Ferdinando Fasce
Dalle fabbriche all'economia globale. Perché il socialismo europeo è in crisi
Il secolo XIX, 10 novembre 2025
Più di un secolo fa, nel 1906, Werner Sombart, un importante scienziato sociale tedesco di sinistra, metteva a confronto gli indubbi successi conseguiti dal Partito socialdemocratico del suo Paese (Spd), che aveva appena conquistato quasi un terzo dell’elettorato, e le forti, inveterate difficoltà di radicamento socialista negli Stati Uniti. E individuava nella maggiore mobilità sociale statunitense la risposta alla domanda con la quale intitolava il proprio saggio (“Perché non c’è il socialismo negli Stati Uniti?”). Oggi, in un libro appena tradotto (Cambiare la vita? Storia del socialismo europeo dal 1875 a oggi, 2025, Einaudi, pp. 442, euro 28), lo storico francese Gilles Vergnon ripete la domanda, ma rivolgendola all’Europa. Cartina del continente alla mano, Vergnon si chiede perché il socialismo, dopo aver continuato a non sfondare nel Nuovo mondo, nel XXI secolo si è incartato anche in quello Vecchio. Tanto che i paesi dell’Unione Europea con una presenza socialista trainante al governo sono appena tre: la Spagna, Malta e la Slovenia. E per trovare il quarto bisogna lasciare la UE e sbarcare in un’Inghilterra da un anno di nuovo laburista, dopo un digiuno durato quattordici lunghi anni. Ma con un governo Labour di Keith Starmer che è comunque già in forte difficoltà, incalzato dalla destra estrema e nostalgica di Nigel Farage.
Come si spiega la crisi attuale del socialismo europeo? Vergnon lo chiarisce dopo una lunga e nitida carrellata storica, che parte dal 1875, anno di fondazione della Spd, e arriva sino ai nostri giorni e alla disfatta di quello stesso partito, uscito malconcio dalle elezioni di febbraio che lo hanno relegato al terzo posto (16,4%), dietro i cristiano-democratici di CDU/CSU (28,5%) e l’estrema destra di AfD, per la prima volta attestata su un quinto dei suffragi.
La crisi della socialdemocrazia, scrive Vergnon, si spiega con l’obsolescenza dell’ecosistema economico, sociale, politico e culturale attorno al quale quel modello politico era costruito. A partire dalla struttura del capitalismo che nel trentennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale ha fornito la base delle fortune socialdemocratiche. Vi campeggiavano gli operai-massa dell’apparato industriale di impronta fordista, con grandi imprese e produzioni e consumi allargati, grazie a un’ampia presenza sindacale e a salari relativamente sicuri e in crescita. Questo capitalismo operava entro la cornice di Stati nazionali forti, in grado di contenere gli “spiriti animali” dell’economia di mercato, garantendo la cittadinanza sociale in forma di contrattazione collettiva e welfare (sanità, pensioni). Nell’ultimo quarantennio questo modello ha lasciato il campo a un capitalismo finanziario e globalizzato, sempre più soggetto al controllo di forze legate alla finanza, situate a migliaia di chilometri di distanza dalle fabbriche e dagli uffici, e, grazie all’informatica, pronte a muovere capitali su una scala inaudita e senza confini. Le vecchie fabbriche integrate del fordismo hanno così passato la mano a siti produttivi multipli, sparsi per il pianeta, in una nebulosa di piccoli subappaltatori, a comando centralizzato. E con conseguente poco spazio per il compromesso sociale e la rappresentanza sindacale. Decisivo, poi, è l’indebolimento degli stati nazionali, sempre meno attrezzati a regolare forze economiche di natura transnazionale e globale, e reggere alle sfide della privatizzazione e del trionfo del mercato. Come non bastasse, la scoperta della questione climatica e del persistere di forme strutturali di razzismo ha minato la fiducia nel fatto che una qualche forma di gestione pubblica delle risorse economiche potesse risolvere tutti i problemi, fiducia su cui il socialismo europeo aveva costruito i propri successi.
Una vicenda chiusa? “Il resto lo si vedrà in futuro”, conclude Vergnon, sottraendosi giustamente, da storico, all’inutile esercizio di sfogliare la margherita di quello che sarà di una lunga storia che, se non è riuscita a “cambiare la vita”, ha comunque “cercato a lungo di cambiarla e contribuito a farlo”. A New York, Zohran Mamdani, il candidato socialista vincitore delle primarie democratiche per le elezioni di sindaco del prossimo novembre, sembra crederci ancora. Chissà che cosa direbbe Sombart!

Nessun commento:
Posta un commento