Luciano Gallino
Una lunga partita
la Repubblica, 30 gennaio 2014
LA NUOVA Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda.
Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le
tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà
quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e
il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano,
dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci
volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo
dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza
dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a
Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti
principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra
Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre
principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà
distribuita ingran parte del mondo.
Devono veramente amare molto le
grandi scacchiere e le partite complicate Sergio Marchionne e John
Elkann, per avere aperto quasi contemporaneamente tanti fronti di gioco,
ed essere riusciti finora a condurre la partita piuttosto che farsela
imporre dall’avversario. Essi sanno bene che dall’altra parte vi sono
molti altri attori a progettare ed eseguire le prossime mosse, e alcuni
di essi, oltre ad essere abili, non hanno accolto troppo bene
l’acquisizione di Chrysler. In Usa, molti investitori e analisti hanno
patito la mossa del cavallo consistente nell’acquisire la Chrysler in
parte con i soldi del governo americano, e in maggior parte con i soldi
della Chrysler e dei fondi dei suoi sindacati. Ma più di questa
operazione, che ha costituito senza dubbio un successo strategico da
parte del Lingotto sul piano finanziario, essi hanno scarsamente gradito
che il rilancio della società americana sia avvenuto soprattutto
mediante il rilancio di modelli stagionati e non proprio ecologicamente
corretti come la Jeep Grand Cherokee, piuttosto che investire gli utili
in nuovi modelli idonei a rinfrescare gli allori di Chrysler. Per tacere
dei loro giudizi sulla difficile situazione dell’auto Fiat nel nostro
paese, che ha portato molti a parlare di salvataggio del Lingotto da
parte della casa di Auburn Hills. Non ci siamo solo noi a chiederci
quanti nuovi posti di lavoro si creeranno in Italia grazie
all’operazione Chrysler; ci sono anche tanti americani che si chiedono
quanti posti saranno creati nel loro paese grazie all’operazioneFiat.
Dall’altra parte della scacchiera ci sono ovviamente anche le agenzie di
rating. Sono attori che non giocano in proprio, ma sono consiglieri
assai ascoltati dagli investitori, in specie fondi di investimento e
fondi pensione; proprietari, va ricordato, di metà dell’economia
mondiale. Li ha resi potenti e influenti la finanziarizzazione delle
imprese industriali, a partire proprio dal settore auto. Quando
qualcuno, anni fa, definì le corporation del settore «istituti
finanziari che producono anche auto», aveva sott’occhio la situazione
della General Motors, la cui divisione finanziaria che contava forse
trentamila persone produceva il 40 percento degli utili della società,
che aveva allora 300.000 dipendenti.
Da allora, il peso della finanza
sulle corporation industriali è ancora cresciuto, donde segue che
produrre buone automobili in giro per il mondo non basta per assicurare
un successo duraturo al costruttore. Il fatto che Moody’s abbia messo
sotto osservazione Fiat per una possibile riduzione del rating, che già
non è alto (Ba3), a causa della sua situazione finanziaria, può essere
soltanto una mossa intermedia in una partita particolarmente complessa.
Ma Marchionne ed Elkann sono in due, mentre dall’altra gli attori che si
assiepano attorno alla scacchiera suggerendosi a vicenda le mosse sono
dozzine.
Manca, ai lati della scacchiera, il governo italiano, che
non solo non ha la minima idea o intenzione di entrare in partita, ma
non si è nemmeno degnato di rivolgere alla ferrata coppia del Lingotto
la madre di tutte le domande: mentre auguriamo al lieto evento le
migliori fortune, in concreto, cifra su cifra, documento su documento,
qui e ora e non nel decennio prossimo, che cosa ne viene al nostro
paese, ai lavoratori italiani, al pubblico bilancio, dalla nascita della
Fiat Chrysler Automobiles?
giovedì 30 gennaio 2014
mercoledì 29 gennaio 2014
Pete Seeger, in memoria
Gino Castaldo
Scompare Pete Seeger “padre” di Dylan e Springsteen
È morto a 94 anni. Tra i suoi successi “If I had a hammer” e la rielaborazione di “We shall overcome”
la Repubblica, 29 gennaio 2014
Addio a Pete Seeger, vecchio guerriero del folk, morto nel sonno a 94 anni nell’ospedale di New York dove era ricoverato da alcuni giorni. Il buon caro vecchio Pete era una figura molto prossima all’idea che potremmo farci di un santo laico. O almeno questo è quello che emanava: purezza, integrità, dedizione, empatia con tutti gli esseri viventi che soffrono. Era un uomo dolce ma determinato, amabile ma feroce nella sua convinzione estrema, uno di quegli uomini che non riescono a stare in pace sapendo che da qualche parte qualcuno sta male e con questo principio aveva iniziato a far musica, lasciando studi e agiatezza della colta borghesia del New England in cui era nato per schierarsi a fianco dei diseredati. Era il suo modo di cercare giustizia in un mondo che di giustizia ne offriva poca, lui stesso ripetutamente vittima del furore maccartista, processato, condannato, boicottato in ogni modo per le sue simpatie di sinistra. Cosa che non gli ha impedito di essere una delle più influenti e carismatiche figure del Novecento americano.
Il suo verbo era il folk, la musica del popolo, e fu spinto a cantarlo dal pioniere della ricerca sul campo Alan Lomax, a fianco di Leadbelly, Woody Guthrie, Burl Ives. Con la sua voce gentile e persuasiva, è stato probabilmente il massimo divulgatore di cultura popolare e non solo di quella americana. Era già attivo negli anni Quaranta, ma arrivò al successo quando creò il gruppo dei Weavers, con i quali raggiunse un clamoroso successo di classifica nel 1950 con Goodnight Irene. Ma, tanto per capire che tipo era, i Weavers li lasciò quando gli altri membri accettarono di incidere un jingle pubblictario per una marca di sigarette. Divulgatore ma anche autore o coautore di altri pezzi celebri come Turn turn turn, Where have all the flowers gone, If I had a hammer (conosciuto in Italia come Datemi un martello, anche se la versione di Rita Pavone l’aveva trasformato in un pezzo frivolo, privo del senso originale). Fu anche lui, sempre grazie a Lomax e a una visione internazionalista del folklore, a scoprire quella che sarebbe diventata una delle più famose canzoni di tutti i tempi, ovvero The lion sleeps tonight. Era un canto zulu, di Solomon Linda (che morì povero e ignaro del successo planetario che la sua composizione aveva avuto), e Pete Seeger la ripropose come Wimoweh, anche se la sua versione, grazie alle purghe maccartiste, non ebbe alcun riscontro, come accade invece ai Tokens che col titolo di The lion sleeps tonight ne fecero un singolo vendutissimo.
Ma il momento di massimo fulgore toccò a Seeger quando la sua musica incontrò il movimento dei diritti civili nei primi anni Sessanta. La sua versione di We shall overcome (uno spiritual tradizionale, di cui si vantava di aver cambiato la frase We will overcome nella più cantabile We shall overcome), diventò l’inno della marcia su Washington di Martin Luther King nel 1963. La fede nella sua missione non l’aveva mai persa e quando qualche anno fa l’andammo trovare nel suo eremo tra i boschi di Beacon, a nord di New York, ci aveva raccontato che quando qualcuno gli chiedeva se una canzone era buona o no, lui continuava a ripetere: «Buona per cosa?». Era il periodo in cui la sua figura era tornata al centro dell’attenzione del mondo della musica grazie all’omaggio di Bruce Springsteen e le sue “Seeger Sessions”. Ma lui rimase schivo. «Springsteen?» diceva, «un brav’uomo». E nulla di più. Era insieme alla moglie Toshi, dalla quale dal 1944 non si era mai separato, e che è scomparsa poco prima di lui, nel luglio dello scorso anno.
Scompare Pete Seeger “padre” di Dylan e Springsteen
È morto a 94 anni. Tra i suoi successi “If I had a hammer” e la rielaborazione di “We shall overcome”
la Repubblica, 29 gennaio 2014
Addio a Pete Seeger, vecchio guerriero del folk, morto nel sonno a 94 anni nell’ospedale di New York dove era ricoverato da alcuni giorni. Il buon caro vecchio Pete era una figura molto prossima all’idea che potremmo farci di un santo laico. O almeno questo è quello che emanava: purezza, integrità, dedizione, empatia con tutti gli esseri viventi che soffrono. Era un uomo dolce ma determinato, amabile ma feroce nella sua convinzione estrema, uno di quegli uomini che non riescono a stare in pace sapendo che da qualche parte qualcuno sta male e con questo principio aveva iniziato a far musica, lasciando studi e agiatezza della colta borghesia del New England in cui era nato per schierarsi a fianco dei diseredati. Era il suo modo di cercare giustizia in un mondo che di giustizia ne offriva poca, lui stesso ripetutamente vittima del furore maccartista, processato, condannato, boicottato in ogni modo per le sue simpatie di sinistra. Cosa che non gli ha impedito di essere una delle più influenti e carismatiche figure del Novecento americano.
Il suo verbo era il folk, la musica del popolo, e fu spinto a cantarlo dal pioniere della ricerca sul campo Alan Lomax, a fianco di Leadbelly, Woody Guthrie, Burl Ives. Con la sua voce gentile e persuasiva, è stato probabilmente il massimo divulgatore di cultura popolare e non solo di quella americana. Era già attivo negli anni Quaranta, ma arrivò al successo quando creò il gruppo dei Weavers, con i quali raggiunse un clamoroso successo di classifica nel 1950 con Goodnight Irene. Ma, tanto per capire che tipo era, i Weavers li lasciò quando gli altri membri accettarono di incidere un jingle pubblictario per una marca di sigarette. Divulgatore ma anche autore o coautore di altri pezzi celebri come Turn turn turn, Where have all the flowers gone, If I had a hammer (conosciuto in Italia come Datemi un martello, anche se la versione di Rita Pavone l’aveva trasformato in un pezzo frivolo, privo del senso originale). Fu anche lui, sempre grazie a Lomax e a una visione internazionalista del folklore, a scoprire quella che sarebbe diventata una delle più famose canzoni di tutti i tempi, ovvero The lion sleeps tonight. Era un canto zulu, di Solomon Linda (che morì povero e ignaro del successo planetario che la sua composizione aveva avuto), e Pete Seeger la ripropose come Wimoweh, anche se la sua versione, grazie alle purghe maccartiste, non ebbe alcun riscontro, come accade invece ai Tokens che col titolo di The lion sleeps tonight ne fecero un singolo vendutissimo.
Ma il momento di massimo fulgore toccò a Seeger quando la sua musica incontrò il movimento dei diritti civili nei primi anni Sessanta. La sua versione di We shall overcome (uno spiritual tradizionale, di cui si vantava di aver cambiato la frase We will overcome nella più cantabile We shall overcome), diventò l’inno della marcia su Washington di Martin Luther King nel 1963. La fede nella sua missione non l’aveva mai persa e quando qualche anno fa l’andammo trovare nel suo eremo tra i boschi di Beacon, a nord di New York, ci aveva raccontato che quando qualcuno gli chiedeva se una canzone era buona o no, lui continuava a ripetere: «Buona per cosa?». Era il periodo in cui la sua figura era tornata al centro dell’attenzione del mondo della musica grazie all’omaggio di Bruce Springsteen e le sue “Seeger Sessions”. Ma lui rimase schivo. «Springsteen?» diceva, «un brav’uomo». E nulla di più. Era insieme alla moglie Toshi, dalla quale dal 1944 non si era mai separato, e che è scomparsa poco prima di lui, nel luglio dello scorso anno.
martedì 28 gennaio 2014
Come si arrivò alla guerra nell'estate del 1914
Emilio Gentile
La Grande Guerra e i suoi artefici
Il Sole 24 ore, 22 dicembre 2013
Nella conclusione di un grosso libro, dove racconta come l'Europa giunse alla guerra nel 1914, lo storico inglese Christopher Clark scrive: «I protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà dell'orrore che stavano per portare nel mondo». Da questa affermazione, deriva il titolo del libro, I sonnambuli, senza apparentemente riferimento alla trilogia romanzesca I Sonnambuli dello scrittore austriaco Herman Broch, pubblicata fra il 1931 e il 1932. In tre romanzi, Broch evocava la tragedia della modernità, come fu vissuta in Germania fra il 1888 e il 1918, quando l'idealismo di un'epoca animata dalla romantica aspirazione alla totalità di un mondo ordinato da valori perenni, fu alla fine travolto dall'esplosione della Grande Guerra, che lasciò l'Europa nel caos di una realtà frantumata, in balia di un realismo cinico e brutale. I sonnambuli, per Broch, erano coloro che si illudevano di controllare una realtà che si stava disgregando, mentre camminavano verso l'«assurdità prepotente e inconcepibile» di una orrenda guerra. Anche senza un riferimento esplicito, sembrerebbe che una qualche influenza la trilogia di Broch potrebbe averla avuta sul modo in cui Clark ha cercato di comprendere l'«assurdità prepotente e inconcepibile» delle origini della Grande Guerra.
Egli infatti precisa che il suo libro, più «che del perché si preoccupa di capire come si arrivò alla guerra», studiando «da vicino le sequenze di interazioni che produssero certe conseguenze». Deriva da tale metodo, al quale Clark attribuisce «il merito di inserire nella vicenda un elemento di contingenza», la scelta di porre al centro del racconto gli uomini e le loro azioni, piuttosto che cercare le cause remote degli eventi in categorie astratte, come imperialismo, nazionalismo, alta finanza, dinamiche di mobilitazione, nei confronti delle quali «gli attori politici diventano semplici esecutori di forze da tempo presenti e al di fuori del loro controllo».
Avendo da tempo adottato, per una via del tutto indipendente, un analogo metodo di ricerca storica, chi scrive ne apprezza particolarmente l'efficacia per comprendere le vicende che nel 1914 portarono l'Europa alla guerra. La scelta di privilegiare il "come" sul "perché" costituisce forse la peculiarità dell'opera di Clark nell'ambito della storiografia sulle origini della Grande Guerra. Durante gli ultimi decenni, la storiografia ha accantonato la «questione della colpa», che fin dall'inizio del conflitto aveva assillato prima gli stessi protagonisti e successivamente, per oltre mezzo secolo, gli storici, condizionati dall'articolo 231 del Trattato di Versailles, che attribuiva alla Germania la responsabilità di aver provocato il primo conflitto mondiale.
Della questione della colpa non v'è traccia nel libro di Clark, anche se nella sua minuziosa ricostruzione del comportamento e delle decisioni dei protagonisti di ogni singolo Stato coinvolto nelle origini della Grande Guerra, egli non si astiene dall'individuare le responsabilità personali. Nello stesso tempo, tuttavia, cerca di rintracciare i motivi delle loro decisioni con senso propriamente storico, senza inflessioni moralistiche o giudiziarie, osservando l'agire di ogni protagonista nel contesto della storia del suo Paese, della sua esperienza politica e del modo in cui percepiva la realtà nella quale operava. Concentrando l'attenzione sui singoli protagonisti dell'evento, che egli stesso definisce «il più complesso della storia contemporanea, e forse di qualsiasi epoca», Clark fa venire in mente lo storico vagheggiato da Benedetto Croce, che non ricerca il moto e il dramma della storia «unicamente negli urti fragorosi e nei grossi fatti appariscenti», ma «anche davanti a spettacoli di guerre e rivoluzioni, cerca sempre il vero moto e il vero dramma negli intelletti e nei cuori».
Clark esprime con chiarezza la sua valutazione complessiva sul come l'Europa giunse alla guerra nel 1914: «Lo scoppio della guerra fu il momento culminante di concatenazioni di decisioni assunte da attori politici che perseguivano consapevolmente degli obiettivi ed erano capaci di riflettere su quanto stavano facendo, e che individuarono una serie di azioni formulando le valutazioni più adeguate in base alle migliori informazioni di cui disponevano. Il nazionalismo, gli armamenti, le alleanze e la finanza furono tutti elementi che entrarono a far parte della storia, ma acquistano valenza esplicativa solo quando si possa mostrare la loro effettiva influenza sulle decisioni che, congiuntamente, fecero scoppiare la guerra». Gli eventi causali che determinarono lo scoppio della guerra furono diversi, ma Clark ammonisce «a non giudicare scontato l'esito finale», tenendo presente «che le persone, gli eventi e le forze descritte in questo libro portavano dentro di sé i semi di altri, forse meno terribili, futuri». Nel complesso intreccio degli eventi che portarono alla Grande Guerra, i responsabili delle principali decisioni, secondo Clark, «camminarono verso il pericolo con passi guardinghi e calcolati». Ma se così fecero, allora perché mai definirli «sonnambuli»?
La Grande Guerra e i suoi artefici
Il Sole 24 ore, 22 dicembre 2013
Nella conclusione di un grosso libro, dove racconta come l'Europa giunse alla guerra nel 1914, lo storico inglese Christopher Clark scrive: «I protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà dell'orrore che stavano per portare nel mondo». Da questa affermazione, deriva il titolo del libro, I sonnambuli, senza apparentemente riferimento alla trilogia romanzesca I Sonnambuli dello scrittore austriaco Herman Broch, pubblicata fra il 1931 e il 1932. In tre romanzi, Broch evocava la tragedia della modernità, come fu vissuta in Germania fra il 1888 e il 1918, quando l'idealismo di un'epoca animata dalla romantica aspirazione alla totalità di un mondo ordinato da valori perenni, fu alla fine travolto dall'esplosione della Grande Guerra, che lasciò l'Europa nel caos di una realtà frantumata, in balia di un realismo cinico e brutale. I sonnambuli, per Broch, erano coloro che si illudevano di controllare una realtà che si stava disgregando, mentre camminavano verso l'«assurdità prepotente e inconcepibile» di una orrenda guerra. Anche senza un riferimento esplicito, sembrerebbe che una qualche influenza la trilogia di Broch potrebbe averla avuta sul modo in cui Clark ha cercato di comprendere l'«assurdità prepotente e inconcepibile» delle origini della Grande Guerra.
