Gianni Oliva
Quei centri sociali arroccati sullo scontro
La Stampa, 22 dicembre 2025
Di fronte allo sgombero di Askatasuna (e settimane fa del Leoncavallo) mi lasciano perplesso le prese di posizione indignate, le raccolte firme e i riferimenti storici al “movimentismo” del ’68. Le lotte partite simbolicamente con la “battaglia di Valle Giulia” (1 marzo 1968) e proseguite per almeno un biennio, videro coinvolte centinaia di migliaia di manifestanti, studenti figli della buona borghesia e operai immigrati dell’ “autunno caldo”. Ci furono errori, frange violente, farneticazioni ideologiche (non a caso, sfociate poi nella deriva degli anni di piombo e di tritolo): ma all’origine del movimento c’era la contestazione di “un modo di gestire il potere” in nome di “un altro modo”, per quanto confuso e informe. Si leggeva; si studiava; si discuteva fino all’esaurimento nelle assemblee. Era l’effervescenza italiana (e occidentale) di un mondo che si ribellava all’ordine postbellico e che aveva i suoi simboli nel Vietnam, in “Che” Guevara, in Nelson Mandela, in Martin Luther King, in Jan Palach.
Ben diverso è l’ “antagonismo” dei Centri Sociali: contro la Tav o contro Netanyhau, contro La Stampa o contro Leonardo, l’essenza è l’opposizione. Non si tratta di contestare un modo di gestire il potere, ma di contestare il potere in sé. Dimenticando, così, che il potere non è un’astrazione: il potere significa organizzazione della comunità, e si manifesta in migliaia di forme diverse. Le rivoluzioni che hanno cambiato il mondo hanno combattuto la forma storica in cui il potere si materializzava e hanno affermato al suo posto una forma storica nuova: è stato così per i liberali del 1789, per i giacobini del 1793, per i bolscevichi del 1917, per le lotte di liberazione anticoloniale. Non tutti gli esiti rivoluzionari sono stati positivi, ma tutti sono partiti dalla critica dell’esistente e da una prospettiva concreta di cambiamento.
L’ “antagonismo” esprime invece una forma di disagio esistenziale che trova la sua identità proprio nell’essere negazione: se all’ “antagonista” si toglie la caratteristica di “essere contro”, che cosa gli rimane? L’errore del Sindaco e della Giunta di Torino (al netto delle speculazioni politiche sin troppo facili) è stato pensare che l’ “antagonismo” si potesse normare, che allo scontro potesse succedere la collaborazione. Intento lodevole, ma se il progetto avesse funzionato, l’antagonismo non sarebbe più stato sé stesso: e per questo non poteva funzionare. I Centri Sociali innalzano di volta in volta bandiere occasionali, sventolate senza conoscerne il retroterra. Ieri il G7, oggi il No-Tav e i Pro-Pal, domani chissà. È vero che essi alimentano anche iniziative di quartiere ed esprimono forme di creatività (tipiche peraltro di tutte le manifestazioni di ribellismo), ma l’essenza è un’altra. Non a caso, gli antagonisti non hanno riferimenti in personaggi di statura o movimenti riconosciuti, ma si raccolgono attorno a slogan.
La nostra democrazia, espressa attraverso la libertà di voto, non è certamente perfetta, soprattutto in questa stagione, dove la libertà è sulla bocca di tutti mentre pochi si ricordano dell’uguaglianza e della giustizia. Ma, come disse sarcasticamente Winston Churchill nel 1947 alla Camera dei Comuni, «la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme sperimentate finora». Oggi servono energie positive che si battano per cambiare le anomalie e le esclusioni, generazioni giovani che si impegnino nelle battaglie per migliorare la forma storica del “potere”, non negatori seriali arroccati nella logica dello scontro. Vale per Askatasuna e Leoncavallo, vale per CasaPound (a proposito, a quando lo sgombero di via Napoleone III a Roma…?).

Nessun commento:
Posta un commento