domenica 28 dicembre 2025

Il sentimento dell'infinito in noi

Franco Livorsi 
Lo svelamento dell'Essere nella vita degli individui dopo la "morte di Dio"
Città futura on line, 27 dicembre 2025

...  c’è, sempre in riferimento ai massimi problemi – “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?”, infinito, eterno amore, mondo divino, morte o superamento, o relativizzazione, della stessa – una soluzione specularmente opposta a quella del “razionalismo”.

Potrebbe pure essere quella che ci suggerisce un qualche sentimento umano fondamentale. Ma, si dice, affidarsi ai sentimenti, per quanto “oceanici” – come quello opposto da Romain Rolland a Freud, e da Freud accettato – è “irrazionalista”? – E con ciò?

Sto appunto parlando, dopo la strada razionalista, della strada del sentimento: quella che faceva appunto dire a Pascal, il quale aveva già quasi inventato i computer, che il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende. In antico, senza vedere ciò come via del sentimento, era la via che vedeva il credere e il ragionare come due rette parallele che non s’incontravano mai, essendo due modalità dello spirito. Una, talora, fa quasi toccare lo spirito con mano (ma – si dice a scopo vanamente liquidatorio, e non a torto sul piano logico puro – è “irrazionalista”); l’altra è di puro raziocinio, ma tale che dello spirito, a quanto pare, non capisce niente. La via del sentimento o anelito dell’infinito è “irrazionale”; ma se le dai retta l’oscuro – però vitalmente importante – si fa un po’ più chiaro (solo che è “logicamente” non persuasivo, è giocoforza ammetterlo).

San Paolo, in quello che per il grande teologo protestante del Novecento Karl Barth era il testo filosofico-teologico decisivo del cristianesimo (La lettera ai Romani), parlava di salvezza “per sola fede”.[22] Ciò, dopo Paolo, induceva il principale tra i primi apologisti (“difensori” della fede cristiana non ancora dominante), Tertulliano a dire “Credo quia absurdum” (“Credo perché è assurdo”: proprio quello che per la ragione umana è un’assurdità, ad esempio che Dio si sia fatto carne, e per di più volontariamente lasciato crocifiggere, è vero su un piano che sorpassa la povera angusta visuale “ragionevole” dell’umano “troppo umano”).

Poi, specie dopo il 1000, la chiesa “romana” trionfante credette di poter dimostrare se non tutti i “misteri della fede”, cose assolutamente decisive per essa (pure per Dante), come l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, tramite un Aristotele cristianizzato, come in Tommaso d’Aquino. Ma già la tarda scolastica, in specie francescana, di tutto quest’armentario logico, come in Occam, voleva disfarsi.

Ciò parve tanto più vero dopo che tutto il dualismo metafisico tradizionale – per cui da un lato stanno le idee eterne e immutabili, o le forme eterne di tutte le specie di materia, e dall’altro sta la materialità in cui si “formano”; da un lato le anime e dall’altro corpi; o da un lato Dio e dall’altro il cosmo – fu un dualismo posto in crisi dalla rivoluzione scientifica in specie da Galileo a Einstein passando per Newton e poi Darwin.

Ma la crisi di quella vecchia cosmologia dualistica – platonizzante, aristotelica, classicamente scolastica, tomistica – era già forte nel XIV secolo avanzato. E allora, già attento al richiamato Occam, ecco tornare il fideismo, con Lutero, dal 1517 (tesi di Wittenberg, da cui parte il Protestantesimo), il quale ci dice che l’intelletto puramente umano sui “massimi problemi richiamati non vale niente di niente, e che “solo la fede ci può salvare”, con una specie di salto della barricata rispetto al nostro povero e però ingannevole, e diabolicamente antropocentrico, ragionare e volere puramente umano[25]. Di nuovo si torna al richiamato Paolo. Pure della Summa theologiae del santo Tommaso dovremmo farci un baffo e affidarci invece alla fede, la nostra sola possibile bussola soprannaturale, su cui per la navigazione abbiamo la Rivelazione, la Bibbia, specie il Nuovo Testamento, per attraversare la vita. Per Lutero e compagni è come se si aprisse una luce al buio: questa luce che fa scoprire significato e fine della vita, non la “apre” affatto l’intelletto, ma un’altra “modalità” del pensare: la fede, che in noi è apertura al soprannaturale, in attesa di essere “aperta”. (E non si sa perché chi ce la fa, ce la fa, e chi non ce la fa non ce la fa; per la spiegazione chiedete a Dio, s’il vous plait).