Egli infatti precisa che il suo libro, più «che del perché si preoccupa di capire come si arrivò alla guerra», studiando «da vicino le sequenze di interazioni che produssero certe conseguenze». Deriva da tale metodo, al quale Clark attribuisce «il merito di inserire nella vicenda un elemento di contingenza», la scelta di porre al centro del racconto gli uomini e le loro azioni, piuttosto che cercare le cause remote degli eventi in categorie astratte, come imperialismo, nazionalismo, alta finanza, dinamiche di mobilitazione, nei confronti delle quali «gli attori politici diventano semplici esecutori di forze da tempo presenti e al di fuori del loro controllo».
Avendo da tempo adottato, per una via del tutto indipendente, un analogo metodo di ricerca storica, chi scrive ne apprezza particolarmente l'efficacia per comprendere le vicende che nel 1914 portarono l'Europa alla guerra. La scelta di privilegiare il "come" sul "perché" costituisce forse la peculiarità dell'opera di Clark nell'ambito della storiografia sulle origini della Grande Guerra. Durante gli ultimi decenni, la storiografia ha accantonato la «questione della colpa», che fin dall'inizio del conflitto aveva assillato prima gli stessi protagonisti e successivamente, per oltre mezzo secolo, gli storici, condizionati dall'articolo 231 del Trattato di Versailles, che attribuiva alla Germania la responsabilità di aver provocato il primo conflitto mondiale.
Della questione della colpa non v'è traccia nel libro di Clark, anche se nella sua minuziosa ricostruzione del comportamento e delle decisioni dei protagonisti di ogni singolo Stato coinvolto nelle origini della Grande Guerra, egli non si astiene dall'individuare le responsabilità personali. Nello stesso tempo, tuttavia, cerca di rintracciare i motivi delle loro decisioni con senso propriamente storico, senza inflessioni moralistiche o giudiziarie, osservando l'agire di ogni protagonista nel contesto della storia del suo Paese, della sua esperienza politica e del modo in cui percepiva la realtà nella quale operava. Concentrando l'attenzione sui singoli protagonisti dell'evento, che egli stesso definisce «il più complesso della storia contemporanea, e forse di qualsiasi epoca», Clark fa venire in mente lo storico vagheggiato da Benedetto Croce, che non ricerca il moto e il dramma della storia «unicamente negli urti fragorosi e nei grossi fatti appariscenti», ma «anche davanti a spettacoli di guerre e rivoluzioni, cerca sempre il vero moto e il vero dramma negli intelletti e nei cuori».
Clark esprime con chiarezza la sua valutazione complessiva sul come l'Europa giunse alla guerra nel 1914: «Lo scoppio della guerra fu il momento culminante di concatenazioni di decisioni assunte da attori politici che perseguivano consapevolmente degli obiettivi ed erano capaci di riflettere su quanto stavano facendo, e che individuarono una serie di azioni formulando le valutazioni più adeguate in base alle migliori informazioni di cui disponevano. Il nazionalismo, gli armamenti, le alleanze e la finanza furono tutti elementi che entrarono a far parte della storia, ma acquistano valenza esplicativa solo quando si possa mostrare la loro effettiva influenza sulle decisioni che, congiuntamente, fecero scoppiare la guerra». Gli eventi causali che determinarono lo scoppio della guerra furono diversi, ma Clark ammonisce «a non giudicare scontato l'esito finale», tenendo presente «che le persone, gli eventi e le forze descritte in questo libro portavano dentro di sé i semi di altri, forse meno terribili, futuri». Nel complesso intreccio degli eventi che portarono alla Grande Guerra, i responsabili delle principali decisioni, secondo Clark, «camminarono verso il pericolo con passi guardinghi e calcolati». Ma se così fecero, allora perché mai definirli «sonnambuli»?
domenica 26 gennaio 2014
Amanti e regine nella storia della monarchia francese
La seduzione, l'intelligenza, il carattere
«Non si è mai
sazi di queste mitiche figure femminili che montagne di biografie e
romanzi hanno di volta in volta esaltato o denigrato, icone avventurose o
romantiche, melodrammatiche o futili, raggelate dal tempo. Scorrono
adesso tutte insieme, da Caterina de’ Medici a Maria Antonietta, dai
primi decenni del XVI secolo alla fine del XVIII, gemme della storia e
delle storie delle donne, con le loro fortune e sfortune, col potere
della loro bellezza e della loro sottomissione, il fervore della loro
ambizione o del loro ardore, lo slancio della loro intelligenza o della
loro astuzia, nell’affascinante nuovo libro di Benedetta Craveri; la
scrittrice che si muove nelle corti e nei castelli dei Valois e dei
Borbone, dei Guisa o dei Lorena con la grazia somma della cultura, della
curiosità, del pensiero, della scrittura magnifica».
NATALIA ASPESI
Lorenzo Tinti
A proposito di Benedetta
Craveri, Amanti e regine.
Il potere delle donne, Adelphi, Milano 2005
Bibliomanie.it, n.8 gennaio/marzo
2007
Un vecchio adagio sostiene che una donna, per essere considerata la metà
di un uomo, deve valerne il doppio, soggiungendo tuttavia che, per fortuna, la
cosa è estremamente facile.
Dopo La civiltà della conversazione Benedetta Craveri, con Amanti
e regine, scrive le proprie Carte segrete sulla politica francese di
Antico Regime, ma traguardata e in gran parte diretta dietro stecche di balena
e bustini asfissianti. Nondimeno l’autrice non indulge mai alla curiosità
morbosa del gossip storiografico, bensì innalza un monumento alla
dignità di un genere – quello femminile – che attraverso la seduzione e
l’intelligenza ha saputo insinuarsi negli ingranaggi di una storia
ufficialmente delegata alla forza e all’arbitrio degli uomini.
Se figure quali Pernette du Guillet, Louise Labé o Madeleine Des Roches
dimostrarono in pieno XVI secolo che il genio e la creatività non erano ad
esclusivo appannaggio dei maschi, non bisogna dimenticarsi che in quello stesso
periodo lo status giuridico e religioso delle donne aveva subito dal
cattolicesimo riformato e dall’etica misogina del tempo un attacco durissimo,
vedendo relegare le rappresentanti del gentil sesso ai margini della società
civile. Pure, le favorite di corte non meno delle legittime consorti reali –
come a dire la Gran Siniscalca Diane de Poiters o la duchessa d’Étampes non
meno di Caterina de’ Medici o della suocera Eleonora d’Austria – riuscirono con
estro e strategia a ritagliarsi uno spazio rilevante nei giochi di potere,
spazio che giocoforza passava per il cuore (e non di rado per il letto) di re,
delfini e principi.
Non ci fu nulla di facile o di romanzesco nella condizione di «amanti e
regine», anzi essa rappresentò un viatico spesso doloroso e sofferto, per
quanto esclusivo, concesso alle ambizioni di caratteri ricchi di sagacia ma
sfortunatamente compromessi dall’appartenenza all’altra metà del cielo. Come
scriveva ancora nel 1626 Marie de Gournay: «Fortunato sei tu, Lettore, se non
appartieni a quel sesso che, privato della libertà, è interdetto da tutti i
beni, come pure da pressoché tutte le virtù. Né potrebbe essere altrimenti,
visto che gli è negato l’accesso alle cariche, agli impieghi e alle funzioni
pubbliche, ovvero al potere, perché è nell’esercizio moderato di quest’ultimo
che si formano in massima parte le virtù. Un sesso a cui, come sola felicità,
come uniche e sovrane virtù, si lasciano l’ignoranza, la servitù e la facoltà
di passare per stupido, se questo gioco gli piace».
La storia narrata dalla Craveri è dunque la
storia di un «potere sui generis, che sa trasformare la debolezza in forza, e
fare della condizione di inferiorità una carta vincente» (p. 20), nonché una
vivida testimonianza dell’inventiva e del coraggio delle dame di corte francesi
tra il Cinquecento e il Settecento. L’eroine di questa storia si chiamano
Caterina de’ Medici, Diane de Poiters, Gabrielle d’Estrées, Maria de’ Medici,
Maria Teresa d’Austria, Maria Antonietta e le loro biografie esemplari
s’intrecciano, lungo un arco di due secoli, con i destini “alti” della
monarchia d’oltralpe, restituendoci il negativo di un’immagine che credevamo di
conoscere fin troppo e di cui al contrario ignoravamo quel sostrato umano fatto
di sofferenze dissimulate nel decoro e di passioni profonde come abissi.
L’impareggiabile capacità affabulatoria di Benedetta Craveri sembra tessere la
trama di un romanzo e invece, come dimostra il ricco apparato bibliografico in
calce al testo, con piglio da storiografo dipana davanti ai nostri occhi
l’avvicendamento degli eventi più o meno noti che riguardarono la corona,
sempre analizzandoli dal punto di vista straniante delle donne di
quell’ambiente. E al lettore resta intensa la sensazione che costoro non
possano che aver patito e pensato i patimenti e i pensieri che l’autrice
attribuisce loro.
venerdì 24 gennaio 2014
Riccardo Barenghi su Vendola
Riccardo Barenghi
La strada molto stretta di Vendola
La Stampa, 24 gennaio 2014
Il partito di Vendola, nato 5 anni fa, oggi celebra il suo secondo congresso ma non vede un futuro roseo. Un partito reduce dal risultato delle elezioni politiche, un misero 3,2%, e dalla sconfitta della coalizione con il Pd di Bersani.
Una coalizione di centro-sinistra che non è riuscita a formare quel governo di cambiamento sul quale aveva puntato tutte le sue carte il leader di Sel. Inoltre, la nascita delle larghe intese assieme all’avversario storico Berlusconi, l’uscita di scena dello stesso Bersani, l’arrivo di Renzi che non è certamente in sintonia con le istanze della sinistra radicale, la legge elettorale che prevede una soglia troppo alta per sperare di entrare in Parlamento... Un quadro nefasto.
Sel ha poche strade davanti a sé per tentare di rimanere in vita. La prima, quella più lineare, sarà probabilmente enunciata oggi da Vendola. Si tratta di combattere in Parlamento affinché la soglia della nuova legge elettorale venga abbassata al 4 per cento per chi si presenta in coalizione (oggi è prevista al 5, tetto proibitivo per Sel stimata tra il 2 e il 3 per cento). Solo così si potrebbe tentare di nuovo l’avventura di un’alleanza con il Pd. Ma non è affatto detto che le pressioni di Sel riescano a modificare l’impianto blindato da Renzi e Berlusconi. Così come non è detto che, se anche ci riuscissero, sarebbe facile ottenere il 4 per cento dei voti. Il segretario del Pd domani sarà al congresso, si spera in una sua parola di rassicurazione...
Le altre strade ci sono ma non si dicono, almeno ufficialmente. Una è l’entrata nel Pd per creare una corrente di sinistra composta anche dagli attuali oppositori di Renzi: Cuperlo, Fassina (e Bersani e D’Alema). Strada più che impervia soprattutto perché significherebbe sancire definitivamente il fallimento politico di un progetto che pure qualche speranza aveva suscitato fino a qualche anno fa, quando i sondaggi attribuivano a Sel il 7-8 per cento dei consensi. Perché si sono perduti quei consensi è una domanda alla quale sarebbe riduttivo rispondere dando tutte le colpe a Bersani (che pure non ne è esente).
Oppure (esclusa l’ipotesi che la sinistra del Pd esca dal partito per entrare in Sel), ci sarebbe sempre il richiamo della foresta. Una scelta movimentista, magari benedetta da Fausto Bertinotti, Barbara Spinelli e Marco Revelli, che potrebbe rimettere insieme i pezzi sparsi della sinistra radicale italiana: Sel, Rifondazione, i Verdi, Ingroia, addirittura Diliberto. Una prospettiva che Vendola vede come fumo negli occhi ma se in gioco ci fosse la sopravvivenza...
In ogni caso il primo banco di prova per Sel saranno le europee di maggio, dove potrà misurare la sua forza reale. E qui c’è un’altra battaglia preventiva da fare, cercare di abbassare quella soglia del 4 per cento che rende improbabile un arrivo a Bruxelles (non a caso il segretario di Rifondazione Ferrero sta pensando di candidarsi in Grecia). Il problema però è che ormai l’immagine politica di Sel risulta appannata, anche grazie a quella telefonata di Vendola con Girolamo Archinà, in cui il governatore pugliese si complimentava per il «balzo felino» con cui il dirigente dell’Ilva aveva strappato il microfono a un giornalista. A molti elettori di Sel quel balzo non è piaciuto affatto.
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Daniela Preziosi
Sel, la "strada giusta" riparte in salita
il manifesto, 24 gennaio 2014
Nelle odissee politiche non c’è mai davvero un’Itaca, ma il bollettino dei naviganti dice a Nichi Vendola tempesta. Tempesta forte, tale da richiedere la ricerca immediata di un approdo, se non un porto almeno uno scoglio. Oggi al Palacongressi di Riccione si apre il secondo congresso di Sinistra ecologia e libertà, si intitola «la strada giusta fra crisi sociale, della politica e un campo largo, a sinistra, da ricostruire». 900 delegati in rappresentanza di 34.300 iscritti non post-ideologici ma certo «laici di sinistra», racconta una ricerca di Paola Bordandini (La spada di Vendola, Donzelli) descrivendoli come risorsa irrinunciabile per un’alleanza postberlusconiana, «senza un nemico da combattere».
Ma il postberlusconismo è iniziato? Il tempo non ne fa una dritta a Sel e apparecchia un menù al cianuro per le assise che decideranno la sorte della sinistra che «tiene aperta la partita» del centrosinistra, anima governista (fuori dal governo) di una sinistra italiana che zoppica con tutti i piedi che ha. Il Pd, l’alleato d’elezione, governa con la destra; il neosegretario Renzi ha concordato con Berlusconi una legge elettorale che «asfalta» i partitini (sbarramento al 5 per quelli in alleanza, all’8 chi sta fuori); e a chi obietta ha risposto «si arrangino», avvertimento a futura memoria. Eppure, per i sondaggi, anche quel pessimistico 2,3 per cento a cui viene oggi quotata Sel (dal 3,2 del 2013), sarebbe determinante per la vittoria. E però il pacchetto Renzi-Berlusconi con gli alleati utili non divide neanche il premio di maggioranza (oggi, con il porcellum, Sel ha 37 deputati e 7 senatori).
Ma saranno le europee di maggio a presentare il primo conto. Lì lo sbarramento è al 4. I vendoliani si dividono fra gli sbilanciati verso il Pse (Sel ha chiesto di aderire, nessuna risposta ancora è arrivata) propensi ad appoggiare, insieme al Pd, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz (Gennaro Migliore è il capofila); e i tanti che guardano al giovane Alexis Tsipras, leader della greca Syriza, lanciato in Italia da un appello di intellettuali (sul manifesto del 17 gennaio). Su un piatto della bilancia c’è il socialdemocratico, anima critica della Spd larghintesista, che potrebbe incassare la non belligeranza di Angela Merkel. Sull’altro c’è Tsipras, dal programma antirigorista, lo stesso di Sel; ma con una lista che, per ora, non accoglie la «terra di mezzo» di conio vendoliano e indica come approdo il Gue, il gruppo della Sinistra europea. Una cena fra Vendola e Barbara Spinelli, ispiratrice della lista, non ha prodotto avvicinamenti. Sel è pronta a fare una sua lista, ma il rischio di non acciuffare il 4 per cento è reale. Vendola, pure provato dalla vicenda Ilva, ha promesso che deciderà insieme ai delegati se correre per Bruxelles: la sua presenza fa la differenza. D’altro canto per le sinistre italiane, divise ormai per tradizione e definizione, il rischio replica del disastro 2013 è dietro l’angolo.
Intanto dal Pd parte il pressing per l’ingresso di Sel che irrobustirebbe il partito nuovo di Renzi. Ha i toni spregiudicati del segretario che prima del patto con Berlusconi aveva assicurato la sua presenza domani a Riccione. Verrà davvero, ora che indossa i panni dell’angelo asfaltatore? «Decidesse lui», taglia corto Ciccio Ferrara, coordinatore di Sel, annunciando il no all’Italicum. «Gli sbarramenti per i coalizzati e non, sono alti e odiosi. Ma il punto è: Renzi permetterà di nuovo a Berlusconi di portare in parlamento i suoi maggiordomi», ragiona Massimiliano Smeriglio, vice di Nicola Zingaretti alla regione Lazio, in altri frangenti granitico coalizionista.
