Simona Forti
Sinistra e coscienze asimmetriche
La Stampa, 29 dicembre 2025
Molti amici e colleghi statunitensi — spesso attivisti di Jewish Voice for Peace e tra i più severi critici del governo israeliano — mi pongono con insistenza una domanda: perché le piazze italiane, oggi animate da una nobile passione politica contro la tragedia di Gaza, non riescono a provare lo stesso sdegno per il disegno autoritario che Putin sta perseguendo, con spietata ferocia, dentro e fuori i confini russi?
È un interrogativo che mi scuote con forza sin dall’inizio dell’aggressione all’Ucraina. Vorrei essere chiara: la mia non è una provocazione retorica volta a suggerire risposte precostituite, né intende alimentare il logoro canovaccio della polemica contro i cosiddetti pacifisti “filorussi” . Pongo questa questione senza alcuna volontà di assolvere le colpe di un’Unione europea i cui leader appaiono tragicamente inadeguati, e restando ben consapevole dei costi economici e dei pericoli che il riarmo del Continente porta con sé. So bene che la pace si basa su compromessi, perché la si negozia con i nemici. E non sono affatto “contro il popolo russo”.
Il mio problema non sono coloro che per bieco opportunismo difendono un regime. Essi rappresentano una realtà banale e costante della vita politica che non solleva dilemmi di rilievo. Ciò che mi inquieta sono le “asimmetrie della coscienza” di una parte della sinistra italiana. Mi chiedo perché lo stesso fervore che, giustamente, ci spinge a condannare le pratiche genocidarie a Gaza non si traduca in una mobilitazione altrettanto ferma contro quello che Masha Gessen — voce lucidissima dell’esilio russo negli Stati Uniti — definisce il “neo-totalitarismo” del Cremlino. Perché la severità etica rivolta a Netanyahu e soci cede il passo, di fronte a Putin, a una serie di ambigui “distinguo”? Perché, guardando alla Russia, il rigore morale abdica in favore di una presunta neutralità geopolitica che si piega alle ragioni della Realpolitik? Un realismo, peraltro, assai selettivo, capace di spacciare per necessità storiche quelle che sono soltanto ipotesi parziali.
Per Gaza, lo sguardo si posa con straziante compassione sui volti stravolti dalla fame, sui corpi uccisi e sulle macerie; per l’Ucraina, invece, una parte della sinistra preferisce parlare di scontro tra “sfere d’influenza”, pensare alla “sicurezza collettiva” e chiamare in causa l’espansione della Nato. Certamente l’Ucraina non è stata abbandonata a se stessa come lo è stata Gaza; il divario negli aiuti forniti è palese. Eppure, il regime di Putin commette crimini strutturalmente analoghi a quelli israeliani. Anch’esso nega il diritto di un popolo all’autodeterminazione, arrivando a cancellarne la realtà stessa: per chi sogna il ritorno della Grande Russia, l’Ucraina non è mai esistita, ma è solo una “creazione artificiale”. In breve: si usa il metro dell’etica e della giustizia per Israele, e quello del compromesso politico per una potenza che calpesta la sovranità ucraina e la libertà dei propri cittadini.
È come se la coscienza si attivasse a intermittenza, a seconda dell’identità di chi opprime o di chi subisce. Ma se la coscienza esiste e ha un senso, esso risiede nella denuncia incondizionata di un’ingiustizia nel momento stesso in cui si compie. Solo in un secondo momento l’istanza morale può scendere a patti con le contingenze. Ritengo che una parte della sinistra sia venuta meno proprio a questa denuncia dell’ingiustizia senza riserve. Se per Israele non si accettano mediazioni etiche, per la Russia si mette in campo una “comprensione” che sospetto si regga su una negazione profonda.
Uso il termine “negazione” in senso quasi psicanalitico, richiamando la Verneinung freudiana: quella strategia di difesa che percepisce il male ma non lo ammette, o lo sposta altrove per non dover mettere in discussione le proprie certezze. La negazione interviene infatti quando la realtà risulta insopportabile. Per non soffrire o non contraddirci, attiviamo un meccanismo difensivo che ci permette di negare l’evidenza. In questo caso, non si tratta di ignoranza, ma della scelta — spesso inconscia — di non trarre le conseguenze morali da ciò che, in fondo, già sappiamo.
