sabato 13 dicembre 2025

Un morto che cammina

Zelensky a Kupyansk
 

Adriano Sofri
Gli anni di guerra lasciano il segno su Zelensky. Ma anche su chi lo vede quasi morto
Il Foglio, 13 dicembre 2025

Leggo, e poi controllo – forse non è vero – che Michele Santoro ha detto nella trasmissione di Floris che “Zelensky è un morto che cammina”. Avevo pensato che forse non fosse vero, e poi avevo pensato che forse l’aveva detto per dare un allarme, per solidarizzare. L’ha detto con un gran compiacimento. Era contento di dirlo. Ieri ho letto – non ho avuto bisogno di controllare – che Sergej Viktorovicč Lavrov, il ministro degli esteri della Federazione russa, ha detto che Zelensky non ha altro interesse che prolungare il conflitto “per una questione di sopravvivenza politica, e forse anche fisica”. Molto più misurato di Santoro, la classe diplomatica non è acqua, ma il concetto è quello. 

Zelensky fu chiamato così, un morto che cammina, un dead man walking, fin dal 24 febbraio del 2022. Ha camminato così, da condannato a morte, per quasi quattro anni. Ha perduto molto del sostegno di cui era investito in quei primi giorni, i sondaggi dicono che oggi, se si potessero svolgere le elezioni, resterebbe in testa alle preferenze ma con il solo 20 per cento. Non è tanto, e del resto potrebbe anche rinunciare a candidarsi, e mirare solo ad assicurare la sopravvivenza politica, e forse fisica, del suo paese. Quattro anni così lasciano il segno. Riguardando Santoro e Lavrov, li ho trovati piuttosto appesantiti.

Marco Setaccioli 

Oggi Zelensky ha fatto visita ai soldati sulla linea del fronte, ma non in un luogo qualsiasi. Lo ha fatto a Kupyansk, città della quale ormai da giorni i russi rivendicano l’occupazione, filmandosi con un cellulare a poche centinaia di metri dai combattimenti attivi e a circa un chilometro dalle postazioni russe più vicine.
La mossa a sorpresa del Presidente ucraino ha non solo permesso di rinfrancare il morale dei militari che difendono uno dei fronti più caldi della guerra, ma anche dimostrato quanto il gioco di specchi della propaganda russa abbia costruito una realtà farlocca per inculcare nella mente delle opinioni pubbliche occidentali una sorta di rassegnazione all’idea che la Russia abbia già vinto, che avanzi in modo inarrestabile e che le sanzioni fanno male solo a noi.
Credo sia il caso di domandarsi perché anche da noi queste idiozie siano diventate una filastrocca ripetuta a nastro in tutti i talk show e su molti giornali dai soliti noti, come fossero parte di una vera e propria strategia coordinata tra chi da noi approfitta della propria sovraesposizione mediatica per manipolare la realtà e le dichiarazioni ufficiali, studiate per coincidere con queste o completarle. Questo perché la propaganda russa mira a modellare la percezione più che a descrivere la realtà. Non serve che la notizia sia vera, basta che sembri plausibile e che soprattutto arrivi nel momento di massima fragilità emotiva del pubblico. Non è un caso che il bombardamento della sfera informativa spesso coincida con quello dei droni e dei missili: l’idea che la Russia stia vincendo deve essere confortata da immagini di città in fiamme ed edifici distrutti.
Il meccanismo psicologico di fondo è un mix di “impotenza appresa”, detta learned helplessness (se ripeti alle persone che la situazione è senza speranza e mostri loro solo esempi di “sconfitte”, smettono di cercare soluzioni), priming cognitivo (ripetere continuamente “l’Ucraina sta crollando” prepara il cervello ad accettare come normale ogni notizia coerente con quel frame, anche se falsa) e bias [preconcetto] di disponibilità (più un contenuto circola, più sembra “vero”, perché il cervello valuta la frequenza come prova).
Le tecniche utilizzate sono altrettanto sofisticate. Annunciare vittorie che non ci sono, ad esempio, serve a imprimere nella mente delle persone l’idea che la sconfitta dell’Ucraina sia ormai un fatto compiuto. Crea un effetto di irreversibilità. A questo se ne aggiunge una più sottile ma devastante: la sovrainformazione. Non è necessario imporre una singola bugia, è più efficace inondare lo spazio informativo di versioni diverse, contraddittorie, confuse. È il cosiddetto flooding: un rumore continuo che rende quasi impossibile distinguere il vero dal falso. Il risultato è che l’utente medio, stanco e disorientato, rinuncia a capire. E quando si rinuncia a capire, si smette anche di prendere posizione. Lo scoramento in questo caso non nasce solo dalla menzogna, ma dal caos.
Poi c’è il lavoro sulle emozioni. La propaganda russa non mira alla persuasione razionale, ma a modellare lo stato emotivo del pubblico. Deve far crescere tre sensazioni chiave: la rassegnazione (“tanto finisce male”), la paura (“questa guerra ci danneggia”), e la colpa indotta (“stiamo solo prolungando l’agonia”). Sono emozioni molto più potenti dei dati, perché agiscono in profondità, senza bisogno di argomentazioni. Una persona preoccupata o stanca è più incline ad accettare caricature della realtà purché promettano un’uscita dal problema.
Infine, c’è il passaggio forse più intelligente dell’intero schema, cioè la legittimazione tramite fonti terze. La Russia sa benissimo che pochi occidentali si fidano di RT o dei canali ufficiali del Cremlino. Per questo ricicla le proprie narrazioni attraverso “esperti”, editorialisti, influencer o testate che nulla hanno, almeno apparentemente, a che fare con Mosca. Il meccanismo si chiama “information laundering”: prendi una bugia, la fai pronunciare da qualcuno di credibile, la riprendi come se fosse una notizia indipendente, gioco al quale da noi si prestano ad esempio molti accademici, come D’Orsi, Di Cesare o Rovelli, ma anche opinionisti che agiscono su specifici settori dell’opinione pubblica.
Il fatto che tutte queste tecniche lavorino insieme rivela due ineludibili verità. La prima è che siamo cavie di un grande esperimento di manipolazione psicologica collettiva, alcuni di noi consapevoli di esserlo ed altri invece così lusingati dall’idea di essere fuori dagli schemi e diversi dal “mainstream” da non rendersi conto di essere trattati come carne da social da scagliare in massa su determinate posizioni anche a costo di essere impallinati da figuracce clamorose (come quelle dei due “studenti fuori corso” con Calenda, per capirci) pur di assicurare alla propaganda il suo effetto moltiplicatore di menzogne e narrative tossiche, proprio come i soldati vengono mandati a migliaia a dare l’assalto alle postazioni ucraine sapendo che non ne sopravviverà nessuno.
La seconda è che a questo schema partecipano in modo incredibilmente complementare pezzi importanti del nostro sistema educativo e mediatico. E io alle coincidenze non credo più.
 
 
 

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