Ma l’offerta di abbandonarsi all’abbraccio del partitone ha anche la voce amichevole di Goffredo Bettini, teorico del «campo largo» — presente al congresso — che oggi però vira verso il bipartitismo: «Ci vuole uno schema innovativo: Renzi candidato premier con un campo unitario dei democratici, plurale, contendibile in perenne esercizio di produzione di idee, di decisioni, di lotta». E quella dell’amico di una vita di Vendola, Nicola Latorre, neorenziano di antica osservanza dalemiana: «Nichi porti ai suoi questo orizzonte strategico, a prescindere dalla legge elettorale, come approdo politico e naturale. Senza bisogno di gesti mortificanti». «È questo il momento di mettere in campo un progetto politico», replica Ferrara. «Nichi stupirà», assicura Smeriglio. Intanto da oggi inizia la battaglia degli emendamenti al documento unico, dopo i congressi territoriali combattuti a colpi di accuse di tesseramenti gonfiati, nella migliore tradizione di famiglia. A andrà in scena anche il duello del congresso della Cgil, fra la segretaria Susanna Camusso, che parlerà oggi, e quello della Fiom Maurizio Landini.
La speranza è nell’opera, diceva Vincenzo Cardarelli. Quel Cardarelli citato da Fausto Bertinotti il giorno che annunciò la fine del secondo governo Prodi (2007, lo definì «il più grande poeta morente»). Ma da ogni lato la si guardi oggi «l’opera», sembra avere una porta che si chiude.
È sempre l’ora del bilancio per una sinistra oggi frantumaglia, alle prese con l’ennesima crisi di relazione con i nuovi movimenti dell’età della crisi. L’unità ha persino smesso di essere uno slogan, perché una meta troppo lontana rischia di essere una fatamorgana, o un trucco. Bertinotti, padre politico di Vendola, dopo la rottura con Armando Cossutta (’98), dopo essere stato presidente della camera dell’Unione (2006), oggi è distante mille miglia dal compagno di un tempo. E invece l’anziano presidente che fu fondatore del Prc e poi del Pdci (che poi ha lasciato), e che ormai vive ritirato, alle ultime politiche ha confidato a un amico la sua benevolenza verso Vendola, avversario interno di un tempo. «Nichi è capace, generosissimo. Immagino la sua fatica. Ma intorno ha il deserto», riflette amaramente Ersilia Salvato, per completare il quadro dei rifondatori della prima ora, l’ultima del Pci. Domenica Vendola (e compagni e compagne) dovranno decidere la loro «strada giusta». Qualsiasi sarà, partirà in salita.
La strada molto stretta di Vendola
La Stampa, 24 gennaio 2014
Il partito di Vendola, nato 5 anni fa, oggi celebra il suo secondo congresso ma non vede un futuro roseo. Un partito reduce dal risultato delle elezioni politiche, un misero 3,2%, e dalla sconfitta della coalizione con il Pd di Bersani.
Una coalizione di centro-sinistra che non è riuscita a formare quel governo di cambiamento sul quale aveva puntato tutte le sue carte il leader di Sel. Inoltre, la nascita delle larghe intese assieme all’avversario storico Berlusconi, l’uscita di scena dello stesso Bersani, l’arrivo di Renzi che non è certamente in sintonia con le istanze della sinistra radicale, la legge elettorale che prevede una soglia troppo alta per sperare di entrare in Parlamento... Un quadro nefasto.
Sel ha poche strade davanti a sé per tentare di rimanere in vita. La prima, quella più lineare, sarà probabilmente enunciata oggi da Vendola. Si tratta di combattere in Parlamento affinché la soglia della nuova legge elettorale venga abbassata al 4 per cento per chi si presenta in coalizione (oggi è prevista al 5, tetto proibitivo per Sel stimata tra il 2 e il 3 per cento). Solo così si potrebbe tentare di nuovo l’avventura di un’alleanza con il Pd. Ma non è affatto detto che le pressioni di Sel riescano a modificare l’impianto blindato da Renzi e Berlusconi. Così come non è detto che, se anche ci riuscissero, sarebbe facile ottenere il 4 per cento dei voti. Il segretario del Pd domani sarà al congresso, si spera in una sua parola di rassicurazione...
Le altre strade ci sono ma non si dicono, almeno ufficialmente. Una è l’entrata nel Pd per creare una corrente di sinistra composta anche dagli attuali oppositori di Renzi: Cuperlo, Fassina (e Bersani e D’Alema). Strada più che impervia soprattutto perché significherebbe sancire definitivamente il fallimento politico di un progetto che pure qualche speranza aveva suscitato fino a qualche anno fa, quando i sondaggi attribuivano a Sel il 7-8 per cento dei consensi. Perché si sono perduti quei consensi è una domanda alla quale sarebbe riduttivo rispondere dando tutte le colpe a Bersani (che pure non ne è esente).
Oppure (esclusa l’ipotesi che la sinistra del Pd esca dal partito per entrare in Sel), ci sarebbe sempre il richiamo della foresta. Una scelta movimentista, magari benedetta da Fausto Bertinotti, Barbara Spinelli e Marco Revelli, che potrebbe rimettere insieme i pezzi sparsi della sinistra radicale italiana: Sel, Rifondazione, i Verdi, Ingroia, addirittura Diliberto. Una prospettiva che Vendola vede come fumo negli occhi ma se in gioco ci fosse la sopravvivenza...
In ogni caso il primo banco di prova per Sel saranno le europee di maggio, dove potrà misurare la sua forza reale. E qui c’è un’altra battaglia preventiva da fare, cercare di abbassare quella soglia del 4 per cento che rende improbabile un arrivo a Bruxelles (non a caso il segretario di Rifondazione Ferrero sta pensando di candidarsi in Grecia). Il problema però è che ormai l’immagine politica di Sel risulta appannata, anche grazie a quella telefonata di Vendola con Girolamo Archinà, in cui il governatore pugliese si complimentava per il «balzo felino» con cui il dirigente dell’Ilva aveva strappato il microfono a un giornalista. A molti elettori di Sel quel balzo non è piaciuto affatto.
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Daniela Preziosi
Sel, la "strada giusta" riparte in salita
il manifesto, 24 gennaio 2014
Nelle odissee politiche non c’è mai davvero un’Itaca, ma il bollettino dei naviganti dice a Nichi Vendola tempesta. Tempesta forte, tale da richiedere la ricerca immediata di un approdo, se non un porto almeno uno scoglio. Oggi al Palacongressi di Riccione si apre il secondo congresso di Sinistra ecologia e libertà, si intitola «la strada giusta fra crisi sociale, della politica e un campo largo, a sinistra, da ricostruire». 900 delegati in rappresentanza di 34.300 iscritti non post-ideologici ma certo «laici di sinistra», racconta una ricerca di Paola Bordandini (La spada di Vendola, Donzelli) descrivendoli come risorsa irrinunciabile per un’alleanza postberlusconiana, «senza un nemico da combattere».
Ma il postberlusconismo è iniziato? Il tempo non ne fa una dritta a Sel e apparecchia un menù al cianuro per le assise che decideranno la sorte della sinistra che «tiene aperta la partita» del centrosinistra, anima governista (fuori dal governo) di una sinistra italiana che zoppica con tutti i piedi che ha. Il Pd, l’alleato d’elezione, governa con la destra; il neosegretario Renzi ha concordato con Berlusconi una legge elettorale che «asfalta» i partitini (sbarramento al 5 per quelli in alleanza, all’8 chi sta fuori); e a chi obietta ha risposto «si arrangino», avvertimento a futura memoria. Eppure, per i sondaggi, anche quel pessimistico 2,3 per cento a cui viene oggi quotata Sel (dal 3,2 del 2013), sarebbe determinante per la vittoria. E però il pacchetto Renzi-Berlusconi con gli alleati utili non divide neanche il premio di maggioranza (oggi, con il porcellum, Sel ha 37 deputati e 7 senatori).
Ma saranno le europee di maggio a presentare il primo conto. Lì lo sbarramento è al 4. I vendoliani si dividono fra gli sbilanciati verso il Pse (Sel ha chiesto di aderire, nessuna risposta ancora è arrivata) propensi ad appoggiare, insieme al Pd, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz (Gennaro Migliore è il capofila); e i tanti che guardano al giovane Alexis Tsipras, leader della greca Syriza, lanciato in Italia da un appello di intellettuali (sul manifesto del 17 gennaio). Su un piatto della bilancia c’è il socialdemocratico, anima critica della Spd larghintesista, che potrebbe incassare la non belligeranza di Angela Merkel. Sull’altro c’è Tsipras, dal programma antirigorista, lo stesso di Sel; ma con una lista che, per ora, non accoglie la «terra di mezzo» di conio vendoliano e indica come approdo il Gue, il gruppo della Sinistra europea. Una cena fra Vendola e Barbara Spinelli, ispiratrice della lista, non ha prodotto avvicinamenti. Sel è pronta a fare una sua lista, ma il rischio di non acciuffare il 4 per cento è reale. Vendola, pure provato dalla vicenda Ilva, ha promesso che deciderà insieme ai delegati se correre per Bruxelles: la sua presenza fa la differenza. D’altro canto per le sinistre italiane, divise ormai per tradizione e definizione, il rischio replica del disastro 2013 è dietro l’angolo.
Intanto dal Pd parte il pressing per l’ingresso di Sel che irrobustirebbe il partito nuovo di Renzi. Ha i toni spregiudicati del segretario che prima del patto con Berlusconi aveva assicurato la sua presenza domani a Riccione. Verrà davvero, ora che indossa i panni dell’angelo asfaltatore? «Decidesse lui», taglia corto Ciccio Ferrara, coordinatore di Sel, annunciando il no all’Italicum. «Gli sbarramenti per i coalizzati e non, sono alti e odiosi. Ma il punto è: Renzi permetterà di nuovo a Berlusconi di portare in parlamento i suoi maggiordomi», ragiona Massimiliano Smeriglio, vice di Nicola Zingaretti alla regione Lazio, in altri frangenti granitico coalizionista.
Ma l’offerta di abbandonarsi all’abbraccio del partitone ha anche la voce amichevole di Goffredo Bettini, teorico del «campo largo» — presente al congresso — che oggi però vira verso il bipartitismo: «Ci vuole uno schema innovativo: Renzi candidato premier con un campo unitario dei democratici, plurale, contendibile in perenne esercizio di produzione di idee, di decisioni, di lotta». E quella dell’amico di una vita di Vendola, Nicola Latorre, neorenziano di antica osservanza dalemiana: «Nichi porti ai suoi questo orizzonte strategico, a prescindere dalla legge elettorale, come approdo politico e naturale. Senza bisogno di gesti mortificanti». «È questo il momento di mettere in campo un progetto politico», replica Ferrara. «Nichi stupirà», assicura Smeriglio. Intanto da oggi inizia la battaglia degli emendamenti al documento unico, dopo i congressi territoriali combattuti a colpi di accuse di tesseramenti gonfiati, nella migliore tradizione di famiglia. A andrà in scena anche il duello del congresso della Cgil, fra la segretaria Susanna Camusso, che parlerà oggi, e quello della Fiom Maurizio Landini.
La speranza è nell’opera, diceva Vincenzo Cardarelli. Quel Cardarelli citato da Fausto Bertinotti il giorno che annunciò la fine del secondo governo Prodi (2007, lo definì «il più grande poeta morente»). Ma da ogni lato la si guardi oggi «l’opera», sembra avere una porta che si chiude.
È sempre l’ora del bilancio per una sinistra oggi frantumaglia, alle prese con l’ennesima crisi di relazione con i nuovi movimenti dell’età della crisi. L’unità ha persino smesso di essere uno slogan, perché una meta troppo lontana rischia di essere una fatamorgana, o un trucco. Bertinotti, padre politico di Vendola, dopo la rottura con Armando Cossutta (’98), dopo essere stato presidente della camera dell’Unione (2006), oggi è distante mille miglia dal compagno di un tempo. E invece l’anziano presidente che fu fondatore del Prc e poi del Pdci (che poi ha lasciato), e che ormai vive ritirato, alle ultime politiche ha confidato a un amico la sua benevolenza verso Vendola, avversario interno di un tempo. «Nichi è capace, generosissimo. Immagino la sua fatica. Ma intorno ha il deserto», riflette amaramente Ersilia Salvato, per completare il quadro dei rifondatori della prima ora, l’ultima del Pci. Domenica Vendola (e compagni e compagne) dovranno decidere la loro «strada giusta». Qualsiasi sarà, partirà in salita.
giovedì 23 gennaio 2014
L'inarrestabile chiacchiera renziana
Da “Fassina chi?” a Goldrake la politica scopre il “renzese”
Dopo la rottamazione, il lessico spiazzante del sindaco
la Repubblica, 23 gennaio 2014
INNANZITUTTO l’inglese, o quello che a spizzichi e bocconi assomiglia all’inglese: «Cool», «smart», «finish», «game over», «job act». Du yu spik «renzese»?
«Venendo qua - questo si è potuto ascoltare dal leader del Pd la scorsa settimana - ho incontrato una signora che mi ha preso in giro: “Oh Renzi, falla finita con questi nomi strambi!”. Questa dunque la conclusione del breve racconto: la signora «ha ragione»; insieme a una promessa: «Basta anglicismi».
Quest’ultima parola, «anglicismi», suona in verità piuttosto colta, perciò colpisce. Di norma il lessico del personaggio è piano, molto colloquiale, anzi per certi versi un modello di quotidianità che qualche volta sconfina nella bullaggine: «Fassina chi?», «li asfaltiamo», «lo rivolto come un calzino». Già più elaborate formule di offesa e difesa quali: «Deve farsi vedere da uno bravo», inteso un medico; come pure, ma su twitter, a proposito di un utente sconsiderato: «Spero che chi lo ha fatto, dopo aver parlato, abbia posato il fiasco», nel senso dell’ubriachezza molesta.
Questa lingua tutto sommato lineare e non di rado contundente - si pensi alla contagiosa energia della «rottamazione» ha tutta l’aria di essere una delle ragioni del successo di Renzi. Ecco comunque il giudizio complessivo che su di lui ha espresso qualche giorno fa un grande esperto del ramo comunicazione, Silvio Berlusconi: «È moderno, non è un politico tradizionale, è brillante, telegenico, ha la battuta pronta, usa un linguaggio comprensibile dalla gente, e insomma è un avversario temibile da non sottovalutare».
Ciò detto, tutto sommato il «renzese» rimane ancora un oggetto da approfondire. Di sicuro, com’è ovvio, vi si colgono tracce di fiorentinismo come quando, per la verità senza rendersi conto che il microfono era aperto, ha definito il povero Bersani «spompo». Per poi correggersi: «Dài, m’è scappata un’espressione che era anche d’affetto».
Ora, è inutile soffermarsi su quanto sia stata decisiva Firenze per l’italiano. Ma come tutte le cose importanti, ganze o meno che siano, la fiera e consapevole impostazione municipale gioca a doppio taglio. Così per taluni riecheggia, più che Dante, la commedia di Pieraccioni e Panariello, mentre per altri, come Antonio Martino, assegna a Renzi un sovrappiù di eloquenza «che fa sembrare oro colato qualsiasi sciocchezza».
Sempre proseguendo un’indagine necessariamente empirica, un’ulteriore caratteristica che colpisce è quella dei giochi di parole, tipo «serve un partito pensante, non pesante», oppure «il Pd non esiste, ma resiste», o anche «Berlusconi non è da imprigionare, ma da pensionare», «dico Andreatta e non Andreotti» e così via.
Uno dei pochi studiosi che si è avvicinato alla materia, il professor Giuseppe Antonelli, dell’Università di Roma, ha notato slogan «visivi», parecchie contrapposizioni ad effetto e riferimenti pop «spinti molto a fondo». Abbastanza persuasiva è la valutazione di fondo, secondo cui Renzi condivide e fa sua «l’intuizione secondo cui è la cultura televisiva a fondare la nostra identità nazionale». E in qualche modo, si può aggiungere, anche quella generazionale.
Ecco perciò Goldrake, Sanremo, Miss Italia, il mago Zurlì, il mago Otelma e l’innominato Califano che conclude «tutto il resto è noia», ognuno dei quali chiamati a raccontare significati e rafforzare concetti. Da questo punto di vista gli esempi sono abbondanti.
La battuta in «renzese», d’altra parte, è prodigiosamente rapida, forse anche troppo. Ma a detta di Antonelli ce ne sono di «già impacchettate» che secondo le logiche del marketing tendono a inglobare diversi pubblici. Per cui il leader del Pd punta sui giovani non solo con una comunicazione calda «dài, ragazzi!» - ma richiamando anche, per dire, l’allenatore Pep Guardiola, mentre il richiamo a Bartali è dedicato alle zie e ai nonni.
Lo sport, o meglio il calcio, è infine una chiave fondamentale, tanto che nell’inarrestabile chiacchiera renziana rasenta quasi l’ossessione. Il campo della politica si risolve identificandosi pienamente nel campo da gioco in una continua e rutilante evocazione di maglie, panchine, calci di rigore, «io sono trapattoniano» per dire che gioca in difesa, «se mi avete dato la fascia da capitano - questo nel discorso della vittoria alle primarie - non farò passare giorno senza lottare su ogni pallone». L’altro giorno, dopo l’incontro con Berlusconi, ha superato se stesso chiedendo ai suoi: «Vi è piaciuto il cucchiaio?». Che sarebbe un gol segnato con un pallonetto - là dove il virtuosismo sfiora l’evanescenza, ma qualche punto porta a casa.
