sabato 20 dicembre 2025

Il fantasma della Russia


Cesare Martinetti
L'Europa dallo psicanalista
La Stampa, 20 dicembre 2025

La Russia è un mistero, secondo uno degli stereotipi più diffusi. Ed è misteriosa la ragione per cui continua ad esercitare un fascino diffuso, per quanto sinistro. Ma non è una novità. Arthur Koestler, che aveva pagato carissima la sua militanza comunista culminata nella denuncia dello stalinismo, scriveva già nell’agosto 1941 che ogni ex conservava dentro di sé una arrière pensée, anche un debole ma inestirpabile retropensiero: «I nostri sentimenti erano quelli di un uomo divorziato da una donna molto amata: la odia, ma è consolante sapere che lei esiste ancora, giovane e vitale».

Luigi Zoja, psicanalista junghiano, sociologo, scrittore di umanità e di mondi, dà dell’attrazione per la Russia una lettura originale nella sua ultima raccolta di saggi uscita dall’editore Bollati Boringhieri con il titolo Il Nostro Tempo. È un libro-esplorazione dentro le identità, europea ed ebraica, i miti e la realtà, l’inclinazione buonista (e ingenua) dell’Occidente. Sullo sfondo una domanda retorica: si può morire per l’Europa? Questione ricorrente, contingenze a parte. Sul finire degli anni Trenta del secolo scorso, la variante in voga era: si può morire per Danzica? La risposta fu negativa (si sa com’è finita) ed è straordinario leggere quanto le ragioni di allora per quel no assomigliano a quelle di oggi riferite all’Ucraina: si può morire per Kiev? No, grazie.

In questo grande gioco, la Russia svolge un ruolo decisivo, anzi per Zoja avrebbe la funzione di terapia per l’uomo occidentale che «ha il fiato corto e soffoca nella compressione dello spazio e del tempo». Intossicato dall’obbligo della produttività, il nostro inconscio troverebbe nella Russia un po’ di riposo in quello spazio che si pensa anti isterico e anti maniacale.

Si tratta ovviamente di una costruzione mitica, che si regge su due piani, quello politico e quello letterario. Per la politica, lo storico fallimento del socialismo realizzato, dovrebbe funzionare da antidoto a ogni fascinazione. Ma non è così, oltre trent’anni dopo l’implosione dell’Urss, e un quarto di secolo dopo la salita al potere di Vladimir Vladimirovič Putin, l’incantesimo persiste. E anche qui ci vuole una doppia chiave di interpretazione: alla base c’è un anti americanismo viscerale che designa tuttora la Russia come modello alternativo, certo non di giustizia sociale, ma piuttosto di potere autoritario, attrazione diffusa sia a destra che a sinistra. Ma c’è anche una chiave decisamente psicanalitica, e su questo piano Zoja gioca in casa. Cosa si attiva nel nostro inconscio quando guardiamo alla Russia da lontano? (A questo proposito si noti che i grandi fan di Putin o non sono mai stati in Russia, o ne hanno un’esperienza molto superficiale, ma in ogni caso nessuno di loro ci vive o ci ha vissuto). La risposta, citando Jung, è che «l’unilateralità della nostra cultura occidentale… ci spinge ad anelare all’immensità russa, rivelando quanto profonde siano le mancanze del mondo che ci circonda e del suo frastuono».

E dunque eccoci all’inevitabile approdo, a quei «classici russi che non parlano solo dell’immensità astratta ma tentano di riprodurla su carta». Una terapia, appunto, la magia per l’infinito, il rimpianto struggente per quel paesaggio, per la tristezza irrimediabile che ogni epifania russa deposita negli occhi e nelle orecchie di noi «euroamericani».

Eppure, si tratta di un fascino quanto mai sinistro. Gramsci sosteneva che la grandezza degli scrittori russi dipendeva dall’abisso di sofferenza patita da quel popolo nei secoli. Svetlana Aleksievič, che sul racconto dello spazio post sovietico ha costruito il suo Nobel (2015), ne dà un’amara sintesi e una diretta conferma: «La nostra più grande risorsa è la sofferenza. Non il petrolio o il gas, proprio la sofferenza. È l’unica cosa che riusciamo a produrre con continuità».

Nel suo ultimo romanzo, Kolkhoze (non ancora tradotto in italiano, uscirà in primavera da Adelphi), il francese Emmanuel Carrère usa una metafora sarcastica per definire il dna della letteratura russa: «Castigo senza delitto, delitto senza castigo». E il russo Mikhail Shishkin, il più noto tra gli scrittori della diaspora anti Putin, comincia il suo ultimo saggio con una provocazione: «A cosa serve la letteratura se non impedisce il Gulag e l’operazione speciale in Ucraina?». Domanda retorica, ma non poi tanto.

Nessun commento:

Posta un commento