lunedì 1 dicembre 2025

I cattivi presagi di una ebrea

Anna Foa
I cattivi presagi di Arendt su sionismo e Palestina
La Stampa, 28 novembre 2025

Quando nel 1933 Hitler prese il potere in Germania, Hannah Arendt aveva ventisette anni. Laureata in filosofia e teologia, aveva studiato con i maggiori filosofi del tempo, Heidegger, Jaspers e Bultmann. Fu arrestata perché i suoi studi sull’antisemitismo erano considerati illegali, ma fu poi liberata e riuscì a lasciare la Germania per Parigi, dove visse fino a quando, allo scoppio della guerra, fu internata come straniera nemica nel campo di Gurs. Liberata, nel 1941 riuscì a fuggire attraverso la Spagna raggiungendo gli Stati Uniti e stabilendosi a New York. Qui la giovane profuga cominciò a collaborare regolarmente al giornale che ben presto divenne il maggior giornale ebraico in lingua tedesca degli Stati Uniti, Aufbau.

Questo libro raduna appunto i suoi scritti su Aufbau fra il 1941 e il 1945, cioè lungo tutta la durata della guerra, con una lunga interruzione però fra il 1942 e il 1943, quando smise di scrivervi perché in disaccordo con la linea politica del giornale. Sono brevi saggi che ci mostrano le riflessioni e le posizioni che la giovane filosofa traeva dalle notizie terribili che arrivavano dall’Europa. Allo stesso tempo, questi sono gli anni più intensi dell’impegno sionista della Arendt, impegno che la aveva già spinta nel suo periodo parigino a lasciare la filosofia per la politica. Aveva finito a Parigi di scrivere il suo libro su Rahel Varnhagen, una critica netta dell’assimilazione degli ebrei. Scrive ora sul sionismo, sulla prospettiva di uno Stato ebraico in Palestina e sul ruolo che il popolo ebraico avrebbe dovuto avere in quella guerra e poi nel dopoguerra. Ampia era in quegli anni l’adesione al sionismo dei tanti profughi ebrei negli Stati Uniti, e nette le divergenze e i conflitti fra le diverse anime del movimento. Un mondo politico diversificato che Arendt pone sotto la sua acuta lente di ingrandimento e di cui analizza il ruolo, prima che la nascita dello Stato di Israele diventasse un’opzione attuabile e prima che tramontasse la prospettiva del mantenimento del protettorato britannico sulla Palestina. Come Enzo Traverso sottolinea nell’introduzione, lo sguardo di Arendt è uno sguardo potremmo dire viziato da “orientalismo”, ed è fortemente europeo anche nell’adesione al sionismo. Per lei, lo Stato di Israele, se si fosse realizzato, avrebbe dovuto essere un’emanazione della vecchia Europa, della sua cultura, del suo ebraismo.

Era però, quello di Hannah Arendt, un sionismo molto speciale, come ancora ci dice Enzo Traverso. Un sionismo, come lei stessa lo definirà più tardi, legato direttamente alla guerra di Hitler contro gli ebrei e alla necessità di combattere l’antisemitismo. È in quest’ottica, non in quella di una vicinanza al gruppo sionista revisionista che anche sosteneva la necessità della formazione di un esercito ebraico, che bisogna interpretare la sua decisa battaglia per la costituzione di questo esercito, allo scopo di combattere il nazismo e restituire dignità al popolo ebraico. E fu proprio il naufragare di questa prospettiva che la spinse, fra il 1942 e il 1943, a non scrivere per un anno su Aufbau, mentre nel 1944 le notizie che giungevano sulla Resistenza ebraica e sulle rivolte dei ghetti la spinsero a riprendere questa battaglia in un’ottica leggermente diversa. È comunque l’ottica che ritroveremo nel suo seminale volume sulle origini del totalitarismo del 1951, della critica alla mancanza di autonomia del popolo ebraico, la critica insomma al parvenu e l’esaltazione del paria consapevole e rivoluzionario.

È quello di Arendt uno sguardo complessivo non solo sul mondo ebraico ma in generale sulle trasformazioni che la guerra stava introducendo ovunque, con la diffusione di una massa ingente di profughi, apolidi e senza patria. Era la prospettiva di un superamento dell’immagine di un antisemitismo onnipresente e eterno su cui si sarebbe costruito lo Stato di Israele? Certamente la riflessione successiva di Arendt sarebbe andata nella direzione di una critica radicale alle fondamenta ideologiche del nuovo Stato, quella che all’epoca del processo Eichmann e dei suoi scritti sulla banalità del male l’avrebbe spinta a rompere col suo vecchio amico Gershom Scholem, che la accusò di non amare abbastanza Israele, e a riconsiderare ulteriormente la questione palestinese, già presente nei suoi scritti del 1944. La stessa preoccupazione che già nel 1948 la aveva spinta, insieme ad Albert Einstein e ad altri 28 intellettuali ebrei, a scrivere una lettera al New York Times in cui si denunciava il massacro di palestinesi compiuto da membri della destra israeliana diretta da Menachem Begin, una lettera che ebbe vasta risonanza.

Oggi, che i nipoti degli autori di quel massacro e di altri simili sono al governo in Israele, vale forse la pena di rileggerla e meditarla.

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