalinizzazione dimostra l’autocritica d’un popolo ancora in sviluppo e sempre in movimento. La soppressione dei kulaki fu un atto coraggioso. Il comunista aveva un evidente desiderio di distensione. “Sì – disse – Lukacs dovrebbe ora tornare in Ungheria”. Lo interruppe il figlio dell’industriale: Parlo a nome del movimento operaio – esclamò, urlò, sembrando, nonostante rimanesse seduto, che si fosse alzato in piedi – Lukacs non deve tornare in Ungheria”. Diceva Nekrassov, e l’interprete traduceva: “Io credo che dall’incontro tra i popoli molto bene possa nascere, che la fratellanza universale possa aumentare e l’Occidente va incontro all’Oriente e viceversa”. Nekrassov sudava. Si mosse a disagio sul divano, si tolse la giacca e rimase nella rude camicia da soldato: disse che in Italia era stato al cinema e aveva visto il film “Sottana di ferro” e aveva trovato strano che in Occidente si faccia ancora questo tipo di propaganda. Il comunista di nuovo cercò di disturbare qualcuno, ma lo scrittore V. C. commentò indignato: “Non si può giudicare un paese da un film brutto, che del resto nessuno di noi è andato a vedere”. Come non lo avesse sentito, Nekrassov continuò a parlare della pellicola.
Erano le due di notte. In piedi, con la faccia che appariva ancora più scavata, lo scrittore si guardava attorno con sospetto. I due cani che gli strusciarono sulle gambe lo fecero sussultare. Una signora gli sorrise ed egli distolse lo sguardo. . Ma il comunista diceva al figlio dell’industriale: “La tua giacchetta cade senza una piega. Devi essere nato bene, tu”. Era l’ora di andarsene ma nessuno voleva allontanarsi prima degli altri. Uscirono insieme, e finalmente lo scrittore russo respirò: perché lui, non conformista, capitato in un paese libero era riuscito a dare solo risposte conformiste. Si avvicinò ai russi dell’ambasciata.




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