Il Sole 24ore, 21 dicembre 2025
Il Natale è un bambino che nasce e Georges de La Tour – padre di dieci figli – lo raffigurò in due capolavori per nulla devozionali. Nella Natività di Rennes, ad esempio, «ci si chiede se si tratti semplicemente di due donne e un neonato in fasce, oppure della Vergine Maria, di sua madre Sant’Anna e del bambino Gesù», osserva Gail Feigenbaum, curatrice con Pierre Curie dell’emozionante mostra «Georges de La Tour. Entre ombre et lumière» nella casa museo Jacquemart-André di Parigi. «La Tour ama rimanere nel limbo dell’ambiguità, colloca il divino nel mondo – chiosa Feigenbaum – e solo la luce suggerisce la sacralità delle figure».
Avido, irascibile, arrivista, eppure capace di dipingere la quiete della notte, il silenzio e la pace interiore, La Tour (1593-1652) resta per molti aspetti un artista enigmatico. La sua vita è avvolta nel chiaroscuro – come i suoi quadri – e sembra procedere per contrasti. «È l’ultimo seguace del Caravaggio – commenta Pierre Rosenberg, tra i massimi esperti del pittore – ma è un ritardatario, dipinge i suoi notturni a lume di candela tra 1640 e 1650, quando Caravaggio è morto da più di trent’anni. Non lo definirei un caravaggesco francese, ma il Caravaggio di Francia».
Sono esposte 23 opere – su un corpus di circa 40 autografi – tra cui alcune scoperte degli ultimi anni come il San Giacomo venduto per 512mila euro da Tajan a Parigi nel 2023, attribuito alla bottega, forse del figlio Étienne de La Tour; o difficili da vedere insieme come i due adolescenti che soffiano sul fuoco: Le souffleur à la pipe (1646) di Tokyo e La fillette au brasero (1640 circa) di Abu Dhabi. Ne esce l’immagine di un artista potente e indecifrabile. Dopo la super mostra al Grand Palais di Parigi nel 1997 e quella milanese di Palazzo Reale del 2020, i due curatori hanno scelto di presentare le opere per temi, dalle scene di genere colorate e luminose, ai celebri quadri a lume di candela. Sfilano alcuni dipinti degli anni giovanili, a luce diurna (suonatori di ghironda, mangiatori di piselli, bari e zingare, databili tra il 1620 e il 1630), seguiti dai notturni in cui è palpabile una sorta di «mistero pacificato» (come scrisse André Malraux nel 1951) che attraversa la Natività di Rennes, la Maddalena penitente, il San Sebastiano soccorso da sant’Irene. Lo sguardo si allarga alla produzione della bottega, passata al figlio Étienne nel 1652 (che perpetuerà lo stile paterno, senza mai eguagliarlo), alle copie di originali perduti e a tele di alcuni caravaggeschi attivi nei primi decenni del Seicento tra Nancy, Roma e Utrecht.
Simili nei soggetti (concerti in buie taverne, soldati che giocano a dadi in una bisca, santi, apostoli, la passione di Cristo), le opere esposte di Jean Le Clerc, del Pensionante del Saraceni, di Trophime Bigot detto Maître à la Chandelle e degli olandesi Gerrit van Honthorst e Ter Brugghen, messe a confronto con quelle di La Tour, aiutano a comprendere quanto il suo caravaggismo fosse molto nordico e poco italiano, fatto di una luce radente, che ritaglia le figure sullo sfondo, invece di sbalzarle in forme tonde e volumetriche sul proscenio. Sarà stato a Roma come molti suoi colleghi lorenesi? Avrà viaggiato per i Paesi Bassi? Non si sa, ma a Nancy era giunta un’Annunciazione del Caravaggio (1608 circa) come dono di nozze di Ferdinando Gonzaga alla sorella Margherita, che andava in sposa al duca di Lorena Enrico II, mentre i seguaci olandesi del Merisi, già in Italia poco prima della sua morte, avevano lasciato Roma nel secondo decennio del Seicento, diffondendo nel Nord Europa un ricco repertorio di immagini.
Nella prima mostra parigina del 1934 – che lo riportò all’attenzione dopo quasi tre secoli di oblio (altro mistero) – fu proposto tra i “Pittori della realtà”, ma Georges de La Tour va ben oltre, si direbbe piuttosto un pittore metafisico, più mentale che carnale. Come nel capolavoro del Museo di Epinal in cui illustra l’episodio biblico di Giobbe deriso dalla moglie (circa 1644). La donna è un puro volume geometrico, ingigantito dalla luce della candela che la proietta come un incubo notturno sul muro; sta in piedi e sovrasta Giobbe che, in un angolo, la guarda intimorito. Anche la tavolozza è essenziale, giocata sui toni del rosso, del bruno e del bianco.
La Tour prende in prestito dalla vita quotidiana i personaggi, ma togliendoli dalla strada li trasfigura in icone indimenticabili: musicanti ciechi, vecchi rugosi, neonati che sanno di latte. Le sue Maddalene, ad esempio, erano ragazze-madri ospitate nella casa famiglia di Notre Dame de Refuge di Nancy, che la magia della pittura trasforma nel ritratto di un’anima. Il suo universo ha per eroe l’essere umano, in posa statica, senza sfondo. L’emozione è interiore, controllata, mentre il pudore e l’economia dei mezzi espressivi sono in sintonia con il teatro di Racine e il classicismo francese. Pittore fuori del comune, ma del suo tempo, La Tour riunisce in sé gli opposti.
Era figlio di fornai cattolici di Vic-sur-Seille, baluardo della controriforma in Lorena, terra aperta ai protestanti. Dopo le nozze con la nobile Diane Le Nerf si trasferì a Lunéville. La regione in quegli anni è campo di battaglia tra le armate del re e quelle del duca: nel 1638 un gigantesco incendio devasta la città, rasa al suolo dai francesi; casa e bottega vanno in fumo. Non si salva nemmeno un bozzetto, ma l’artista non si perde d’animo. A 46 anni parte con la famiglia per Parigi dove nel 1639 viene nominato “Pittore ordinario del Re”. Le sue opere entrano nelle collezioni del cardinale Richelieu, del soprintendente alle finanze Buillon, dell’ebanista Boulle che arredava i saloni di Versailles e persino nella camera da letto di Luigi XIII. Il suo genio, ora come allora, mette a tacere il mondo per ascoltare il silenzio, in attesa del Signore che viene.
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