lunedì 15 dicembre 2025

Capire prima di tutto


Chiara Francini
Ecco perché sono andata ad Atreju: dialogo vuol dire progresso

La Stampa, 15 dicembre 2025

Ma la realtà è un fatto complesso.

E affrontarla richiede tempo, profondità, esercizio.

Richiede fatica.

E questo bipolarismo povero, piccino, che confonde la politica con il tifo, il pensiero con l’appartenenza è un meccanismo comodo, perché solleva dalla fatica del pensare.

Ma è anche mortale, perché semplificare male un pensiero è il modo più rapido per farlo morire. E quando un pensiero muore, nasce la dittatura.

È un bipolarismo sterile quello che divide senza spiegare, senza dire.

Le battaglie che contano - quelle per i diritti delle donne, delle persone omosessuali, transgender, dei malati, dei poveri, degli ultimi, di chiunque abbia avuto meno voce - non avanzano quando ci si rintana. Avanzano quando ci si espone. Quando si attraversano i luoghi che sembrano lontani e si porta lì la propria storia, la propria verità, la propria idea di giustizia e la propria presenza.

I diritti crescono nella luce.

Non nei pozzi.

Non nelle assenze che non sono coraggiose, ma prudenti.

E il dialogo - quello vero - è la forma più alta di responsabilità. E di rischio.

Perché dialogare significa accettare di essere fraintesi, contestati, messi in discussione. Ma significa anche tenere in mano la possibilità più bella e scomoda di tutte: capire.

E la comprensione è una rivoluzione lenta, ma irreversibile.

Con questo libro sono stata alla Festa dell’Unità, al Festival di Domani, presentata da Adriano Sofri, nelle scuole, nei teatri, nelle piazze.

E ora sono qui.

Sono qui perché non ho mai creduto nella letteratura - e nella politica - che cercano soltanto il proprio riflesso. Le parole e le storie devono andare laggiù, dove fanno attrito. Perché l’attrito, se è onesto, genera movimento. Progresso.

Se oggi siamo qui a discutere di un romanzo che parla di antifascismo, di memoria, di disobbedienza e di libertà, fatevi un applauso, perché non è un gesto ruffiano: è un gesto di fiducia. Fiducia nell’ascolto, nella pluralità, nelle parole che anche quando sono percepite come scomode possano trovare una stanza comune.

Essere qui non è un dettaglio.

È una possibilità.

Una possibilità che esiste solo se esiste la libertà di parola. E la libertà di parola non è mai garantita una volta per tutte. Vive solo se esiste una stampa libera, capace di disturbare, di contraddire, di non allinearsi. La libertà di stampa non serve a confermare le versioni ufficiali: serve a incrinarle. Serve a impedire che il potere - qualunque potere - diventi racconto unico.

Si deve combattere con ferocia ogni tipo di pregiudizio. Perché il pregiudizio è un giudizio che viene prima ed è già una condanna senza processo. Arriva prima dei fatti, prima dell’ascolto, prima della verità. Ed è costitutivamente sempre sbagliato.

Se siamo tutti esseri umani - fragili, contraddittori, irriducibili, meravigliosi - allora il punto non è scegliere tra il nero e il rosso, ma riconoscere l’arco intero dei colori. Ricordare che siamo fatti della stessa materia, anche quando ci convinciamo del contrario. Che la diversità non è altro da noi. È parte costitutiva di noi. Tutti siamo diversi. Grazie a Dio.

Il fatto che io sia qui oggi, a parlare di un libro che racconta di come le diversità non si correggano ma si accolgano, è già un gesto che smentisce molte delle narrazioni che ci vogliono barricati ciascuno nel proprio fortino della salvezza.

E il fatto che siate qui ad ascoltare - qui, dove molti giurerebbero che certe parole non possano stare - è un dato reale. Non simbolico.

Il dialogo non è compromesso. È progresso.

Le querce non fanno limoni è un romanzo politico perché è un romanzo umano. E la politica significa scegliere come si sta al mondo.

Quella che ho scritto è la storia di madri e di figlie, di obbedienze sbagliate e disobbedienze necessarie; di vergogne imposte e di libertà che costano.

È un romanzo che continua a chiederti una sola cosa, semplice e insopportabile: E tu? Da che parte stai?

E lo fa usando parole che resistono. Alle epoche, ai regimi, alle geografie. Parole che non obbediscono alla cronaca, ma alla memoria profonda di un popolo.

Che si depositano e riemergono quando la vita ha finito il fiato.

E restano. Stanno.

«Cara mamma, quando questa mia ti giungerà io non sarò più.

Muoio sereno. Ho la coscienza tranquilla.

Tu sei stata per me la più cara delle madri, e il mio pensiero è per te in quest’ora.

Non piangere.

Prega per me.

Io muoio nella fede in Dio e nell’amore per la Patria.

Abbi coraggio, mamma. Bacia per me tutti i miei cari.

Tuo Franco»

«Mia adorata mamma,

quando leggerai queste righe io sarò già morto.

Non piangere troppo: non sarebbe degno né di te né di me.

Io muoio tranquillo, perché so di aver fatto ciò che ritenevo giusto.

Prego Dio che ti dia forza.

Penso a voi - a te, a papà, ai miei fratelli - e questo pensiero mi accompagna come una mano che mi regge.

Non odio nessuno.

Lascio il mondo con la pace nel cuore e con l’amore per la nostra Italia.

Vi ho voluto un bene immenso.

Addio, mamma mia.

Tuo per sempre,

Paolo»

Queste parole le hanno scritte Franco Balbis e Paolo Braccini.

Fucilati il 5 aprile 1944.

Erano ragazzi.

Erano italiani.

Erano partigiani.

E allora si capisce che parole come Dio, patria, famiglia non servono a dividere.

Servono a reggere l’ultimo sguardo, l’ultimo respiro, l’ultimo addio.

Non appartengono a una parte. Appartengono alla vita.

A ciò che ci tiene insieme, anche quando facciamo di tutto per negarci.

E allora se c’è un senso in questo invito - e nella mia scelta di esserci - è questo: la letteratura non ha paura dei luoghi in cui entra.

Ha paura solo dei luoghi che evita.

E allora chiudo da dove ho iniziato: dal nome sulla porta. Rosario Livatino.

Un uomo che è morto perché non ha ceduto.

Se siamo qui a discutere, a contraddirci, persino a capirci, è perché qualcuno, prima di noi, ha avuto il coraggio di non spostarsi di un millimetro.

E allora, almeno oggi, proviamo a esserne all’altezza.

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