Dopo la rottamazione, il lessico spiazzante del sindaco
la Repubblica, 23 gennaio 2014
INNANZITUTTO l’inglese, o quello che a spizzichi e bocconi assomiglia all’inglese: «Cool», «smart», «finish», «game over», «job act». Du yu spik «renzese»?
«Venendo qua - questo si è potuto ascoltare dal leader del Pd la scorsa settimana - ho incontrato una signora che mi ha preso in giro: “Oh Renzi, falla finita con questi nomi strambi!”. Questa dunque la conclusione del breve racconto: la signora «ha ragione»; insieme a una promessa: «Basta anglicismi».
Quest’ultima parola, «anglicismi», suona in verità piuttosto colta, perciò colpisce. Di norma il lessico del personaggio è piano, molto colloquiale, anzi per certi versi un modello di quotidianità che qualche volta sconfina nella bullaggine: «Fassina chi?», «li asfaltiamo», «lo rivolto come un calzino». Già più elaborate formule di offesa e difesa quali: «Deve farsi vedere da uno bravo», inteso un medico; come pure, ma su twitter, a proposito di un utente sconsiderato: «Spero che chi lo ha fatto, dopo aver parlato, abbia posato il fiasco», nel senso dell’ubriachezza molesta.
Questa lingua tutto sommato lineare e non di rado contundente - si pensi alla contagiosa energia della «rottamazione» ha tutta l’aria di essere una delle ragioni del successo di Renzi. Ecco comunque il giudizio complessivo che su di lui ha espresso qualche giorno fa un grande esperto del ramo comunicazione, Silvio Berlusconi: «È moderno, non è un politico tradizionale, è brillante, telegenico, ha la battuta pronta, usa un linguaggio comprensibile dalla gente, e insomma è un avversario temibile da non sottovalutare».
Ciò detto, tutto sommato il «renzese» rimane ancora un oggetto da approfondire. Di sicuro, com’è ovvio, vi si colgono tracce di fiorentinismo come quando, per la verità senza rendersi conto che il microfono era aperto, ha definito il povero Bersani «spompo». Per poi correggersi: «Dài, m’è scappata un’espressione che era anche d’affetto».
Ora, è inutile soffermarsi su quanto sia stata decisiva Firenze per l’italiano. Ma come tutte le cose importanti, ganze o meno che siano, la fiera e consapevole impostazione municipale gioca a doppio taglio. Così per taluni riecheggia, più che Dante, la commedia di Pieraccioni e Panariello, mentre per altri, come Antonio Martino, assegna a Renzi un sovrappiù di eloquenza «che fa sembrare oro colato qualsiasi sciocchezza».
Sempre proseguendo un’indagine necessariamente empirica, un’ulteriore caratteristica che colpisce è quella dei giochi di parole, tipo «serve un partito pensante, non pesante», oppure «il Pd non esiste, ma resiste», o anche «Berlusconi non è da imprigionare, ma da pensionare», «dico Andreatta e non Andreotti» e così via.
Uno dei pochi studiosi che si è avvicinato alla materia, il professor Giuseppe Antonelli, dell’Università di Roma, ha notato slogan «visivi», parecchie contrapposizioni ad effetto e riferimenti pop «spinti molto a fondo». Abbastanza persuasiva è la valutazione di fondo, secondo cui Renzi condivide e fa sua «l’intuizione secondo cui è la cultura televisiva a fondare la nostra identità nazionale». E in qualche modo, si può aggiungere, anche quella generazionale.
Ecco perciò Goldrake, Sanremo, Miss Italia, il mago Zurlì, il mago Otelma e l’innominato Califano che conclude «tutto il resto è noia», ognuno dei quali chiamati a raccontare significati e rafforzare concetti. Da questo punto di vista gli esempi sono abbondanti.
La battuta in «renzese», d’altra parte, è prodigiosamente rapida, forse anche troppo. Ma a detta di Antonelli ce ne sono di «già impacchettate» che secondo le logiche del marketing tendono a inglobare diversi pubblici. Per cui il leader del Pd punta sui giovani non solo con una comunicazione calda «dài, ragazzi!» - ma richiamando anche, per dire, l’allenatore Pep Guardiola, mentre il richiamo a Bartali è dedicato alle zie e ai nonni.
Lo sport, o meglio il calcio, è infine una chiave fondamentale, tanto che nell’inarrestabile chiacchiera renziana rasenta quasi l’ossessione. Il campo della politica si risolve identificandosi pienamente nel campo da gioco in una continua e rutilante evocazione di maglie, panchine, calci di rigore, «io sono trapattoniano» per dire che gioca in difesa, «se mi avete dato la fascia da capitano - questo nel discorso della vittoria alle primarie - non farò passare giorno senza lottare su ogni pallone». L’altro giorno, dopo l’incontro con Berlusconi, ha superato se stesso chiedendo ai suoi: «Vi è piaciuto il cucchiaio?». Che sarebbe un gol segnato con un pallonetto - là dove il virtuosismo sfiora l’evanescenza, ma qualche punto porta a casa.
mercoledì 22 gennaio 2014
Vermeer, la ragazza con l'orecchino
Francesco Bonami
Vermeer può scalzare Monna Lisa
La Stampa, 22 gennaio 2014
Tutti vorremmo essere in un dipinto di Vermeer il fuoriclasse della pittura olandese del quale sono rimaste pochissime opere. Vorremmo essere dentro uno dei suoi quadri per il semplice motivo che la luce e le atmosfere dei suoi ambienti sembrano essere di una comodità e tranquillità uniche.
Immaginarsi due che litigano nella cucina della ragazza che versa il latte è praticamente impossibile. La pittura di Vermeer non è eroica ma intima e familiare ed è questo che alla fine noi spettatori nascostamente cerchiamo nell’arte, un’intimità ed una quotidianità che la nostra società dello spettacolo sembra averci tolto. Ma allora come mai impazziamo quando un’opera d’arte diventa famosa proprio come una diva del cinema o dello spettacolo, come sta accadendo alla Ragazza con l’Orecchino, capolavoro del nostro maestro fiammingo, che dopo un trionfale tour negli Stati Uniti arriva a Bologna dove ha già fatto il tutto esaurito? Cosa ci attrae in modo quasi ossessivo di una piccola tela grande appena 44 centimetri e mezzo al di là delle sua sublime qualità pittorica?
Sicuramente il mistero che sta attorno al quadro e anche le poche informazioni che abbiamo sul suo autore, poche anche perché, a parte dipingere, Vermeer non ha avuto, a differenza di Caravaggio, una vita avventurosa. Ci attrae la squisita normalità del soggetto e quella del suo artefice. Ma non è abbastanza per mettersi in fila per vederla. Le opere d’arte a volte diventano celebrità esattamente come un attore o un’attrice, un calciatore o una cantante. Di questi tempi la Gioconda sarà molto invidiosa di questa ragazza con l’orecchino che sembra avere preso il suo posto nel cuore di quelli che un tempo erano i suoi fans e la consideravano l’opera d’arte più celebre dell’universo.
Oddio, la Gioconda non è sempre stata cosi famosa. Lo è diventata dopo che l’imbianchino Vincenzo Peruggia la rubò nel 1911 e se la tenne sotto il letto per due anni. Come l’attrice Greta Garbo, la Gioconda diventò celebre scomparendo(*). La ragazza con l’orecchino non è mai scomparsa ma in un certo senso anche lei deve la sua celebrità al fatto di essere stata rubata. Non rubata dal muro del museo Mauritshuis all’Aia dove di solito sta, ma rubata dalla cultura popolare. Prima diventando la protagonista del romanzo di Tracy Chevalier intitolato appunto «La ragazza con l’orecchino di perla» del 1999 e poi del film tratto dal libro del 2003 dove la ragazza con l’orecchino è interpretata da Scarlett Johansson che trasforma la giovane di Vermeer anche in un oggetto di desiderio erotico. Rubata, o meglio presa in prestito, dalla letteratura e poi dal cinema, la ragazza è stata riconsegnata alla storia dell’arte e ai musei ma la sua fama era oramai esplosa. Molti di coloro che vanno a vedere il dipinto non lo guardano come tale ma piuttosto come guarderebbero l’attore protagonista di Harry Potter seduto al tavolino di un caffè. Se potessero gli chiederebbero l’autografo, potendo gli scatteranno tantissime foto con il telefonino.
Il successo di un quadro però non è solo dovuto alla sua fama mediatica, c’è sempre qualcosa che colpisce l’immaginazione dello spettatore che solo un
dipinto ed un grande pittore sono capaci di dare. Non mi sorprenderebbe
che l’opera di Vermeer scalzasse definitivamente la Mona Lisa di
Leonardo dal gradino più alto del podio. Infatti mentre la Gioconda è un
ritratto classico e statico, la ragazza olandese è un’istantanea.
Proprio come quelle prese con il telefonino. Ci guarda sorpresa come
sorpresa e indispettita ci guarderebbe Scarlett Johansson se le
scattassimo una foto di nascosto. Per questo la giovane di Vermeer è
molto più contemporanea ma anche molto più umana della Gioconda. L’opera
d’arte e per questo anche le persone che sanno mostrare meglio di altri
la loro umanità hanno più successo. La ragazza con l’orecchino anziché
essere bloccata nella storia e nel suo tempo ci trasmette l’eternità
dell’attimo, l’umanità della sorpresa e dell’insicurezza. Tutte qualità o
piccoli difetti che ce la fanno diventare amica.
Hugh Hefner inventò il successo Playboy mettendo al centro della sua rivista la «ragazza della porta accanto» capendo che era quella che il maschio moderno e comune in fondo desiderava, non la supermodel. Vermeer senza saperlo ha pure lui dipinto la ragazza della porta accanto. Noi in un’epoca di maschi e femmine superdotati è proprio quella che stavamo aspettando. Per questo siamo disposti ad aspettare qualche ora in più pur di riuscire ad andare a vederla.
(*) Donald Sassoon, Il mistero della Gioconda : la storia di un dipinto attraverso le immagini, trad. di Sandro Chierici, Rizzoli, Milano 2006. - 349 p.
Vermeer può scalzare Monna Lisa
La Stampa, 22 gennaio 2014
Tutti vorremmo essere in un dipinto di Vermeer il fuoriclasse della pittura olandese del quale sono rimaste pochissime opere. Vorremmo essere dentro uno dei suoi quadri per il semplice motivo che la luce e le atmosfere dei suoi ambienti sembrano essere di una comodità e tranquillità uniche.
Immaginarsi due che litigano nella cucina della ragazza che versa il latte è praticamente impossibile. La pittura di Vermeer non è eroica ma intima e familiare ed è questo che alla fine noi spettatori nascostamente cerchiamo nell’arte, un’intimità ed una quotidianità che la nostra società dello spettacolo sembra averci tolto. Ma allora come mai impazziamo quando un’opera d’arte diventa famosa proprio come una diva del cinema o dello spettacolo, come sta accadendo alla Ragazza con l’Orecchino, capolavoro del nostro maestro fiammingo, che dopo un trionfale tour negli Stati Uniti arriva a Bologna dove ha già fatto il tutto esaurito? Cosa ci attrae in modo quasi ossessivo di una piccola tela grande appena 44 centimetri e mezzo al di là delle sua sublime qualità pittorica?
Sicuramente il mistero che sta attorno al quadro e anche le poche informazioni che abbiamo sul suo autore, poche anche perché, a parte dipingere, Vermeer non ha avuto, a differenza di Caravaggio, una vita avventurosa. Ci attrae la squisita normalità del soggetto e quella del suo artefice. Ma non è abbastanza per mettersi in fila per vederla. Le opere d’arte a volte diventano celebrità esattamente come un attore o un’attrice, un calciatore o una cantante. Di questi tempi la Gioconda sarà molto invidiosa di questa ragazza con l’orecchino che sembra avere preso il suo posto nel cuore di quelli che un tempo erano i suoi fans e la consideravano l’opera d’arte più celebre dell’universo.
Oddio, la Gioconda non è sempre stata cosi famosa. Lo è diventata dopo che l’imbianchino Vincenzo Peruggia la rubò nel 1911 e se la tenne sotto il letto per due anni. Come l’attrice Greta Garbo, la Gioconda diventò celebre scomparendo(*). La ragazza con l’orecchino non è mai scomparsa ma in un certo senso anche lei deve la sua celebrità al fatto di essere stata rubata. Non rubata dal muro del museo Mauritshuis all’Aia dove di solito sta, ma rubata dalla cultura popolare. Prima diventando la protagonista del romanzo di Tracy Chevalier intitolato appunto «La ragazza con l’orecchino di perla» del 1999 e poi del film tratto dal libro del 2003 dove la ragazza con l’orecchino è interpretata da Scarlett Johansson che trasforma la giovane di Vermeer anche in un oggetto di desiderio erotico. Rubata, o meglio presa in prestito, dalla letteratura e poi dal cinema, la ragazza è stata riconsegnata alla storia dell’arte e ai musei ma la sua fama era oramai esplosa. Molti di coloro che vanno a vedere il dipinto non lo guardano come tale ma piuttosto come guarderebbero l’attore protagonista di Harry Potter seduto al tavolino di un caffè. Se potessero gli chiederebbero l’autografo, potendo gli scatteranno tantissime foto con il telefonino.
mistero della Gioconda : la storia di un dipinto attraverso le immagini
/ Donald Sassoon. - Milano : Rizzoli, 2006. - 349 p. : ill. ; 22 cm.
((Trad. di: Sandro Chierici - See more at:
http://www.librinlinea.it/search/public/appl/dettaglio.php?bid=MOD1011150#sthash.PDZ7K3SO.dpuf
mistero della Gioconda : la storia di un dipinto attraverso le immagini
/ Donald Sassoon. - Milano : Rizzoli, 2006. - 349 p. : ill. ; 22 cm.
((Trad. di: Sandro Chierici - See more at:
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mistero della Gioconda : la storia di un dipinto attraverso le immagini
/ Donald Sassoon. - Milano : Rizzoli, 2006. - 349 p. : ill. ; 22 cm.
((Trad. di: Sandro Chierici, Ultreya. - See more at:
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Hugh Hefner inventò il successo Playboy mettendo al centro della sua rivista la «ragazza della porta accanto» capendo che era quella che il maschio moderno e comune in fondo desiderava, non la supermodel. Vermeer senza saperlo ha pure lui dipinto la ragazza della porta accanto. Noi in un’epoca di maschi e femmine superdotati è proprio quella che stavamo aspettando. Per questo siamo disposti ad aspettare qualche ora in più pur di riuscire ad andare a vederla.
(*) Donald Sassoon, Il mistero della Gioconda : la storia di un dipinto attraverso le immagini, trad. di Sandro Chierici, Rizzoli, Milano 2006. - 349 p.
mistero della Gioconda : la storia di un dipinto attraverso le immagini
/ Donald Sassoon. - Milano : Rizzoli, 2006. - 349 p. : ill. ; 22 cm.
((Trad. di: Sandro Chierici - See more at:
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martedì 21 gennaio 2014
I dubbi del costituzionalista Ainis
Michele Ainis
Italicum: bene, con due dubbi
Corriere della Sera, 21 gennaio 2014
C’è differenza tra un illusionista e un prestigiatore? Sì che c’è: il primo ti fa credere a una realtà che non esiste, il secondo rende invisibile la realtà visibile, quella che avresti sotto gli occhi, se non t’abbagliasse il trucco del prestigiatore. E che cos’è la nuova legge elettorale, un’illusione o un gioco di prestigio? Davvero Renzi ha tirato fuori dal cappello il coniglio che la politica cerca da tre legislature?
Per scoprirlo, non resta che guardare nel cappello. Fin qui ne avevamo osservato soltanto la réclame , con il sospetto che si trattasse di pubblicità ingannevole. Perché aleggiava la promessa d’azzerare i veto players , il potere d’interdizione dei piccoli partiti, ma con l’assenso dei piccoli partiti. Di non ripetere le malefatte del Porcellum , ripetendo tuttavia liste bloccate e premi inventati dal Porcellum . E infine una promessa di governi stabili; anche se per afferrare la Chimera non basta una buona legge elettorale, serve la riforma della Costituzione. Con due Camere gemelle però espresse da elettorati differenti, non ci riuscirebbe neppure mago Zurlì.
E allora interroghiamo il coniglietto su tre parole chiave, cominciando per l’appunto dalla domanda di governabilità. L’avrebbe forse saziata il sistema spagnolo, che non impedisce tuttavia la divisione della torta in tre fettone uguali, replicando il presente per tutti i secoli dei secoli. Ma l’Italicum va meglio, molto meglio. Un doppio turno «eventuale»: se prendi il 35% diventi maggioranza con il premio, altrimenti ballottaggio fra le due coalizioni più votate. Bravo il prestigiatore, bene, bis. Sia per essere riuscito a ipnotizzare Berlusconi, che del doppio turno non ne voleva sapere. Sia per la soglia di sbarramento (5%), un antidoto contro la frantumazione della squadra di governo. Sia perché al ballottaggio il premio te lo mettono in tasca gli elettori, non la legge.
Secondo: la rappresentatività del Parlamento. È il punto su cui batte e ribatte la Consulta, nella sentenza con cui ha arrostito il Porcellum . Significa che i congegni elettorali non possono causare effetti troppo distorsivi rispetto alle scelte dei votanti, come accadeva con un premio di maggioranza senza soglia. E il premio brevettato da Renzi? 18%, mica poco: fanno quattro volte i seggi della Lega, recati in dono a chi vince la lotteria delle elezioni. Crepi l’avarizia, ma in questo caso rischia di crepare pure la giustizia.
