Giuseppe Bonvegna
Etty Hillesum
Bonhoeffer e Ricoeur: "Dio è morto? No, è stato liberato"
Avvenire, 15 dicembre 2025
A più
di vent’anni di distanza da quando, tra il 1943 e il 1945, il teologo
protestante tedesco Dietrich Bonhoeffer si era chiesto, in un campo di
concentramento nazista dove si trovava rinchiuso (prima di esservi
ucciso il 9 aprile 1945), come mai la Seconda guerra mondiale non
provocasse una «reazione religiosa», il filosofo francese Paul Ricoeur
decise di ricavare, nel 1966, alcune domande «da quelle note sparse che
sono come una specie di scintillio nella notte».
Si
trattava di una conferenza su Bonhoeffer, tenuta al Centre Protestant
de l’Ouest di Niort, nella regione della Nuova Aquitania, che Ricoeur,
allora docente alla Sorbona, pubblicò subito, ma solo in forma
dattiloscritta in rivista: e che adesso viene riproposta in prima
edizione mondiale in libro per Morcelliana, con traduzione e cura di
Ilario Bertoletti: Bonhoeffer. L’interpretazione non-religiosa del cristianesimo (pagine 68, euro 11,00).
Il
filosofo, nato a Valence in Francia nel 1913 e formatosi, negli anni
Trenta, a contatto col cattolicesimo francese della rivista “Esprit” e
delle riunioni parigine “del venerdì” a casa di Gabriel Marcel,
utilizzava ampiamente nello scritto del 1966 il famoso testo del teologo
luterano, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, non solo
dimostrando, come mette in luce Bertoletti, una propria «militanza»
all’interno del protestantesimo francese, ma anche imprimendo una
(ancora non molto nota) “svolta protestante” alla propria filosofia, che
fino a quel momento era sembrata innestarsi sul pensiero cattolico.
Era stato infatti proprio a partire dalla frequentazione di “Esprit” e di Marcel che Ricoeur, traducendo Ideen (l’opera
del 1913 del fondatore della fenomenologia Edmund Husserl), aveva
iniziato a criticare la centratura husserliana sul soggetto all’interno
del processo conoscitivo, diventando uno degli esponenti principali
dell’ermeneutica e della svolta antropologica della filosofia del
Novecento, entrambe ruotanti sulla riscoperta della dimensione
dell’esistenza. Prigioniero in Pomerania durante la Seconda guerra
mondiale, era poi stato docente all’Università di Strasburgo dal 1948 al
1956, anno del passaggio alla Sorbona, dove la sua critica al
soggettivismo moderno husserliano avrebbe beneficiato della lettura di
Kant (in particolare i temi del male, della finitezza e della colpa) e
di Freud, ma anche dei fondatori novecenteschi dell’esistenzialismo
(Karl Jaspers e Martin Heidegger) e di Verità e metodo di Hans Georg Gadamer (1960): giungendo così alla pubblicazione di Finitudine e colpa (1960), dove non le idee, ma «il simbolo dà a pensare».
Nell’incontro
con il pensiero di Bonhoeffer, Ricoeur vedeva la possibilità di
proseguire lungo questo sentiero antirazionalista: e ciò in quanto anche
il teologo luterano (rientrato dagli Usa in Germania nel 1940 allo
scoppio della guerra con l’ultima nave per l’Europa per stare vicino al
suo popolo) aveva provato a “de-razionalizzare” il cristianesimo. Il
Novecento, infatti, era, per Bonhoeffer, un tempo in cui era finita la
religione cristiana, intesa nelle sue due dimensioni (metafisica e
interiore): dopo il tramonto del Dio della metafisica o dei filosofi
(avvenuto nel corso della filosofia e della cultura moderne), stava
tramontando anche il Dio dell’«interiorità», che veniva cercato nelle
«esperienze limite dell’uomo: morte, peccato, sofferenza».
«Ora,
dice Bonhoeffer, questo “Dio” continua ad arretrare nella misura in cui
la conoscenza progredisce. Noi siamo in una fase della cultura nella
quale “Dio” è stato posto ai confini del mondo. E, nell’ultima fase, si
tenta di trattenerlo, come spiegazione “tappabuchi”, in quanto risposta
alle questioni insolubili, una soluzione delle domande senza risposta:
ovvero, si ricorre a questo “Dio” ai confini dell’esperienza, quando le
risorse dell’esperienza sono state esaurite o quando sono impotenti. È
quindi veramente il “deus ex machina”, al quale si ricorre per trovare
una soluzione a una situazione intellettuale irrisolta. L’uomo, afferma
Bonhoeffer, è divenuto maggiorenne nel senso che ha appreso a far fronte
a tutte le domande di fondo senza ricorrere a questo “Dio” come ipotesi
di lavoro».
Ricoeur
ricordava come questo tramonto fosse salutare, agli occhi di
Bonhoeffer, in quanto il cristianesimo autentico avrebbe dovuto essere
non quello che parla all’«uomo religioso» (cioè, all’uomo che attraverso
la propria interiorità cerca la salvezza), ma quello di Gesù Cristo,
che parla invece all’«uomo non-religioso»: vale a dire a un uomo che
scopre la fede non come risposta a una ricerca umana interiore, ma «per
ciò che essa è: fede».
Non
era difficile rintracciare in questa impostazione, che al tentativo
umano di diventare santi sostituiva il solo credere, l’eredità del
calvinista svizzero della prima metà del Novecento Karl Barth; ma
Ricoeur, oltre a ciò, riteneva che in Bonhoeffer ci fosse un passo in
più rispetto al “sola fides ” barthiano, proprio nel momento
stesso in cui affermava che la fede doveva parlare solo all’uomo
«non-religioso»: fede e ateismo non erano più mondi separati, dal
momento che poteva esistere una fede che dava ragione all’ateismo di
Nietzsche, cioè all’affermazione della morte di Dio, a patto di
intendere con “Dio” solo il Dio della metafisica e dell’interiorità.
E
fu proprio dopo aver interiorizzato questa eliminazione bonhoefferiana
della metafisica e dell’interiorità dal rapporto dell’uomo con Dio che
Ricoeur poteva affermare, qualche anno dopo, ne Il conflitto delle
interpretazioni (1969), che «bisogna che un idolo muoia affinché inizi a
parlare un simbolo dell’essere»: iniziava, quindi, un percorso che lo
avrebbe portato, durante il decennio successivo di docenza a Lovanio e a
Nanterre (Paris-X), a La metafora viva (1975) e, infine, a Dal testo
all’azione (1986), Sé come un altro (1990) e La memoria, la storia e
l’oblio (2000). Paul Ricoeur morì nella sua casa di Châtenay-Malabry,
alle porte di Parigi, il 20 maggio 2005.
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