Francesca Mannocchi
La violenza che rende vuoto il dissenso
La Stampa, 1 dicembre 2025
Il dissenso, se vuole restare democratico, ha bisogno di luoghi dove possa essere raccontato e riconosciuto. Una redazione è uno di quei luoghi e assaltarla significa decidere che il dissenso non deve essere esercitato dentro la democrazia, ma contro di essa. Un gesto di violenza come l’assalto alla sede de La Stampa rivela con chiarezza una deriva pericolosa, in cui il dissenso viene sostituito dalla coercizione: chi irrompe in una redazione non sta dicendo soltanto “non sono d’accordo”, sta pretendendo di decidere unilateralmente cosa sia legittimo dire e cosa no, chi possa raccontare e chi debba tacere, affermando con la forza che la propria voce valga più delle altre. Un simile gesto non esprime una critica al potere: manifesta la volontà di esercitarlo, di esercitarlo con violenza.
Chi lavora in una redazione non chiede immunità dalle critiche. Le redazioni possono sbagliare: talvolta si chiudono in sé stesse, altre volte mancano di ascolto, e le piazze - quando sono vive - possono ricordare al giornalismo ciò che rischia di non vedere, le fratture sociali, le biografie che restano ai margini del discorso pubblico. Quel confronto è necessario e, quando serve, deve essere anche duro. Ma esiste un limite che, se superato, svuota la critica del suo senso: quando il confronto degenera in violenza, non si pretende più di migliorare il lavoro dell’informazione, si mette in discussione la sua stessa ragion d’essere, quella di costituire uno spazio pubblico in cui una comunità può riconoscersi, interrogarsi, trasformarsi, perché in un momento storico in cui la realtà rischia di frantumarsi in narrazioni isolate, la stampa difende la possibilità che il reale non sia soltanto percezione individuale, ma una dimensione comune su cui misurarsi da costruire insieme. Non su posizioni, ma su contraddizioni.
La delegittimazione della stampa è il segnale di una società che da tempo ha cominciato a smontare i propri strumenti critici, ma forse dovremmo tenere a mente un po’ di più che la relazione tra un giornale e i suoi lettori non è una dinamica unidirezionale: è una forma di collaborazione alla costruzione del reale. I lettori non sono consumatori di notizie, ma co-autori del senso che alle notizie viene attribuito. Ogni articolo è un invito alla discussione, non una sentenza chiusa. Una società resta viva finché chi racconta e chi ascolta riconoscono di essere parte della stessa ricerca di verità: un processo sempre aperto, sempre esposto al rischio del conflitto, sempre perfettibile. La violenza, invece, interrompe questo processo: trasforma la parola in possesso, la verità in proprietà privata, e l’informazione in campo di battaglia. Non rappresenta un eccesso di radicalità politica: è la sua cancellazione. Perché rinuncia alla costruzione condivisa di senso e sceglie l’imposizione, sostituendo la responsabilità del confronto con la pretesa di avere l’ultima parola. Cioè il verbo.
Quando una redazione viene colpita, il bersaglio non è il giornalista che scrive: il bersaglio è il lettore, perché la libertà di informare è inseparabile dalla libertà di essere informati. Chi attacca la prima sta minacciando la seconda, e quindi la capacità stessa della società di comprendere ciò che accade e di formare un giudizio, e in una democrazia, l’informazione non è un privilegio di categoria: è un bene comune che si alimenta proprio del confronto più critico e serrato con i suoi destinatari.
Essere giornalisti non significa sottrarsi alle contestazioni - significa accoglierle, farne carburante per migliorare il proprio sguardo, correggere errori, includere ciò che rischia di essere escluso. La critica è parte del metabolismo della stampa, senza di essa il giornalismo si spegne nel compiacimento o nel dogma. Ma proprio perché la critica è imprescindibile, la violenza la tradisce: la svuota, la rende cieca e regressiva. Quando si tenta di intimidire o zittire una redazione, non si sta chiedendo più voce: si sta negando lo spazio in cui tutte le voci dovrebbero poter risuonare. La violenza sottrae l’informazione al pubblico dibattito, la strappa al lettore e la riduce a terreno di conquista. Ogni forma di censura - compresa quella che passa per il terrore - non colpisce chi scrive perché ha scritto, ma chi legge perché deve poter leggere.
La libertà di essere informati è la forma contemporanea della sovranità popolare: senza di essa, la partecipazione politica si riduce a scenografia, per questo attaccare una redazione significa colpire al cuore la possibilità che una comunità possa riconoscersi nei fatti e nelle parole che la riguardano, e possa criticarle per trasformarle. Difendere la stampa, dunque, non significa proteggerla dalle critiche, ma salvarne la condizione che rende possibile criticarla ancora. Per questo oggi dobbiamo ribadire che la parola non è un ornamento della politica, ma il suo cuore: è la parola che rende il conflitto pensabile prima che sia praticato, discutibile prima che sia agito, trasformabile prima che degeneri.
Ogni attacco a una redazione mira dunque a sottrarre alla comunità uno dei suoi strumenti essenziali di mediazione: se viene meno il luogo in cui le differenze si esprimono e si riconoscono reciprocamente, ciò che rimane non è un dissenso più radicale, ma l’impossibilità stessa del dissenso. È qui che il gesto violento rivela la sua natura profondamente antipolitica: ogni volta che un giornale viene attaccato non sta accadendo “troppa” politica: ne sta accadendo troppo poca. Perché la politica - quella degna di questo nome - è ciò che riconosce la parola dell’altro come condizione della propria. La vera radicalità, oggi, non è sfondare una porta: è rimanere nel conflitto delle idee senza cercare di abolire chi le oppone. È assumersi la responsabilità di stare dentro la democrazia, persino quando la democrazia ci frustra, ci delude, ci contraddice.
La violenza è il ritiro dal campo della politica.
La parola è il suo presidio più esigente.

Nessun commento:
Posta un commento