Terzo: la sovranità. Spetta al popolo votante, non certo al popolo votato. Da qui l’incostituzionalità delle pluricandidature, dove il plurieletto decideva l’eletto; ma su questo punto Renzi tace, e speriamo che non sia un silenzio-assenso. Da qui, soprattutto, l’incostituzionalità delle liste bloccate. Tuttavia la Consulta ha acceso il verde del semaforo quando i bloccati siano pochi, rendendosi così riconoscibili davanti agli elettori. Quanto pochi? Secondo la scuola pitagorica il numero perfetto è 3; qui invece sono quasi il doppio. Un po’ troppi per fissarne a mente i connotati.
C’è infatti un confine, una frontiera impercettibile, dove la quantità diventa qualità. Vale per il premio di maggioranza, perché il 40% dei consensi sarebbe di gran lunga più accettabile rispetto al 35%. E vale per le liste bloccate, che si sbloccherebbero aumentando i 120 collegi elettorali. In caso contrario, il prestigiatore rischia di trasformarsi in un illusionista. Ma gli sarà difficile illudere di nuovo la Consulta, oltre che gli italiani.
Italicum: bene, con due dubbi
Corriere della Sera, 21 gennaio 2014
C’è differenza tra un illusionista e un prestigiatore? Sì che c’è: il primo ti fa credere a una realtà che non esiste, il secondo rende invisibile la realtà visibile, quella che avresti sotto gli occhi, se non t’abbagliasse il trucco del prestigiatore. E che cos’è la nuova legge elettorale, un’illusione o un gioco di prestigio? Davvero Renzi ha tirato fuori dal cappello il coniglio che la politica cerca da tre legislature?
Per scoprirlo, non resta che guardare nel cappello. Fin qui ne avevamo osservato soltanto la réclame , con il sospetto che si trattasse di pubblicità ingannevole. Perché aleggiava la promessa d’azzerare i veto players , il potere d’interdizione dei piccoli partiti, ma con l’assenso dei piccoli partiti. Di non ripetere le malefatte del Porcellum , ripetendo tuttavia liste bloccate e premi inventati dal Porcellum . E infine una promessa di governi stabili; anche se per afferrare la Chimera non basta una buona legge elettorale, serve la riforma della Costituzione. Con due Camere gemelle però espresse da elettorati differenti, non ci riuscirebbe neppure mago Zurlì.
E allora interroghiamo il coniglietto su tre parole chiave, cominciando per l’appunto dalla domanda di governabilità. L’avrebbe forse saziata il sistema spagnolo, che non impedisce tuttavia la divisione della torta in tre fettone uguali, replicando il presente per tutti i secoli dei secoli. Ma l’Italicum va meglio, molto meglio. Un doppio turno «eventuale»: se prendi il 35% diventi maggioranza con il premio, altrimenti ballottaggio fra le due coalizioni più votate. Bravo il prestigiatore, bene, bis. Sia per essere riuscito a ipnotizzare Berlusconi, che del doppio turno non ne voleva sapere. Sia per la soglia di sbarramento (5%), un antidoto contro la frantumazione della squadra di governo. Sia perché al ballottaggio il premio te lo mettono in tasca gli elettori, non la legge.
Secondo: la rappresentatività del Parlamento. È il punto su cui batte e ribatte la Consulta, nella sentenza con cui ha arrostito il Porcellum . Significa che i congegni elettorali non possono causare effetti troppo distorsivi rispetto alle scelte dei votanti, come accadeva con un premio di maggioranza senza soglia. E il premio brevettato da Renzi? 18%, mica poco: fanno quattro volte i seggi della Lega, recati in dono a chi vince la lotteria delle elezioni. Crepi l’avarizia, ma in questo caso rischia di crepare pure la giustizia.
Terzo: la sovranità. Spetta al popolo votante, non certo al popolo votato. Da qui l’incostituzionalità delle pluricandidature, dove il plurieletto decideva l’eletto; ma su questo punto Renzi tace, e speriamo che non sia un silenzio-assenso. Da qui, soprattutto, l’incostituzionalità delle liste bloccate. Tuttavia la Consulta ha acceso il verde del semaforo quando i bloccati siano pochi, rendendosi così riconoscibili davanti agli elettori. Quanto pochi? Secondo la scuola pitagorica il numero perfetto è 3; qui invece sono quasi il doppio. Un po’ troppi per fissarne a mente i connotati.
C’è infatti un confine, una frontiera impercettibile, dove la quantità diventa qualità. Vale per il premio di maggioranza, perché il 40% dei consensi sarebbe di gran lunga più accettabile rispetto al 35%. E vale per le liste bloccate, che si sbloccherebbero aumentando i 120 collegi elettorali. In caso contrario, il prestigiatore rischia di trasformarsi in un illusionista. Ma gli sarà difficile illudere di nuovo la Consulta, oltre che gli italiani.
lunedì 20 gennaio 2014
Abbado, il percorso biografico
Paolo Valentino
Claudio Abbado, il ragazzo di Berlino
Corriere della Sera, 12 dicembre 1995
BERLINO - A dieci anni era “impazzito per Bela Bartok”. E quando tornava da scuola, con un gessetto preso in classe, scriveva sul muro di casa in via Fogazzaro: VIVA BARTOK. C’era la guerra, era il 1943, e i nazisti occupavano Milano. Meno di un secolo prima, i giovani patrioti risorgimentali avevano riempito i muri della citta’ con VIVA VERDI, uno slogan politico in barba agli scherani di Cecco Beppe. Che anche dietro Bartok ci fosse qualche messaggio d'opposizione? La Gestapo lo pensò subito, “e vennero dal portiere per chiedergli: ma chi lo ha scritto? E poi chi è questo Bartok, forse un partigiano?”.
E invece Bartok era Bartok. Ma l'ardore musicale del bambino era rischioso lo stesso, “perché in quel periodo mia madre aiutava veramente i partigiani, aveva aiutato a scappare Sergio Solmi, il poeta, abbiamo nascosto anche il figlio di amici ebrei che si erano rifugiati in Svizzera, e noi dovevamo dire a tutti che era nostro cugino; venne arrestata per questo e si salvò solo perche’ aveva incontrato un tenente delle SS italiane che era stato allievo di suo padre, Guglielmo Savagnone, il mio nonno siciliano”. Un avo con la corda pazza questo Nonno Guglielmo, “un personaggio straordinario”.
Quella cattedra all’ Università di Palermo se l'era dovuta conquistare fuori d’ Italia: “Non ricordo se alla fine del liceo o all'inizio dell'universita’ , di sicuro aveva preso a schiaffi un professore ed era stato cacciato da tutte le scuole del Regno. Così aveva studiato in Germania, a Lipsia, si era laureato diventando un grandissimo esperto di papirologia ed era tornato a Palermo a insegnare”. Ma questo, Claudio Abbado, lo ha scoperto dopo, e il suo lungo viaggio verso la cultura tedesca è stato in realta’ “un ritorno”. Un giorno con Abbado nel tempio dei Berliner Philharmoniker. Il giorno dopo un nuovo trionfo con la versione concertata dell'“Otello” verdiano, prima tappa dello Shakespeare Zyklus che dominera’ la “Szene” berlinese fino a giugno. Sono passati sei anni esatti da quando i maestri dell’ orchestra piu’ democratica del mondo hanno scelto Claudio Abbado come successore di Herbert von Karajan.
Per lui, cresciuto nel mito di Wilhelm Furtwangler, la materializzazione di un sogno. “Il momento più commovente di questi anni . ammette semplicemente . me lo ha regalato Elisabeth, la vedova di Furtwangler. Aveva ascoltato un nostro concerto a Lucerna e sapeva che dovevamo suonare a Ginevra, cosi’ mi ha scritto una lettera: “...Come successore di mio marito, la invito ad abitare a casa mia”. Ecco, per me questa frase e’ stata straordinaria, essere il successore di Furtwangler”. Non poteva andare in modo diverso per un musicista che, ancora diciottenne, si era sentito predire da Arturo Toscanini: “Avrai molto successo”. Avvenne a Milano, nella casa del grandissimo in via Durini. Claudio Abbado, figlio d’ arte, suonava anche con l’ orchestra da camera fondata dal padre violinista. “I miei genitori frequentavano Toscanini perche’ l'insegnante di mio padre era Enrico Polo, il cognato di Toscanini e allievo di Joachim, il più grande amico di Brahms. Una sera si decise di suonare in casa Toscanini. Così ho diretto dal pianoforte un concerto di Bach. E Toscanini mi disse quella frase”. Andava a vederlo alla Scala, “mi ricordo le prove con lui sempre molto duro che trattava malissimo gli orchestrali, “cani” era la sua espressione ricorrente. Toscanini aveva una personalità fortissima, sapeva imporre una disciplina d'orchestra. Ma io già allora apprezzavo di più Furtwangler, dava un significato più profondo a ogni nota, sapeva sollecitare una partecipazione più democratica”. Quarant'anni dopo la scomparsa di Furtwangler, Claudio Abbado siede al posto del suo mito.
E continua la tradizione che vuole ai Berliner direttori che siano un po’ anche padri: “E’ vero, l’ orchestra ha sempre avuto queste figure che stanno per tanto tempo, quasi una vita, e che stabiliscono con gli orchestrali un rapporto umano molto profondo. Abbiamo fatto per esempio questa tourne’ e in treno attraverso la Germania, una vecchia tradizione. Si viaggia, si suona, si mangia, si scherza, si fa tutto insieme. Uno dei violini compiva 65 anni, si chiama Westphal ed è forse l'orchestrale piu’ carismatico, allora gli hanno dedicato dei quartetti per festeggiarlo, capisce? Dei quartetti su un treno. Voglio dire che c’è ai Berliner il senso di una grande famiglia: il direttore deve aiutare gli orchestrali non soltanto sul piano musicale ma anche su quello umano. Se ci sono problemi familiari sono problemi di tutti”.
E allora è vera la storia che lei fa anche lo psicologo. Abbado sorride con i denti grandi e l'aria vagamente fanciullesca che i suoi 62 anni non riescono a cancellare: “Sì, ma questa è una cosa che mi tiro dietro da quando ero molto giovane. Ero taciturno, anche a scuola, e i coetanei mi venivano a confidare delle cose. E' vero anche adesso, tante volte parliamo di problemi che magari sono legati alla musica ma che comunque appartengono alla sfera personale”. C'erano molte possibilità, al momento di decidere la successione di von Karajan. Ma il prescelto fu Abbado, perché? “Fu decisiva la terza sinfonia di Brahms che mi avevano invitato a dirigere per il Festival di Berlino. L'orchestra aveva soprattutto voglia di fare piu’ musica moderna, piu’ musica francese, allargare il suo repertorio. E’ quello che poi è successo, ma non solo, perché abbiamo anche realizzato il progetto dei cicli: adesso abbiamo Shakespeare, prima abbiamo avuto Faust e il mito greco. Dunque abbiamo diversificato il modo di suonare, da un lato continuando la tradizione di questo suono caldo, bello, che è stato il marchio dei Berliner per il romanticismo, e dall’altro creando per la musica contemporanea, dalla scuola viennese a oggi, un modo di suonare più moderno. E poi abbiamo lavorato molto anche sulla musica barocca”.
Lasciamo i Berliner. Di Claudio Abbado si dice fra l'altro che non lavora volentieri in Italia. “Questa è una leggenda, io lavoro moltissimo in Italia. Sono stato a Reggio Emilia ancora in ottobre e novembre con i giovani della Mahler Jugend Orchestra. Abbiamo provato pezzi di Schonberg, i Caminantes di Nono: grandi messaggi per la pace. Lei mi chiedera’ perche’ Reggio Emilia o Ferrara, ma perché lì come in altre città dell'Emilia si varano iniziative che vengono copiate in tutto il mondo”. Che il cuore di Claudio Abbado batta a sinistra non è questo omaggio all’ Emilia rossa a rivelarcelo. Ma lui bolla come “ridicole” le etichette: “Quando dico che la Regione Emilia fa delle cose straordinarie, per me conta zero il fatto che sia amministrata dalle sinistre”.
E però rifarebbe tutto, “come suonare nelle fabbriche, aprire la Scala agli studenti e ai lavoratori, cose che ho fatto perche’ le ritenevo giuste non perche’ fossero di destra o di sinistra. Quando protestavo contro la guerra del Vietnam insieme a Maurizio Pollini o contro i colonnelli greci, tutti facevano titoli sui musicisti rossi, però quando protestai contro i carri sovietici a Praga esponendomi personalmente con Kubelik e con Daniel Barenboim, nessuno disse nulla perché non faceva comodo né a sinistra né a destra. Rifarei tutto. Faccio un altro esempio: io ho diretto molta musica di Luigi Nono, che considero un grandissimo compositore, eppure la reazione era sempre la stessa, Nono e’ comunista. Pensi che una volta a Vienna mi sono trovato un musicista dei Wiener il quale, alla fine della Settima di Bruckner, mi disse: “Meraviglioso, non mi sarei mai aspettato che un italiano di sinistra come lei potesse dirigere Bruckner in modo così profondo”, poi scoprii che ai tempi era stato un fervente nazista”. Il cuore dell'attività di Abbado rimane all'estero, prima a Vienna ora a Berlino.
Un “esilio” sufficiente a confrontare, a cercare di capire quale sia il “male oscuro” che sembra divorare la cultura in Italia: “La cultura rende ricco un Paese, anche economicamente. Non è vero che in Germania o in Austria si fa di più per la cultura perche’ sono più ricchi, e’ vero il contrario, sono più ricchi perche’ si fa di più per la cultura. Ricordo un esempio viennese al tempo del cancelliere Kreisky: si doveva decidere se costruire un pezzo di autostrada oppure se potenziare la nuova stagione operistica e teatrale. Scelsero Opera e Teatro, in Italia sarebbe avvenuto il contrario. Siamo un paese ricchissimo, e invece di valorizzare le nostre potenzialità ci perdiamo in beghe provinciali, in contrapposizioni assurde tra Nord e Sud”.
E’ difficile abbordare l’ argomento, ma Claudio Abbado sa sciogliere subito l'imbarazzo: i rapporti con Riccardo Muti, la rivalita’ vera o presunta con l’ altra grande stella della direzione d’ orchestra italiana. “La nostra rivalita’ ? Un'altra leggenda. L’ ultima volta che ci siamo visti è stato a Vienna a cena da amici e come sempre ci siamo fatti matte risate su questa menzogna, costruita dai media, dalle case discografiche: qualcuno aveva un accendino quella sera, con la sigla di una casa discografica; ecco, e’ stata la nostra battuta, qualcosa che funziona nelle case discografiche. E' un altro assurdo. Io trovo che Milano debba essere ben felice di avere un direttore come Muti alla Scala, ce ne fossero tanti altri bravi come Riccardo”.
Eppure anche le leggende attingono alla Storia. Notazione puramente personale: per quanti sforzi faccia nell’ accreditare un idillio con il direttore della Scala, Claudio Abbado non ci convince. Ma avete invitato Muti ai Berliner? “Certo. Ci sono gli “Amici dei Berliner” che vengono invitati molto democraticamente e vengono regolarmente: Zubin Mehta, Daniel Baremboim, Pierre Boulez, James Levine, Simon Rattle e Seiji Ozawa. Anche Riccardo e’ stato invitato. Fra l’ altro c’è l’ Europa Konzert diretto ogni anno da me o da un direttore ospite, ecco Riccardo e’ stato invitato proprio per questo concerto. L’ orchestra è andata a parlare con lui chiedendogli ovviamente di dirigerlo anche durante la stagione. Ma lui ha cancellato”. Tutto qui? “Io devo dire un’ altra cosa, che ho messo qui a Berlino un limite agli onorari, una cosa della quale mi sono tutti molto grati. E’ un tetto piu’ basso di ciò che ricevo altrove e che ho imposto a me stesso sul contratto con i Berliner insieme alla clausola che nessuno ricevesse piu’ di questo compenso”. Il discorso rimane sospeso. Bussano alla porta del camerino. E’ una giovane soprano, pronta per l’ audizione. Abbado deve congedarsi. Ma c'è un progetto, il progetto della sua vita? No, dice il maestro. E ci regala l'ultimo aneddoto: “Quando avevo sette anni ho sentito i Notturni di Debussy alla Scala diretti da Guarnieri, un’ esperienza magica. Da allora ho sempre pensato di realizzare questa musica. E un giorno l'ho fatta. Ecco, io vado avanti per sogni, che poi diventano idee, progetti. Uno dei miei sogni e’ il “Tristano”. Ma a me piace lavorare a lungo su una cosa, scavarla, maturarla, sul “Boris Godunov” per esempio ho lavorato vent’ anni”.
Claudio Abbado, il ragazzo di Berlino
Corriere della Sera, 12 dicembre 1995
BERLINO - A dieci anni era “impazzito per Bela Bartok”. E quando tornava da scuola, con un gessetto preso in classe, scriveva sul muro di casa in via Fogazzaro: VIVA BARTOK. C’era la guerra, era il 1943, e i nazisti occupavano Milano. Meno di un secolo prima, i giovani patrioti risorgimentali avevano riempito i muri della citta’ con VIVA VERDI, uno slogan politico in barba agli scherani di Cecco Beppe. Che anche dietro Bartok ci fosse qualche messaggio d'opposizione? La Gestapo lo pensò subito, “e vennero dal portiere per chiedergli: ma chi lo ha scritto? E poi chi è questo Bartok, forse un partigiano?”.