Forse, per alcuni, è intollerabile la possibilità di una guerra vicina o, peggio, la minaccia atomica agitata da Putin. Ed è così che si opera una paradossale inversione delle responsabilità: Zelensky diventa l’ostacolo alla pace, quasi fosse lui l’artefice di una tragedia che invece subisce. Essendo il soggetto “più flessibile” perché dipendente dai nostri aiuti, su di lui ricade l’onere di non metterci nei guai e il dovere di non trascinarci verso la distruzione. Si ribaltano i ruoli: il colpevole non è più chi aggredisce, ma chi non si rassegna alla sconfitta. È il capolavoro dell’asimmetria: trasformare la vittima in carnefice per non dover guardare in faccia la natura del vero oppressore.
Per altri, invece, risulta inaccettabile ammettere che la Russia non rappresenti più il “bene” in lotta col “male” del capitalismo occidentale. Sebbene Putin e la sua cerchia siano l’emblema di un capitalismo selvaggio e oligarchico, troppi credono ancora che Mosca sia un baluardo contro le menzogne dell’Occidente. Da qui il silenzio sui tratti aberranti del sistema putiniano: dall’indottrinamento bellico nelle scuole alla criminalizzazione dell’identità Lgbt, fino alla scia di sangue che unisce i giornalisti uccisi al sacrificio di Alexei Navalny.
Il rifiuto del militarismo non può trasformarsi nell’alibi per tacere sulla tirannia russa. Se non è sostegno consapevole, forse si tratta di una fragilità intellettuale che preferisce la rassicurante analisi dei blocchi d’influenza alla scomoda verità dei diritti calpestati. Se la sinistra accetta che il realismo metta a tacere l’indignazione verso un regime che avvelena il dissenso e bombarda i civili, finisce per svuotare di senso le sue stesse battaglie, inclusa quella per la Palestina. Una coscienza che si concede il lusso della negazione a seconda del meridiano di riferimento smette di essere un riferimento etico per ridursi, tristemente, a una contabilità ideologica.
Francesco Strazzari
Il regime russo va guardato negli occhi
il manifesto, 28 dicembre 2025
In Russia il tribunale militare di Ekaterinburg ha condannato i membri di un’organizzazione comunista a pesanti pene detentive (da 16 a 22 anni) con l’accusa di terrorismo. Un caso che mostra il salto di qualità della repressione contro un gruppo che si definisce marxista.
Nel frattempo, il leader di lungo corso dell’anticapitalista Fronte di sinistra, Sergei Udaltsov, è stato inviato in una colonia penale. Nel 2024, il Movimento socialista russo è stato designato come «agente straniero» e indotto all’autoscioglimento. Nel suo accurato rapporto su Tre anni di anti-guerra, Ovd-Info documenta decine di migliaia di fermi e sanzioni burocratiche. Tra gli obiettivi c’è il movimento giovanile Vesna (Primavera), che ha offerto un terreno comune di mobilitazione per molte reti di sinistra. Molte di questa formazioni sono state colpite anche perché attive contro la guerra.
«Estremismo» è diventato in Russia un reato-ombrello che permette di colpire individui e reti, anche transnazionali. La maggior parte delle incriminazioni si basa sull’articolo 205.2 del Codice penale («giustificazione del terrorismo»), utilizzato come grimaldello: dichiarazioni, post sui social e semplici retweet sono impugnati come materiale penale. Un caso di sclerosi burocratica piuttosto tipico dei regimi autoritari: qualcuno ricorderà come, al funerale di Antonio Gramsci, la polizia fascista annotò sparute presenze con «fiori rossi» per commemorare un «anarchico».
Non c’è bisogno di ricordare la fine che hanno fatto tutti i leader dell’opposizione in Russia, quante figure di rilievo sono «cadute dalla finestra» e quale destino attenda nelle carceri i giovani renitenti alla leva militare. Il fatto che a Mosca si possa essere arrestati per aver esposto un foglio bianco in piazza la dice lunga sul livello di repressione del regime, per molti aspetti superiore a quello dell’Unione sovietica degli ultimi anni.
