Giuseppe Scaraffia
A spasso sull'abisso bevendo tè con uova alla coque
La Stampa, 27 dicembre 2025
Quando si spegnevano le luci, dal nono piano dell’8 bis, Avenue de Breteuil, Pierre Drieu La Rochelle (1893-1945) godeva di una magnifica vista sulla capitale. E al rapporto dello scrittore con la città e le sue case è dedicato il libro di Marco Spada, Le Parigi di Drieu, Bietti. A quel flâneur di quarantanni piaceva continuare con lo sguardo, dalla finestra di casa, le lunghe passeggiate diurne. Molto alto, biondo, squisitamente vestito, diffidava della solitudine, come di un’amante di cui non si può fare a meno, mentre faceva a meno facilmente delle donne che si succedevano nel suo letto. Un amico, Emmanuel Berl l’aveva fotografato: «Avido e disgustato, postulante e recalcitrante, desiderava tutto e doveva subito disfarsene, denaro gettato, donne lasciate, oggetti perduti… Come se volesse guadagnare solo per avere più cose da perdere ».
Uno dei sogni ad occhi aperti di Drieu era immaginare un appartamento in tutti i dettagli. L’essenzialità dell’arredamento di quelle tre stanze si avvicinava molto a quei sogni: la lunga tavola da lavoro, la cassettiera della nonna, un largo divano, il calamaio, il portacenere. L’ultramoderno lampadario di ferro battuto di Jean-Michel Frank era un dono della bella e ricchissima Christiane Renault insieme all’inattesa passione che a tratti sembrava riuscire a strapparlo dal senso di declino che gli insidiava la vita. L’unico quadro era di Roger de La Fresnaye, secondo lui l’ultimo pittore francese. Poche casse proteggevano e imprigionavano ancora i libri e i manoscritti, in attesa di un’imprevedibile liberazione. Su tutto vegliava, in un semplice vaso di vetro, una pattuglia di rose rosse, le sue predilette.
Nelle lunghe ore venate di gelosia, che Christiane, volubile moglie del creatore della Renault, gli lasciava si succedevano effimere figure femminili. Che si innamoravano infallibilmente di quello che una di loro aveva descritto come «un bambino molto infelice», che desiderava con tanta intensità che una donna «gli desse la luna». Solo Victoria Ocampo era riuscita, come scrive Spada, a «ritagliare uno spazio per le vanità di entrambi», ma era una delle donne più affascinanti, generose e intelligenti del tempo e si sarebbe rapidamente ritirata nel territorio più tranquillo dell’amicizia.
Le maldestre scelte politiche di Drieu lo avevano isolato ulteriormente da quella generazione affezionata al mito dei grandi maestri, delle guide spirituali. Lui invece non riusciva a prendere sul serio né i maître à penser né chi aveva bisogno di pensare che esistessero.
Si era trasferito in quella che chiamava la sua piccionaia nell’autunno del 1935, dopo la travolgente esperienza del congresso del partito nazista, delle scenografiche sfilate dei giovani nazisti che gli avevano ricordato i Balletti Russi. Era l’inizio di un lungo equivoco, che l’avrebbe portato a condannarsi a morte, tentando ripetutamente, fino a riuscirci, il suicidio. Come non pochi altri scrittori dell’epoca, Drieu si era lasciato tentare dal mito dell’azione e come molti di loro ne era stato deluso e tradito. Il suo grande amico, André Malraux, che malgrado tutto continuava a considerarlo «una delle persone più nobili che abbia incontrato», gli aveva offerto di unirsi al gruppo di partigiani che comandava. Ma Drieu era stanco, deluso e non voleva situazioni di ripiego. « Non voglio fuggire. Non voglio nascondermi». Aveva solo un rimorso: «Non essere stato capace di incarnare in questi ultimi anni un personaggio rimasto senza interpreti: quello del dandy, dell’uomo rigorosamente non conformista che rifiuta tutte le sciocchezze del momento e dimostra con discrezione - ma anche con fermezza - un’indifferenza sacrilega ».
Durante l’occupazione tedesca, mentre i suoi colleghi collaborazionisti facevano attenzione a non farsi vedere con i militari in divisa, lui li invitava apertamente in avenue de Breteuil. Uno di loro ricorda di avere trovato arrivando le lampade spente che lasciavano lo spazio alle luci notturne e alla Tour Eiffel.
In uno di quei giorni difficili e ambigui aveva riconosciuto nello sguardo sprezzante di un giovanotto, incrociato nei tranquilli giardini delle Tuileries, un resistente, ma, come sempre, non l’aveva denunciato, anzi aveva sorriso di quell’ardore giovanile. Non era il solo, nell’abisso inquieto di Parigi, a salvare discretamente, senza farsi ringraziare, amici e conoscenti arrestati dai nazisti.
Intanto, continuava a fare colazione al mattino con una tazza di tè e delle uova alla coque guardando dall’alto la sua città. Aveva, secondo una amico l’andatura di un sonnambulo lucidissimo ed era triste come «un roseto pensante». Sapeva che la sua sorte era segnata - «Abbiamo giocato, ho perso. Reclamo la morte» - ma non voleva farsi toccare dalle «mani sporche» dei resistenti dell’ultima ora. D’altronde, come diceva Marcel Jouhandeau, un altro autore smarrito nelle reti del totalitarismo: «È una tradizione del dandysmo scegliere la propria ora».

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