E invece Bartok era Bartok. Ma l'ardore musicale del bambino era rischioso lo stesso, “perché in quel periodo mia madre aiutava veramente i partigiani, aveva aiutato a scappare Sergio Solmi, il poeta, abbiamo nascosto anche il figlio di amici ebrei che si erano rifugiati in Svizzera, e noi dovevamo dire a tutti che era nostro cugino; venne arrestata per questo e si salvò solo perche’ aveva incontrato un tenente delle SS italiane che era stato allievo di suo padre, Guglielmo Savagnone, il mio nonno siciliano”. Un avo con la corda pazza questo Nonno Guglielmo, “un personaggio straordinario”.
Quella cattedra all’ Università di Palermo se l'era dovuta conquistare fuori d’ Italia: “Non ricordo se alla fine del liceo o all'inizio dell'universita’ , di sicuro aveva preso a schiaffi un professore ed era stato cacciato da tutte le scuole del Regno. Così aveva studiato in Germania, a Lipsia, si era laureato diventando un grandissimo esperto di papirologia ed era tornato a Palermo a insegnare”. Ma questo, Claudio Abbado, lo ha scoperto dopo, e il suo lungo viaggio verso la cultura tedesca è stato in realta’ “un ritorno”. Un giorno con Abbado nel tempio dei Berliner Philharmoniker. Il giorno dopo un nuovo trionfo con la versione concertata dell'“Otello” verdiano, prima tappa dello Shakespeare Zyklus che dominera’ la “Szene” berlinese fino a giugno. Sono passati sei anni esatti da quando i maestri dell’ orchestra piu’ democratica del mondo hanno scelto Claudio Abbado come successore di Herbert von Karajan.
Per lui, cresciuto nel mito di Wilhelm Furtwangler, la materializzazione di un sogno. “Il momento più commovente di questi anni . ammette semplicemente . me lo ha regalato Elisabeth, la vedova di Furtwangler. Aveva ascoltato un nostro concerto a Lucerna e sapeva che dovevamo suonare a Ginevra, cosi’ mi ha scritto una lettera: “...Come successore di mio marito, la invito ad abitare a casa mia”. Ecco, per me questa frase e’ stata straordinaria, essere il successore di Furtwangler”. Non poteva andare in modo diverso per un musicista che, ancora diciottenne, si era sentito predire da Arturo Toscanini: “Avrai molto successo”. Avvenne a Milano, nella casa del grandissimo in via Durini. Claudio Abbado, figlio d’ arte, suonava anche con l’ orchestra da camera fondata dal padre violinista. “I miei genitori frequentavano Toscanini perche’ l'insegnante di mio padre era Enrico Polo, il cognato di Toscanini e allievo di Joachim, il più grande amico di Brahms. Una sera si decise di suonare in casa Toscanini. Così ho diretto dal pianoforte un concerto di Bach. E Toscanini mi disse quella frase”. Andava a vederlo alla Scala, “mi ricordo le prove con lui sempre molto duro che trattava malissimo gli orchestrali, “cani” era la sua espressione ricorrente. Toscanini aveva una personalità fortissima, sapeva imporre una disciplina d'orchestra. Ma io già allora apprezzavo di più Furtwangler, dava un significato più profondo a ogni nota, sapeva sollecitare una partecipazione più democratica”. Quarant'anni dopo la scomparsa di Furtwangler, Claudio Abbado siede al posto del suo mito.
E continua la tradizione che vuole ai Berliner direttori che siano un po’ anche padri: “E’ vero, l’ orchestra ha sempre avuto queste figure che stanno per tanto tempo, quasi una vita, e che stabiliscono con gli orchestrali un rapporto umano molto profondo. Abbiamo fatto per esempio questa tourne’ e in treno attraverso la Germania, una vecchia tradizione. Si viaggia, si suona, si mangia, si scherza, si fa tutto insieme. Uno dei violini compiva 65 anni, si chiama Westphal ed è forse l'orchestrale piu’ carismatico, allora gli hanno dedicato dei quartetti per festeggiarlo, capisce? Dei quartetti su un treno. Voglio dire che c’è ai Berliner il senso di una grande famiglia: il direttore deve aiutare gli orchestrali non soltanto sul piano musicale ma anche su quello umano. Se ci sono problemi familiari sono problemi di tutti”.
E allora è vera la storia che lei fa anche lo psicologo. Abbado sorride con i denti grandi e l'aria vagamente fanciullesca che i suoi 62 anni non riescono a cancellare: “Sì, ma questa è una cosa che mi tiro dietro da quando ero molto giovane. Ero taciturno, anche a scuola, e i coetanei mi venivano a confidare delle cose. E' vero anche adesso, tante volte parliamo di problemi che magari sono legati alla musica ma che comunque appartengono alla sfera personale”. C'erano molte possibilità, al momento di decidere la successione di von Karajan. Ma il prescelto fu Abbado, perché? “Fu decisiva la terza sinfonia di Brahms che mi avevano invitato a dirigere per il Festival di Berlino. L'orchestra aveva soprattutto voglia di fare piu’ musica moderna, piu’ musica francese, allargare il suo repertorio. E’ quello che poi è successo, ma non solo, perché abbiamo anche realizzato il progetto dei cicli: adesso abbiamo Shakespeare, prima abbiamo avuto Faust e il mito greco. Dunque abbiamo diversificato il modo di suonare, da un lato continuando la tradizione di questo suono caldo, bello, che è stato il marchio dei Berliner per il romanticismo, e dall’altro creando per la musica contemporanea, dalla scuola viennese a oggi, un modo di suonare più moderno. E poi abbiamo lavorato molto anche sulla musica barocca”.
Lasciamo i Berliner. Di Claudio Abbado si dice fra l'altro che non lavora volentieri in Italia. “Questa è una leggenda, io lavoro moltissimo in Italia. Sono stato a Reggio Emilia ancora in ottobre e novembre con i giovani della Mahler Jugend Orchestra. Abbiamo provato pezzi di Schonberg, i Caminantes di Nono: grandi messaggi per la pace. Lei mi chiedera’ perche’ Reggio Emilia o Ferrara, ma perché lì come in altre città dell'Emilia si varano iniziative che vengono copiate in tutto il mondo”. Che il cuore di Claudio Abbado batta a sinistra non è questo omaggio all’ Emilia rossa a rivelarcelo. Ma lui bolla come “ridicole” le etichette: “Quando dico che la Regione Emilia fa delle cose straordinarie, per me conta zero il fatto che sia amministrata dalle sinistre”.
E però rifarebbe tutto, “come suonare nelle fabbriche, aprire la Scala agli studenti e ai lavoratori, cose che ho fatto perche’ le ritenevo giuste non perche’ fossero di destra o di sinistra. Quando protestavo contro la guerra del Vietnam insieme a Maurizio Pollini o contro i colonnelli greci, tutti facevano titoli sui musicisti rossi, però quando protestai contro i carri sovietici a Praga esponendomi personalmente con Kubelik e con Daniel Barenboim, nessuno disse nulla perché non faceva comodo né a sinistra né a destra. Rifarei tutto. Faccio un altro esempio: io ho diretto molta musica di Luigi Nono, che considero un grandissimo compositore, eppure la reazione era sempre la stessa, Nono e’ comunista. Pensi che una volta a Vienna mi sono trovato un musicista dei Wiener il quale, alla fine della Settima di Bruckner, mi disse: “Meraviglioso, non mi sarei mai aspettato che un italiano di sinistra come lei potesse dirigere Bruckner in modo così profondo”, poi scoprii che ai tempi era stato un fervente nazista”. Il cuore dell'attività di Abbado rimane all'estero, prima a Vienna ora a Berlino.
Un “esilio” sufficiente a confrontare, a cercare di capire quale sia il “male oscuro” che sembra divorare la cultura in Italia: “La cultura rende ricco un Paese, anche economicamente. Non è vero che in Germania o in Austria si fa di più per la cultura perche’ sono più ricchi, e’ vero il contrario, sono più ricchi perche’ si fa di più per la cultura. Ricordo un esempio viennese al tempo del cancelliere Kreisky: si doveva decidere se costruire un pezzo di autostrada oppure se potenziare la nuova stagione operistica e teatrale. Scelsero Opera e Teatro, in Italia sarebbe avvenuto il contrario. Siamo un paese ricchissimo, e invece di valorizzare le nostre potenzialità ci perdiamo in beghe provinciali, in contrapposizioni assurde tra Nord e Sud”.
E’ difficile abbordare l’ argomento, ma Claudio Abbado sa sciogliere subito l'imbarazzo: i rapporti con Riccardo Muti, la rivalita’ vera o presunta con l’ altra grande stella della direzione d’ orchestra italiana. “La nostra rivalita’ ? Un'altra leggenda. L’ ultima volta che ci siamo visti è stato a Vienna a cena da amici e come sempre ci siamo fatti matte risate su questa menzogna, costruita dai media, dalle case discografiche: qualcuno aveva un accendino quella sera, con la sigla di una casa discografica; ecco, e’ stata la nostra battuta, qualcosa che funziona nelle case discografiche. E' un altro assurdo. Io trovo che Milano debba essere ben felice di avere un direttore come Muti alla Scala, ce ne fossero tanti altri bravi come Riccardo”.
Eppure anche le leggende attingono alla Storia. Notazione puramente personale: per quanti sforzi faccia nell’ accreditare un idillio con il direttore della Scala, Claudio Abbado non ci convince. Ma avete invitato Muti ai Berliner? “Certo. Ci sono gli “Amici dei Berliner” che vengono invitati molto democraticamente e vengono regolarmente: Zubin Mehta, Daniel Baremboim, Pierre Boulez, James Levine, Simon Rattle e Seiji Ozawa. Anche Riccardo e’ stato invitato. Fra l’ altro c’è l’ Europa Konzert diretto ogni anno da me o da un direttore ospite, ecco Riccardo e’ stato invitato proprio per questo concerto. L’ orchestra è andata a parlare con lui chiedendogli ovviamente di dirigerlo anche durante la stagione. Ma lui ha cancellato”. Tutto qui? “Io devo dire un’ altra cosa, che ho messo qui a Berlino un limite agli onorari, una cosa della quale mi sono tutti molto grati. E’ un tetto piu’ basso di ciò che ricevo altrove e che ho imposto a me stesso sul contratto con i Berliner insieme alla clausola che nessuno ricevesse piu’ di questo compenso”. Il discorso rimane sospeso. Bussano alla porta del camerino. E’ una giovane soprano, pronta per l’ audizione. Abbado deve congedarsi. Ma c'è un progetto, il progetto della sua vita? No, dice il maestro. E ci regala l'ultimo aneddoto: “Quando avevo sette anni ho sentito i Notturni di Debussy alla Scala diretti da Guarnieri, un’ esperienza magica. Da allora ho sempre pensato di realizzare questa musica. E un giorno l'ho fatta. Ecco, io vado avanti per sogni, che poi diventano idee, progetti. Uno dei miei sogni e’ il “Tristano”. Ma a me piace lavorare a lungo su una cosa, scavarla, maturarla, sul “Boris Godunov” per esempio ho lavorato vent’ anni”.
sabato 18 gennaio 2014
Vattimo barone testardo
Grillo: "Non candideremo Vattimo"
La Stampa, 17 gennaio 2014
Beppe Grillo dice no a Gianni Vattimo, il filosofo prestato alla politica che si è auto-proposto come candidato alle europee per il Movimento 5 Stelle. Parlamentare europeo eletto tra le liste dell’Italia dei Valori nel 2009, il filosofo ha detto di volersi iscrivere al M5s e partecipare alle prossime elezioni di maggio. Ma il leader dei Cinque Stelle lo frena: le regole del Movimento non consentono una sua candidatura perché esiste la rigidissima regola che vieta il doppio mandato.
«Gianni Vattimo non è candidato né candidabile alle elezioni europee con il M5S», scrive infatti di prima mattina su Twitter Beppe Grillo dopo aver sfogliato i giornali che rilanciavano la notizia dell’autocandidatura dell’eurodeputato che ha militato prima nel Partito Radicale, poi in Alleanza per Torino, successivamente nei Democratici di Sinistra, per i quali è stato parlamentare europeo, e nel Partito dei Comunisti Italiani.
Un’intenzione lanciata da Vattimo in un suo articolo, scritto in terza persona e pubblicato sul proprio blog. «Nel 2014 - ha scritto - avrebbe anche il diritto-dovere di pensionarsi, ma non ne ha voglia: ha ancora impegni politici, anzitutto la lotta No Tav». E siccome «il futuro dell’Idv in Italia sembra legato alla possibilità di ritornare nell’area Pd», cosa che a Vattimo non interessa, «l’unica via verosimile, provare con i Cinque Stelle, visto che sono l’alternativa ai due schieramenti di regime».
Il filosofo dichiara, sempre in terza persona, che «al Movimento si sente legato da simpatie e solidarietà NoTav», oltre che per l’opposizione professata al fiscal compact e alle politiche di austerità. Ottime ragioni, insomma, non solo per candidarsi ma per insistere sulle buone ragioni della sua offerta anche dopo il niet di Grillo. Intervistato oggi da Repubblica Tv il filosofo torinese spiega di aver parlato con Grillo qualche giorno fa: «Mi ha detto ok, purché mi sottomettessi alle regole. Nessuno dei due pensava in quel momento al limite dei due mandati», racconta. «Io credo che se c’è un vecchiardo come me, che ha una certa esperienza nell’europarlamento, a loro può fare comodo. Quindi la regola dei due mandati, come è stata istituita può anche essere violata. Tutta questa diffidenza per i vecchi politici riciclati va bene, però...».
La Stampa, 17 gennaio 2014
Beppe Grillo dice no a Gianni Vattimo, il filosofo prestato alla politica che si è auto-proposto come candidato alle europee per il Movimento 5 Stelle. Parlamentare europeo eletto tra le liste dell’Italia dei Valori nel 2009, il filosofo ha detto di volersi iscrivere al M5s e partecipare alle prossime elezioni di maggio. Ma il leader dei Cinque Stelle lo frena: le regole del Movimento non consentono una sua candidatura perché esiste la rigidissima regola che vieta il doppio mandato.
«Gianni Vattimo non è candidato né candidabile alle elezioni europee con il M5S», scrive infatti di prima mattina su Twitter Beppe Grillo dopo aver sfogliato i giornali che rilanciavano la notizia dell’autocandidatura dell’eurodeputato che ha militato prima nel Partito Radicale, poi in Alleanza per Torino, successivamente nei Democratici di Sinistra, per i quali è stato parlamentare europeo, e nel Partito dei Comunisti Italiani.
Un’intenzione lanciata da Vattimo in un suo articolo, scritto in terza persona e pubblicato sul proprio blog. «Nel 2014 - ha scritto - avrebbe anche il diritto-dovere di pensionarsi, ma non ne ha voglia: ha ancora impegni politici, anzitutto la lotta No Tav». E siccome «il futuro dell’Idv in Italia sembra legato alla possibilità di ritornare nell’area Pd», cosa che a Vattimo non interessa, «l’unica via verosimile, provare con i Cinque Stelle, visto che sono l’alternativa ai due schieramenti di regime».
Il filosofo dichiara, sempre in terza persona, che «al Movimento si sente legato da simpatie e solidarietà NoTav», oltre che per l’opposizione professata al fiscal compact e alle politiche di austerità. Ottime ragioni, insomma, non solo per candidarsi ma per insistere sulle buone ragioni della sua offerta anche dopo il niet di Grillo. Intervistato oggi da Repubblica Tv il filosofo torinese spiega di aver parlato con Grillo qualche giorno fa: «Mi ha detto ok, purché mi sottomettessi alle regole. Nessuno dei due pensava in quel momento al limite dei due mandati», racconta. «Io credo che se c’è un vecchiardo come me, che ha una certa esperienza nell’europarlamento, a loro può fare comodo. Quindi la regola dei due mandati, come è stata istituita può anche essere violata. Tutta questa diffidenza per i vecchi politici riciclati va bene, però...».
giovedì 16 gennaio 2014
Intervista a Karl Marx
Donald Sassoon
Intervista a Marx
“Io sarei il guru del socialismo? Mi hanno preso troppo sul serio”
Lo storico Donald Sassoon ha provato a contattare nell’aldilà l’autore del “Capitale”
Il risultato è uno sguardo sull’oggi: ironico, ma non solo
la Repubblica, 16 gennaio 2014
Intervista immaginaria con Karl Marx, di Donald Sassoon (Castelvecchi, trad. di Leonardo Clausi, pagg. 50 euro 6) è il libro da cui prendiamo alcuni brani
Allora, dottor Marx, lei è davvero messo in soffitta adesso, o no? Quindici anni fa le sue teorie dominavano mezzo mondo. Adesso cosa rimane? Cuba? La Corea del Nord?
