Giancarlo
De Cataldo: Agatha Christie, una lady insopportabile. Anzi,
irresistibile
La Repubblica Venerdì, 27 dicembre 2025
A chi cerca “Agatha Christie” (dicembre 2025) Google elenca trentasette milioni di pagine. A mezzo secolo dalla scomparsa, i romanzi di quella che Winston Churchill definì “la donna che, dopo Lucrezia Borgia, è stata più a contatto con il crimine” continuano a macinare copie su copie e a ispirare film, fiction, musical e opere teatrali. Ad onta del successo planetario, sull’opera della storica first lady del giallo hanno pesato, a lungo, i giudizi sprezzanti della critica letteraria più colta e accademica. A partire dall’autorevole Edmund Wilson.
Velenosissima penna di punta del New Yorker, nel 1944 Wilson pubblica un saggetto nel quale fa a pezzi il romanzo poliziesco. Lo giudica un genere a tutto concedere rassicurante, per un’umanità devastata dalla guerra. Lamenta la superficialità e la sciatteria della lingua impiegata da tanti autori. Il suo bersaglio prediletto è proprio Agatha Christie. Da un lato, ammette di essersi appassionato al suo C’era una volta, restando sorpreso per la rivelazione dell’identità dell’assassino, che gli era sfuggita. Dall’altro lato, accusa la scrittrice di ridurre i caratteri umani a mere maschere, funzioni narrative, al più finzione simile al gioco di prestigio di un abile illusionista. Ma questa illusionista, conclude acido, non ha nessuna eleganza. Ci annoia e basta.
Qualche lettore si dichiara d’accordo, altri elargiscono consigli: legga il critico libri più riusciti, e cambierà idea (in effetti, C’era una volta, ambientato nell’antico Egitto, non è proprio un capolavoro). Wilson torna sull’argomento tre mesi dopo. Ha letto svariati autori, e non ci pensa proprio a mutare opinione. Agli appassionati di gialli chiede di astenersi dal contattarlo con ulteriori proposte di lettura. A quelli che gli hanno scritto per ringraziarlo di averli aiutati a disintossicarsi dalla perniciosa abitudine di leggere romanzetti “che fanno perdere tempo e degradano l’intelletto”, dice: fregatevene di chi va proclamando in giro che anche un intellettuale del calibro di André Gide ama il giallo. “Amici, noi siamo una minoranza ma abbiamo dalla nostra la letteratura. Ci sono tanti di quei libri belli e importanti da leggere, non vale la pena perdere tempo con questa spazzatura”. E siccome c’è ancora la guerra, risparmiamo la carta, che è più saggio. Christie non viene mai citata nell’articolo. Ma il titolo è di una chiarezza esemplare: chi se ne frega di chi ha ucciso Roger Ackroyd? Superfluo sottolineare il riferimento al celeberrimo romanzo in cui Christie, sovvertendo tutte le regole del genere, dà la parola all’assassino.
Confesso: per lunghi anni sono stato tentato di dare ragione a Wilson. Con tutto il rispetto per il successo, e nella piena consapevolezza del ruolo strategico che Christie ha svolto nella diffusione del romanzo poliziesco, le sue opere mi comunicavano, alternativamente e talora cumulativamente, disagio e noia. Più che altro, mi lasciavano freddo. Vi trovavo situazioni che si dipanavano sul crinale fra l’inverosimile e il grottesco. Colpi di scena impossibili. Una rigida metafisica che mi pareva appartenesse a un’epoca talmente congelata da apparire antiquata nel momento stesso in cui veniva riversata sulla carta. Provavo in particolare un’aperta ostilità nei confronti di Miss Marple, adorabile vecchina che risolve casi intricatissimi nel minuscolo villaggio di St. Mary Mead, amena località della campagna inglese che il fascismo trasforma in Santa Maria al Ruscello. Possibile mai, mi domandavo, che in questo buco dimenticato accadano tanti di quei delitti da far impallidire i bassifondi di Londra al tempo di Jack lo Squartatore? È come se il Gotha del crimine si desse convegno, sul sagrato della canonica o nel laboratorio di pasticceria dove si confezionano torte alle mele, al solo scopo di farsi pizzicare dalla diabolica Miss.
Ma ho insistito, non mi sono arreso, sono andato avanti nella lettura e nello studio: anche lo snobismo di Wilson, a un certo punto, mi è apparso algido, irritante. Mi è accaduto, come al Premio Goncourt Pierre Lemaitre, di impugnare la pistola per sparare sulla Croce Rossa Christie e poi di finire intenerito. Sono sceso dapprima a patti. Poi mi sono convertito. Ho intuito la trama sotterranea che Christie tesse incessantemente sotto l’intelaiatura della trama apparente. Forse anche per via del tempo che scorre, ho cominciato a condividere quella che uno studioso acuto e di mente libera, Alberto Del Monte, negli anni Sessanta definiva “un’opera anticonformista e spregiudicata, lievitata di una genuina e dolente umanità”. È vero: i personaggi di Christie sono maschere. Maschere, però, di verità, e non mere finzioni al servizio di un plot più o meno (spesso più che meno) geniale. “Le apparenze sono ingannevoli, gli uomini sono maschere, la nostra conoscenza dell’una e degli altri è convenzione”.
Christie è una scrittrice radicale. Affronta la questione di petto. L’eterna questione della natura del male, che è dappertutto nel mondo, “nel simpatico atleta come nell’innocua vecchietta”. Ne deriva una visione “pessimistica e iconoclastica” della vita. Con al centro il mistero dei misteri: la natura umana. Un mistero che, sino ad oggi, nessuno è ancora riuscito a risolvere. E allora grazie, lady Agatha, per avercelo almeno raccontato.

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