Si può discutere molto della politica russa, ma alcuni fatti sembrano particolarmente ostinati. C’è un solo paese in Europa che ha mandato i propri carri armati a invadere stati confinanti che aveva riconosciuto come indipendenti. Questo paese continua a bombardare le infrastrutture civili, evocando continuamente l’arma atomica. Le sue voci-guida tengono i figli all’estero ma si compiacciono di come «la guerra abbia ridato senso a una generazione».
A sinistra nessuno giustifica l’imperialismo americano. Invece talvolta si adotta uno sguardo indulgente nei confronti della logica di potenza della Russia. Magari a partire dall’assunto che così funziona il mondo, con tanto di professione di realismo e fiducia nell’idea di Putin campione di un multipolarismo che democratizza il pianeta. La mia ricostruzione della traiettoria ideologica del putinismo e del nazionalismo ucraino è senza sconti. Ho criticato ripetutamente, nei miei libri e sul manifesto, l’espansione della Nato e il ritiro americano dal trattato Abm. Eppure sono stato tacciato di posizioni «da sempre russofobe». Mi chiedo quali scorciatoie cognitive guidino questa accusa. E perché, nonostante i miei sforzi diagnostici, che proprio su questa colonne da anni denunciano la guerra in preparazione, criticano le politiche di riarmo nazionale e contestano l’immancabile si vis pacem, para bellum, sia stato accusato addirittura di ridurre il movimento pacifista, nelle cui ragioni apertamente mi identifico da sempre, a un riflesso rossobruno. Mi chiedo se qualcuno si aspetterebbe di essere additato «da sinistra» di italofobia per aver criticato duramente una linea di condotta estera del governo, per esempio sui migranti nel Mediterraneo.
In questi anni di dibattito, diversi hanno ricordato l’ostilità radicale mostrata da Karl Marx verso la Russia zarista, ritratta come perno espansionista della reazione europea, come minaccia strutturale alla libertà europea. Forse però è il caso di lasciare in pace Karl Marx e Vladimir Lenin (che per inciso Putin accusa di essere il «creatore e architetto dell’Ucraina»). Il problema della facilità con cui, nel dibattito mediatico, vengono scagliate designazioni ed etichette è evidentemente più profondo. Penso che l’abuso di etichette – russofobo/russofilo, ma forse dovremmo parlare di cosa si muove dietro le designazioni di antisemita/antisionista, ecc. – rinvii al vacillare dei nostri riferimenti epistemici in una società caratterizzata da sovraccarico informativo e accelerazione comunicativa.
Queste etichette semplificano posizioni complesse in schemi binari, funzionando da marcatori cognitivi. Zygmunt Bauman, Chantal Mouffe e Pierre Rosanvallon hanno sottolineato come le società postdemocratiche stiano vivendo una crescente polarizzazione identitaria, in cui i conflitti tendono a trasferirsi sulle appartenenze morali e simboliche. Ci ritroviamo così a etichettare affrettatamente per rafforzare la coesione di gruppo tramite un framing che mobilita emozioni e distingue fra amici e nemici.
Questo tipo di etichettatura risulta più facile sui social, dove – ne abbiamo tutti esperienza diretta – sono sistematicamente favoriti i contenuti polarizzanti e moralizzanti, perché generano maggiore engagement. Il risultato è una moralizzazione del discorso pubblico in cui il linguaggio è sempre più stigmatizzante.
Il ricorso crescente anche a sinistra a etichette moralizzanti e delegittimanti può essere letto come il riflesso dello smarrimento dell’immaginario del cambiamento sociale. Quando si fatica a costruire una visione coerente della trasformazione sociale, la legittimità tende a spostarsi dal «che mondo vogliamo» al «chi siamo». La designazione tramite etichette affrettate diventa prova di purezza morale. Una sorta di surplus di moralismo per compensare la perdita di un progetto politico ancorato a una narrazione emancipativa credibile. Il valore non sta nel discutere una ricostruzione di cosa sia accaduto in Russia o al sistema internazionale negli ultimi 30 anni, ma nel segnalare la propria appartenenza.
Il campo sostituisce la classe. E così, la proposta di visioni «di campo» attraverso un criterio sostanzialmente morale, in difficoltà con la lettura del processo politico, sociale ed economico, finisce con l’assolvere a una funzione performativa di delegittimazione. E rinvia a un problema che la sinistra dovrà trovare il modo di affrontare: la sostituzione della critica sociale con la riduzione geopolitica.

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