«Le mie “teorie”, come le chiama lei, non hanno mai “dominato”. Ho avuto dei seguaci che non mi sono scelto o cercato, e per i quali ho meno responsabilità di quante ne abbiano Gesù per Torquemada o Maometto per Osama bin Laden. I seguaci che si nominano da soli sono il prezzo del successo. La maggior parte dei miei contemporanei ci metterebbe la firma per essere “in soffitta” come lei pensa io sia. Scrissi che la questione era non di spiegare il mondo, ma di cambiarlo. E quanti eminenti vittoriani hanno fatto altrettanto?».
Ok. Nessuno sottovaluta la sua fama. Ma su questo deve essere d’accordo: il marxismo non è più quello di un tempo…
«In realtà il mio lavoro non è mai stato importante come adesso. Negli ultimi cinquant’anni ha conquistato le università dei Paesi più avanzati del mondo. Storici, economisti, politologi e anche, con mia grande sorpresa, alcuni critici letterari si sono tutti dati alla concezione materialista. La storia più interessante prodotta attualmente in Europa e negli Stati Uniti è più “marxistica” che mai. Basta andare alle convention della American Social Science History Association, che io visito regolarmente da spettro. Lì si esamina attentamente l’interconnessione di strutture istituzionali e politiche e del mondo della produzione. Parlano tutti di classi, strutture, determinismo economico, rapporti di potere, oppressi e oppressori. E fanno tutti finta di avermi letto – unchiaro segno di successo».
Calma. Andiamo avanti. Devo chiederle questo: l’Unione Sovietica, i gulag, il terrore comunista.
«Me l’aspettavo. Devo ammettere di essere vanitoso come chiunque altro e che tutto questo culto della personalità e venerazione di Marx mi ha toccato. Mi solleticava il vedere la mia faccia sulle banconote della vecchia DDR e una Marxplatz in ogni città prussiana. Certo, grazie alle abilità di marketing di Engels, gli sforzi di Bernstein e di quel noiosone di Kautsky, subito dopo la mia morte divenni il grande guru del movimento socialista. Di conseguenza gli occidentalizzatori russi mi presero sul serio come l’elettricità. Così non mi sorpresi quando Lenin decise di trasformarmi nella Bibbia. Lenin era un politico intelligente con un buon istinto. Ma era anche un fondamentalista determinato a trovare nel mio lavoro la giustificazione per qualunque cosa volesse fare. Inventò il “marxismo” man mano che andava avanti. Questa detestabile abitudine, tipica delle religioni da tempo immemorabile, si sparse ovunque. Cominciai ad avere la sensazioneche anche le mie liste della spesa fossero arruolate al servizio di questa o quella fazione del movimento. Prenda il concetto di “dittatura del proletariato”. Era una formula che avevo escogitato per suggerire, seguendo l’antico uso dei Romani, un governo eccezionale in tempo di crisi. Avrò usato quest’espressione non più di una decina di volte in vita mia. Non le sto a dire la sorpresa quando la vidi riemergere come idea centrale del marxismo, usata per giustificare il regime a partito unico. Che posso dire? E fui abbastanza sorpreso quando la prima cosiddetta rivoluzione socialista, tra tutti i popoli, avvenne in un Paese così profondamente primitivo e governato da slavi. Quello che stavano facendo i bolscevichi era compiere la rivoluzione borghese che la borghesia russa era troppo esigua e stupida per compiere. I comunisti usarono lo Stato per creare un sistema industriale moderno. Se questa è “dittatura del proletariato”…».
E a proposito dei suoi primi scritti sull’alienazione? I manoscritti del 1844 erano famosi negli anni Sessanta. Vi si vedeva un’attinenza col mondo contemporaneo.
«Sciocchezze. La ragione per cui non li pubblicai era perché erano sproloqui irrilevanti. È ovvio che l’intellighenzia piccolo borghese disillusa ci sarebbe andata a nozze. Sono una perdita di tempo».
Dunque non pensa che il suo rapporto con Hegel…
«Oddio, Hegel! Le dirò un segreto. Non ho mai veramente letto se non nel modo più superficiale, la Fenomenologia dello spirito di Hegel o la sua Logica. La vita è troppo breve».
Che ne pensa del socialismo di oggi?
«È stato in coma per molto tempo. Ha raggiunto il suo scopo: civilizzare il capitalismo nella sua terra d’origine. Non gli si poteva chiedere di più. Adesso sista estinguendo serenamente. Anche il comunismo è crollato, ora che ha raggiunto il suo, di scopo: la costruzione del capitalismo. Lo hanno capito bene in Cina, dove si giocherà il prossimo secolo. In Russia, dove stiamo assistendo alla transizione da lumpen- comunismo a lumpen-capitalismo, è un altro discorso. Ma cosa vuole mai costruire con i russi? Uno deve leggere i loro romanzi, ascoltare la loro musica, ma per quel che riguarda un’economia solida…».
E Blair, la terza via?
«Davvero devo esprimermi su gente del genere? Dire che la storia li dimenticherà è troppo. Non se ne accorgerà nemmeno. E questo mostra quanto siete scesi in basso. Ai miei tempi ce la vedevamo con Bismarck, Lincoln, Gladstone e Disraeli… Veri nemici ».
E l’America?
«Mi sono sempre piaciuti gli yankee: niente feudalesimo,niente tradizioni imbelli. Un sacco di ipocrisia e religione, certo. Ma escono in qualche modo più forti da ogni crisi capitalista. Un fantastico sistema di governo: democrazia truccata, elezioni truccate, sistema politico truccato, circondato da impostori e gretti avvocati. Questo consente al business di svolgere il proprio compito, comprare i candidati, una tangente qui, una tangente là. La gente non è coinvolta. La metà se ne frega di votare. Per l’altra metà la politica è un innocuo divertimento, come guardare Chi vuole essere milionario?».
E lei? Come passa il tempo?
«Io? Mi diverto. Con Friedrich giochiamo su internet. Lo sapeva che “Karl Marx” dà più di quattro milioni di risultati su Google? Abbiamo entrambi molti amici su Facebook e molti che ci seguono su Twitter».
Traduzione di Leonardo Clausi
Intervista a Marx
“Io sarei il guru del socialismo? Mi hanno preso troppo sul serio”
Lo storico Donald Sassoon ha provato a contattare nell’aldilà l’autore del “Capitale”
Il risultato è uno sguardo sull’oggi: ironico, ma non solo
la Repubblica, 16 gennaio 2014
Intervista immaginaria con Karl Marx, di Donald Sassoon (Castelvecchi, trad. di Leonardo Clausi, pagg. 50 euro 6) è il libro da cui prendiamo alcuni brani
Allora, dottor Marx, lei è davvero messo in soffitta adesso, o no? Quindici anni fa le sue teorie dominavano mezzo mondo. Adesso cosa rimane? Cuba? La Corea del Nord?
«Le mie “teorie”, come le chiama lei, non hanno mai “dominato”. Ho avuto dei seguaci che non mi sono scelto o cercato, e per i quali ho meno responsabilità di quante ne abbiano Gesù per Torquemada o Maometto per Osama bin Laden. I seguaci che si nominano da soli sono il prezzo del successo. La maggior parte dei miei contemporanei ci metterebbe la firma per essere “in soffitta” come lei pensa io sia. Scrissi che la questione era non di spiegare il mondo, ma di cambiarlo. E quanti eminenti vittoriani hanno fatto altrettanto?».
Ok. Nessuno sottovaluta la sua fama. Ma su questo deve essere d’accordo: il marxismo non è più quello di un tempo…
«In realtà il mio lavoro non è mai stato importante come adesso. Negli ultimi cinquant’anni ha conquistato le università dei Paesi più avanzati del mondo. Storici, economisti, politologi e anche, con mia grande sorpresa, alcuni critici letterari si sono tutti dati alla concezione materialista. La storia più interessante prodotta attualmente in Europa e negli Stati Uniti è più “marxistica” che mai. Basta andare alle convention della American Social Science History Association, che io visito regolarmente da spettro. Lì si esamina attentamente l’interconnessione di strutture istituzionali e politiche e del mondo della produzione. Parlano tutti di classi, strutture, determinismo economico, rapporti di potere, oppressi e oppressori. E fanno tutti finta di avermi letto – unchiaro segno di successo».
Calma. Andiamo avanti. Devo chiederle questo: l’Unione Sovietica, i gulag, il terrore comunista.
«Me l’aspettavo. Devo ammettere di essere vanitoso come chiunque altro e che tutto questo culto della personalità e venerazione di Marx mi ha toccato. Mi solleticava il vedere la mia faccia sulle banconote della vecchia DDR e una Marxplatz in ogni città prussiana. Certo, grazie alle abilità di marketing di Engels, gli sforzi di Bernstein e di quel noiosone di Kautsky, subito dopo la mia morte divenni il grande guru del movimento socialista. Di conseguenza gli occidentalizzatori russi mi presero sul serio come l’elettricità. Così non mi sorpresi quando Lenin decise di trasformarmi nella Bibbia. Lenin era un politico intelligente con un buon istinto. Ma era anche un fondamentalista determinato a trovare nel mio lavoro la giustificazione per qualunque cosa volesse fare. Inventò il “marxismo” man mano che andava avanti. Questa detestabile abitudine, tipica delle religioni da tempo immemorabile, si sparse ovunque. Cominciai ad avere la sensazioneche anche le mie liste della spesa fossero arruolate al servizio di questa o quella fazione del movimento. Prenda il concetto di “dittatura del proletariato”. Era una formula che avevo escogitato per suggerire, seguendo l’antico uso dei Romani, un governo eccezionale in tempo di crisi. Avrò usato quest’espressione non più di una decina di volte in vita mia. Non le sto a dire la sorpresa quando la vidi riemergere come idea centrale del marxismo, usata per giustificare il regime a partito unico. Che posso dire? E fui abbastanza sorpreso quando la prima cosiddetta rivoluzione socialista, tra tutti i popoli, avvenne in un Paese così profondamente primitivo e governato da slavi. Quello che stavano facendo i bolscevichi era compiere la rivoluzione borghese che la borghesia russa era troppo esigua e stupida per compiere. I comunisti usarono lo Stato per creare un sistema industriale moderno. Se questa è “dittatura del proletariato”…».
E a proposito dei suoi primi scritti sull’alienazione? I manoscritti del 1844 erano famosi negli anni Sessanta. Vi si vedeva un’attinenza col mondo contemporaneo.
«Sciocchezze. La ragione per cui non li pubblicai era perché erano sproloqui irrilevanti. È ovvio che l’intellighenzia piccolo borghese disillusa ci sarebbe andata a nozze. Sono una perdita di tempo».
Dunque non pensa che il suo rapporto con Hegel…
«Oddio, Hegel! Le dirò un segreto. Non ho mai veramente letto se non nel modo più superficiale, la Fenomenologia dello spirito di Hegel o la sua Logica. La vita è troppo breve».
Che ne pensa del socialismo di oggi?
«È stato in coma per molto tempo. Ha raggiunto il suo scopo: civilizzare il capitalismo nella sua terra d’origine. Non gli si poteva chiedere di più. Adesso sista estinguendo serenamente. Anche il comunismo è crollato, ora che ha raggiunto il suo, di scopo: la costruzione del capitalismo. Lo hanno capito bene in Cina, dove si giocherà il prossimo secolo. In Russia, dove stiamo assistendo alla transizione da lumpen- comunismo a lumpen-capitalismo, è un altro discorso. Ma cosa vuole mai costruire con i russi? Uno deve leggere i loro romanzi, ascoltare la loro musica, ma per quel che riguarda un’economia solida…».
E Blair, la terza via?
«Davvero devo esprimermi su gente del genere? Dire che la storia li dimenticherà è troppo. Non se ne accorgerà nemmeno. E questo mostra quanto siete scesi in basso. Ai miei tempi ce la vedevamo con Bismarck, Lincoln, Gladstone e Disraeli… Veri nemici ».
E l’America?
«Mi sono sempre piaciuti gli yankee: niente feudalesimo,niente tradizioni imbelli. Un sacco di ipocrisia e religione, certo. Ma escono in qualche modo più forti da ogni crisi capitalista. Un fantastico sistema di governo: democrazia truccata, elezioni truccate, sistema politico truccato, circondato da impostori e gretti avvocati. Questo consente al business di svolgere il proprio compito, comprare i candidati, una tangente qui, una tangente là. La gente non è coinvolta. La metà se ne frega di votare. Per l’altra metà la politica è un innocuo divertimento, come guardare Chi vuole essere milionario?».
E lei? Come passa il tempo?
«Io? Mi diverto. Con Friedrich giochiamo su internet. Lo sapeva che “Karl Marx” dà più di quattro milioni di risultati su Google? Abbiamo entrambi molti amici su Facebook e molti che ci seguono su Twitter».
Traduzione di Leonardo Clausi
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martedì 14 gennaio 2014
Un coltello con due lame
Michele Ainis
Schiaffo ai partiti
Corriere della Sera, 14 gennaio 2014
Le carte, a questo punto, stanno tutte lì sul tavolo. Adesso tocca ai giocatori, dunque alla politica. Perché la Consulta ha messo nero su bianco le sue motivazioni, e senza risparmiare sull’inchiostro: 26 pagine. Una sentenza che ne richiama altre cento (perfino del Tribunale costituzionale tedesco), che insomma cerca d’appoggiarsi ai precedenti, pur essendo una decisione senza precedenti. Ma in ultimo la costruzione è persuasiva: non c’è più il Porcellum, pace all’anima sua. Non c’è però alcun vuoto normativo, giacché residua un sistema elettorale pronto all’uso. E tale sistema è finalmente in armonia con la Costituzione, benché il Parlamento possa modificarlo anche domani.
Quale? Un proporzionale con voto di preferenza. Questa sentenza è infatti un coltello con due lame: la prima recide il ramo da cui pendeva il premio di maggioranza senza soglia; la seconda intaglia il ramo delle liste bloccate, scolpendovi lo spazio per esprimere un voto, almeno uno. Sicché gli elettori recuperano la voce, però diventa afona la voce dei partiti. D’altronde, fin qui, avevano urlato pure troppo. C’è un passaggio, al punto 5 della motivazione, dove questi ultimi vengono apostrofati senza troppi giri di parole: «I partiti non possono sostituirsi al corpo elettorale», non possono espropriarne il voto attraverso lenzuolate di cognomi su cui è vietato apporre una crocetta, e infine sono gli elettori - non i partiti - a rivestire «attribuzioni costituzionali».
Una sonora bocciatura del passato, ma anche una lezione per il futuro. Significa che gli elettori vanno rispettati, perché la sovranità appartiene al popolo, non alle segreterie politiche. E significa, al contempo, che le esigenze della governabilità non devono andare a scapito della rappresentatività del Parlamento. Ne tengano conto, gli architetti del prossimo sistema. Poi, certo, il filo che collega il popolo votante al popolo votato si può annodare in varia guisa. Anche con le liste bloccate «corte», tipiche del modello spagnolo, sulle quali la Consulta accende il verde del semaforo. O con un maggioritario, che tuttavia non forzi oltre misura il principio dell’eguaglianza del voto, evocato a più riprese in questa decisione.
La correzione, dunque, tocca al Parlamento. E il Parlamento non ha affatto perso la sua legittimazione, come si disse a vanvera dopo la stroncatura del Porcellum . Anche su questo punto la sentenza usa parole chiare: c’è un principio di continuità degli organi costituzionali, sicché restano validi gli atti già compiuti, saranno validi quelli successivi. A cominciare, per l’appunto, dalla nuova legge elettorale. Sempre che il Parlamento sappia scriverla, sempre che non rimanga ostaggio dei veti incrociati. Perché allora sì, perderebbe ogni legittimazione.
Schiaffo ai partiti
Corriere della Sera, 14 gennaio 2014
Le carte, a questo punto, stanno tutte lì sul tavolo. Adesso tocca ai giocatori, dunque alla politica. Perché la Consulta ha messo nero su bianco le sue motivazioni, e senza risparmiare sull’inchiostro: 26 pagine. Una sentenza che ne richiama altre cento (perfino del Tribunale costituzionale tedesco), che insomma cerca d’appoggiarsi ai precedenti, pur essendo una decisione senza precedenti. Ma in ultimo la costruzione è persuasiva: non c’è più il Porcellum, pace all’anima sua. Non c’è però alcun vuoto normativo, giacché residua un sistema elettorale pronto all’uso. E tale sistema è finalmente in armonia con la Costituzione, benché il Parlamento possa modificarlo anche domani.
Quale? Un proporzionale con voto di preferenza. Questa sentenza è infatti un coltello con due lame: la prima recide il ramo da cui pendeva il premio di maggioranza senza soglia; la seconda intaglia il ramo delle liste bloccate, scolpendovi lo spazio per esprimere un voto, almeno uno. Sicché gli elettori recuperano la voce, però diventa afona la voce dei partiti. D’altronde, fin qui, avevano urlato pure troppo. C’è un passaggio, al punto 5 della motivazione, dove questi ultimi vengono apostrofati senza troppi giri di parole: «I partiti non possono sostituirsi al corpo elettorale», non possono espropriarne il voto attraverso lenzuolate di cognomi su cui è vietato apporre una crocetta, e infine sono gli elettori - non i partiti - a rivestire «attribuzioni costituzionali».