Alcuni a questo punto mi potranno domandare: “Ma che cosa c’entra mai il sentimento in tutto quel che stai dicendo, benedetto Franco Livorsi?”. Portate pazienza: c’entra parecchio. Infatti la fede, di cui tutti questi qua – San Paolo, Tertulliano, Lutero, e nel XX secolo, Barth e compagni – rivendicavano l’assoluto primato per aprire la porta chiusa dei “massimi problemi” detti, è proprio il sentimento assoluto che sia così. Dite quel che volete, ma in noi – dice l’uomo della fede, come l’Abramo dello straordinario Timore e tremore di Kierkegaard – c’è un sentimento antropologico speciale che ci fa comprendere che è così. Il solito per me grandissimo Dostoevskij l’aveva meravigliosamente spiegato in momenti centrali dell’Idiota. C’è un punto in cui il protagonista, il principe Myskin, figura di santo folle simile a Cristo tra noi contemporanei, è interrogato, sulla fede, dal suo grande e cupo amico Parfèn Rogozin, che alla fine compirà il femminicidio della donna amata. Myskin gli richiama vari episodi sull’assurdità e realtà della fede, per concludere che in essa c’è qualcosa di antropologico che prescinde da ogni dichiarazione di fede o negazione della fede (ma è in sé fede, e insopprimibile fede, pure nella negazione della fede), notando: “Parfèn, poco fa mi hai fatto una domanda ed ecco qual è la mia risposta: l’essenza del sentimento religioso non dipende da nessun ragionamento, da nessuna colpa o delitto, da nessuna convinzione ateistica; qui c’è qualcosa di diverso e d’indefinibile, che sarà sempre tale, qualcosa che tutte le concezioni atee non riusciranno mai a intaccare, perché sempre parleranno di qualcosa d’altro. Ma l’essenziale è che è proprio questo che si coglie prima e più chiaramente di ogni altra cosa in un cuore russo, ecco la mia conclusione!” (Ma qui noi possiamo tranquillamente dire “umano” invece che “russo”, com’era per il cristiano “ortodosso” Dostoevskij; possiamo, cioè, fermarci al “sentimento religioso” come un a priori, o archetipo, dello spirito umano. Questo precisa meglio il cristiano, e poi “protestantico”, primato del credere sul ragionare: non come primato “nel ragionare”, ma come un al di là del ragionare, che c’è in noi).

Questo alle origini del XIX secolo, nel Romanticismo, trova la sua filosofia in Schleiermacher (su cui dovremmo pure leggere la prima opera del grande storicista contemporaneo Wilhelm Dilthey nel XX secolo[28]): uno Schleiermacher da cui parte tutta l’ermeneutica, che poi arriva sino a Luigi Pareyson e Gianni Vattimo[29]. Schleiermacher, come poi anche Mircea Eliade, precisava che il sentimento originario religioso aveva a che fare con la percezione di un Assoluto in noi che ci sovrasta totalmente (come se noi fossimo un fuscello di fronte alla sua infinita potenza), che poi in un famoso libro del 1917 Rudolf Otto dirà “Il sacro”, originando la grande corrente filosofico religiosa, e interpretativa, della fenomenologia religiosa (appunto sino a Eliade e oltre).

Com’è noto Hegel liquiderà icasticamente il sentimentalismo romantico di Schleiermacher, poiché lui mirava a un infinitizzare (suo malgrado “romantico e mistico”), di tipo neo-razionale, dicendo che se avesse avuto ragione Schleiermacher, per cui la religiosità è il sentimento di un Assoluto che in noi totalmente ci sovrasta, l’animale più religioso sarebbe stato il suo cane, il più persuaso dell’assolutezza del padrone. Ma nella sua replica di scherno filosofico nei confronti del romantico sentimentale filosofo religioso non dappoco, Hegel era riduttivo, perché lo svelamento del sentimento dell’infinito in noi – ci sovrasti come in Schleiermacher o Otto oppure sia immanente in noi, come per Schiller e altri – era centrale, e portava e porta lontano, evidenziando il sentimento dell’infinito in noi. Tuttavia per quanto porti lontano, quest’approccio non può rispondere “razionalmente” allo spirito scientifico (anche se mi pare indubitabile pure il rovescio). Perciò dobbiamo vedere se non ci sia una terza strada.

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