Una sonora bocciatura del passato, ma anche una lezione per il futuro. Significa che gli elettori vanno rispettati, perché la sovranità appartiene al popolo, non alle segreterie politiche. E significa, al contempo, che le esigenze della governabilità non devono andare a scapito della rappresentatività del Parlamento. Ne tengano conto, gli architetti del prossimo sistema. Poi, certo, il filo che collega il popolo votante al popolo votato si può annodare in varia guisa. Anche con le liste bloccate «corte», tipiche del modello spagnolo, sulle quali la Consulta accende il verde del semaforo. O con un maggioritario, che tuttavia non forzi oltre misura il principio dell’eguaglianza del voto, evocato a più riprese in questa decisione.
La correzione, dunque, tocca al Parlamento. E il Parlamento non ha affatto perso la sua legittimazione, come si disse a vanvera dopo la stroncatura del Porcellum . Anche su questo punto la sentenza usa parole chiare: c’è un principio di continuità degli organi costituzionali, sicché restano validi gli atti già compiuti, saranno validi quelli successivi. A cominciare, per l’appunto, dalla nuova legge elettorale. Sempre che il Parlamento sappia scriverla, sempre che non rimanga ostaggio dei veti incrociati. Perché allora sì, perderebbe ogni legittimazione.
domenica 12 gennaio 2014
Mauro Calise, Renzi e il problema del capo
Intervista con Mauro Calise di Alessandro Lanni
Renzi è un leone tra le volpi
e la personalizzazione non è populismo
Reset, 18 novembre 2013
Non solo il rifiuto cieco di quello che è ormai un dato ovvero la personalizzazione della politica, ma anche l’incapacità di evitare l’affermazione di una miriade di capi e capetti nel Pd (qualcuno anni fa li chiamò “cacicchi”) con il loro piccolo o grande potere locale, con la loro corrente personale, che stanno distruggendo il Partito democratico. Il duplice atto d’accusa che Mauro Calise muove nei confronti del Pd è lucido, netto e senza appello, almeno per una classe dirigente che nel complesso ha portato al naufragio delle Politiche del febbraio 2013 e dell’elezione del presidente della Repubblica.
Il funesto anno che si sta concludendo per il Pd sarà ricordato come quello della “non vittoria” della Ditta Bersani e dei 101 che hanno affossato Prodi, ma forse anche come l’anno in cui al soglio del Nazareno è asceso il giovane e rampante sindaco di Firenze. «Per ora Matteo Renzi – confessa Calise – mi sembra coraggioso, un leone tra le volpi. Però è più bravo che autentico e ancora deve fugare i dubbi sulla capacità di andare in profondità nella politica».
Col volumetto Fuorigioco (Laterza 2013) lo studioso napoletano prosegue la sua analisi dell’Italia politica aggiornando e approfondendo spunti dei precedenti Terza repubblica e Il partito personale (entrambi Laterza).
In Fuorigioco afferma che “una leadership forte è l’antidoto al partito personale”. Spieghi perché non è una contraddizione.
La personalizzazione è un tratto dominante della nostra epoca. Dal tessuto sociale a quello politico, passando per la sfera comunicativa che ne è il principale ambiente e moltiplicatore. Si tratta del fenomeno più macroscopico delle società contemporanee, piaccia o non piaccia. A me, ad esempio, piace poco ma cerco di evitare che questo giudizio infici la mia analisi. Una leadership forte contribuisce a legittimare il partito, se da questo non viene combattuta. È quello che si è visto in Inghilterra con Blair o in Germania con la Merkel.
E perché da noi non funziona?
È un processo che si consolida se trova uno sbocco istituzionale adeguato, a livello di premiership o presidenza. Leader forte, più partito coeso, più istituzione monocratica: è questo il circolo virtuoso che può arginare la degenerazione della personalizzazione, imbrigliarla in un circuito pubblico di legittimazione. Altrimenti la personalizzazione imbocca la scorciatoia della privatizzazione: il partito come proprietà personale del leader. In senso stretto, come con Berlusconi, o più mediato, come abbiamo visto con Di Pietro, Monti, Grillo. Tutte modalità diverse di personalizzazione del partito, ma accomunate dallo stesso destino: la fine del partito come organismo collegiale. E su questo insisto: nella nostra epoca, il partito come organismo unitario può sopravvivere solo grazie al riconoscimento di un capo. Si tratta di una verità anticipata, con la proverbiale lucidità, da Gramsci un secolo fa e chissà se i macro o micronotabili del Pd l’hanno letta… La riprendo da un bellissimo libro di Fabio Bordignon (Il partito del capo. Da Berlusconi a Renzi, in uscita in questi giorni per Apogeo/Maggioli): «Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un “capo”».
ll Pd di Bersani è stato ostinatamente contrario alla personalizzazione. Ha formulato questa avversità anche attraverso gli slogan e le frequenti dichiarazioni del segretario. Tuttavia al di là delle colpe della leadership, la linea Bersani è stata scelta alle primarie da un popolo che in fondo, culturalmente si identifica con quell’idea di partito e di collegialità ed è contro l’apparente “irrazionalismo” della leadership carismatica. Insomma, è colpa di Bersani ma anche di una parte consistente della gente di sinistra (non so se su questo sei d’accordo). Come convincere (ammesso che vada fatto) questa ampia parte di sinistra? È sufficiente dire nell’altro modo si vince?
Non sorprende che una parte consistente della sinistra condivida l’ideologia collettivista della leadership. Era alla radice del Pci e del Pd. E visto che l’elettorato Pd – come mostrano i dati di Ilvo Diamanti – è composto prevalentemente da pensionati e lavoratori del pubblico impiego, quelle radici esistono ancora. Si tratta di un dato fisiologico, che non giudico negativamente. Il problema nasce dalla contrapposizione che viene fatta tra quella concezione e una leadership personale e autorevole. Ai tempi del Pci, questo non avveniva: Togliatti o Berlinguer sono stati leader ultracarismatici, ma questo non è entrato in collisione con la forza del partito come attore unitario. Oggi invece, soprattutto con la restaurazione fallimentare portata avanti dai bersaniani, si è cercato di fare leva su uno scontro tra i due principi. Uno scontro che non ha nascosto la dura realtà, anzi la ha fatta esplodere: nel Pd la direzione collegiale non esiste più, esistono invece diciannove correnti. Ma non esiste ancora una leadership autorevole, che è un requisito di responsabilità e trasparenza in tutte le democrazie contemporanee.
Nel libro parla anche di un “virus letale” quello del microvoto, delle correnti anche locali guidate da “micronotabili”. Il congresso in corso sembra dire che il Pd non ha appreso la lezione e che nessuno è immune da questo male.
Si, il libro ha due focus, distinti e convergenti, il «doppio errore» del Pd. Il primo, su cui ci siamo soffermati finora e su cui si concentra buona parte del dibattito politico, è l’ostilità dell’oligarchia bersaniana nei confronti di una leadership autorevole. Col risultato della sconfitta elettorale e la spaccatura al vertice che è oggi sotto i nostri occhi. Ma il dato, forse, ancora più preoccupante è che accendendo i riflettori sulla lotta al macroleader si è finto di non vedere che il partito, nelle retrovie, si stava spappolando. E che, invece della Ditta propagandata, c’erano diciannove correnti, pullulanti di micronotabili in lotta fratricida tra di loro. Ed è da questo pantano che, chiunque sia il vincitore delle primarie, difficilmente il Pd riuscirà a districarsi.
“Personalizzazione” è un termine che viene spesso usato come sinonimo di populismo.
Sul piano storico è un’idiozia. Le origini del fenomeno, nell’America di fine Ottocento come nella Russia pre-sovietica, fa riferimento alla comparsa di attori e valori popolari, comunitari sulla scena politica, attori e valori che insidiavano i meccanismi tradizionali della rappresentanza parlamentare. Oggi, il populismo si ripresenta soprattutto come fenomeno mediatico, ondate di protesta che vengono spesso – ma non sempre e necessariamente – catalizzate e organizzate da leader particolarmente abili nello sfruttare vecchi e nuovi media: vedi Berlusconi e Grillo. Il capostipite del media populism televisivo è Ross Perot, da cui Berlusconi prende moltissimo. Chapeau – intellettuale, non certo politico – al duo Grillo-Casaleggio per avere inventato la variante web. Anche in questo caso, il migliore antidoto è ancorare la leadership al partito, evitare che cresca, si riproduca e – prima o poi – si sgonfi solo attraverso il circuito mediatico.
Però c’è una parte di sinistra e anche al vertice del Pd che giudica Renzi populista. Che ne pensi di questa accusa?
Al momento, mi sembra un’accusa pregiudiziale, infondata. Certo, se il partito continua a metterlo alla gogna, e alla porta, prima o poi è possibile che Renzi finisca per imboccare la scorciatoia populista.
Quali sono pregi e difetti di Renzi macroleader?
Il pregio maggiore è il coraggio. Paretianamente, un leone in un establishment di volpi. Una dote di cui pochi leader hanno dato prova: oltre, ovviamente, a Berlusconi, ricordo il primo Bassolino, quello che lasciò la poltrona sicurissima che aveva a Roma per buttarsi nell’avventura delle elezioni a sindaco di Napoli. Tra i difetti di Renzi c’è la profondità, che ancora non dimostra di avere sui temi più complessi (su questo, ad esempio, Gianni Cuperlo, dimostra più spessore e professionalità); e l’umanità: appare molto più bravo che vero. Ma questo forse nasce anche dalla tensione enorme cui è sottoposto, ininterrottamente sulla breccia e sotto i riflettori da oltre un anno. Se qualche volta parlasse meno in fretta, una pausa in più, una smorfia del viso. Qualcosa che trasmettesse il messaggio che la politica è anche sofferenza, il tarlo del dubbio ogni volta che butti il cuore oltre la siepe. Questa, ad esempio, era la forza di Veltroni.
Ricordo la ricostruzione che lei fece (fin dalla prima edizione del Partito personale, nel 2000) della rivoluzione di Blair nel Labour e di come mise in piedi una squadra di fedelissimi di grosso calibro che trasformarono il partito. Crede che Renzi possa riuscire a compiere lo stesso percorso? Renzi ha messo in piedi una squadra adeguata?
Non lo so. Non ho contatti o informazioni di prima mano su questo punto. Alcuni dicono che sarebbe il suo vero tallone d’Achille. Certo, il nodo che solleva è cruciale. Senza un’adeguata organizzazione, ogni leadership diventa rapidamente effimera. E qui il bivio di fronte a Renzi è molto netto. Se i toni dello scontro nel Pd continuano a indurirsi, e se davvero si dovesse andare incontro a una spaccatura – come recentemente D’Alema ha paventato – il sindaco potrebbe avventurarsi anche lui sul sentiero solitario del partito personale. Ma sarebbe un ripiego, e molto a rischio. Finora, il capostipite Berlusconi è stato eccezionale, nel doppio senso del termine: straordinariamente abile e senza repliche di pari portata. E la differenza l’ha fatta l’organizzazione, non la comunicazione. È bene ricordare che il Cavaliere scese in campo portandosi dietro, oltre ai soldi, tre canali televisivi e due aziende – con relativi “yesmen” – di caratura nazionale e radicatissime sul territorio.
L’unico imitatore di successo, per scala del fenomeno, è stato Grillo, col suo partito superpersonale cybercratico che ha messo insieme un quarto dell’elettorato. Ma si tratta di un’esperienza ancora allo stato nascente, non sappiamo – neanche Grillo – quanto durerà. Ma già al suo interno si registrano spaccature importanti, e proprio sulla giuntura più critica: il raccordo tra il centro telematico e la periferia di attivisti civici. Quanto agli altri cloni del Cavaliere, si è trattato di partitini personali, di piccolo peso e/o di breve durata. Dalle filiazioni di Dini e Prodi, nate dalla loro permanenza a Palazzo Chigi, alle formazioni parafamiliari di Di Pietro e Mastella, fino al più recente clamoroso flop di Scelta civica, l’esempio forse più eclatante dell’attrazione fatale che il biopartitismo esercita sul nostro ceto politico, anche nei suoi rappresentanti migliori. Farsi corpo politico, autoriprodursi per partenogenesi. Per accorgersi poi, rapidamente, che lo specchio di Narciso, in realtà, è un pozzo buio.
E Renzi è destinato a seguire questa strada?
Mi auguro che Renzi non cada in questa trappola. Se lo fanno fuori, se cercano di mandarlo in fuorigioco, si faccia da parte, non si faccia in quattro. È giovane, la notte della repubblica sarà lunga. Il futuro – come direbbe Weber – tornerà a bussare alla sua porta.
Renzi è un leone tra le volpi
e la personalizzazione non è populismo
Reset, 18 novembre 2013
Non solo il rifiuto cieco di quello che è ormai un dato ovvero la personalizzazione della politica, ma anche l’incapacità di evitare l’affermazione di una miriade di capi e capetti nel Pd (qualcuno anni fa li chiamò “cacicchi”) con il loro piccolo o grande potere locale, con la loro corrente personale, che stanno distruggendo il Partito democratico. Il duplice atto d’accusa che Mauro Calise muove nei confronti del Pd è lucido, netto e senza appello, almeno per una classe dirigente che nel complesso ha portato al naufragio delle Politiche del febbraio 2013 e dell’elezione del presidente della Repubblica.
Il funesto anno che si sta concludendo per il Pd sarà ricordato come quello della “non vittoria” della Ditta Bersani e dei 101 che hanno affossato Prodi, ma forse anche come l’anno in cui al soglio del Nazareno è asceso il giovane e rampante sindaco di Firenze. «Per ora Matteo Renzi – confessa Calise – mi sembra coraggioso, un leone tra le volpi. Però è più bravo che autentico e ancora deve fugare i dubbi sulla capacità di andare in profondità nella politica».
Col volumetto Fuorigioco (Laterza 2013) lo studioso napoletano prosegue la sua analisi dell’Italia politica aggiornando e approfondendo spunti dei precedenti Terza repubblica e Il partito personale (entrambi Laterza).
In Fuorigioco afferma che “una leadership forte è l’antidoto al partito personale”. Spieghi perché non è una contraddizione.
La personalizzazione è un tratto dominante della nostra epoca. Dal tessuto sociale a quello politico, passando per la sfera comunicativa che ne è il principale ambiente e moltiplicatore. Si tratta del fenomeno più macroscopico delle società contemporanee, piaccia o non piaccia. A me, ad esempio, piace poco ma cerco di evitare che questo giudizio infici la mia analisi. Una leadership forte contribuisce a legittimare il partito, se da questo non viene combattuta. È quello che si è visto in Inghilterra con Blair o in Germania con la Merkel.
E perché da noi non funziona?
È un processo che si consolida se trova uno sbocco istituzionale adeguato, a livello di premiership o presidenza. Leader forte, più partito coeso, più istituzione monocratica: è questo il circolo virtuoso che può arginare la degenerazione della personalizzazione, imbrigliarla in un circuito pubblico di legittimazione. Altrimenti la personalizzazione imbocca la scorciatoia della privatizzazione: il partito come proprietà personale del leader. In senso stretto, come con Berlusconi, o più mediato, come abbiamo visto con Di Pietro, Monti, Grillo. Tutte modalità diverse di personalizzazione del partito, ma accomunate dallo stesso destino: la fine del partito come organismo collegiale. E su questo insisto: nella nostra epoca, il partito come organismo unitario può sopravvivere solo grazie al riconoscimento di un capo. Si tratta di una verità anticipata, con la proverbiale lucidità, da Gramsci un secolo fa e chissà se i macro o micronotabili del Pd l’hanno letta… La riprendo da un bellissimo libro di Fabio Bordignon (Il partito del capo. Da Berlusconi a Renzi, in uscita in questi giorni per Apogeo/Maggioli): «Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un “capo”».
ll Pd di Bersani è stato ostinatamente contrario alla personalizzazione. Ha formulato questa avversità anche attraverso gli slogan e le frequenti dichiarazioni del segretario. Tuttavia al di là delle colpe della leadership, la linea Bersani è stata scelta alle primarie da un popolo che in fondo, culturalmente si identifica con quell’idea di partito e di collegialità ed è contro l’apparente “irrazionalismo” della leadership carismatica. Insomma, è colpa di Bersani ma anche di una parte consistente della gente di sinistra (non so se su questo sei d’accordo). Come convincere (ammesso che vada fatto) questa ampia parte di sinistra? È sufficiente dire nell’altro modo si vince?
Non sorprende che una parte consistente della sinistra condivida l’ideologia collettivista della leadership. Era alla radice del Pci e del Pd. E visto che l’elettorato Pd – come mostrano i dati di Ilvo Diamanti – è composto prevalentemente da pensionati e lavoratori del pubblico impiego, quelle radici esistono ancora. Si tratta di un dato fisiologico, che non giudico negativamente. Il problema nasce dalla contrapposizione che viene fatta tra quella concezione e una leadership personale e autorevole. Ai tempi del Pci, questo non avveniva: Togliatti o Berlinguer sono stati leader ultracarismatici, ma questo non è entrato in collisione con la forza del partito come attore unitario. Oggi invece, soprattutto con la restaurazione fallimentare portata avanti dai bersaniani, si è cercato di fare leva su uno scontro tra i due principi. Uno scontro che non ha nascosto la dura realtà, anzi la ha fatta esplodere: nel Pd la direzione collegiale non esiste più, esistono invece diciannove correnti. Ma non esiste ancora una leadership autorevole, che è un requisito di responsabilità e trasparenza in tutte le democrazie contemporanee.
Nel libro parla anche di un “virus letale” quello del microvoto, delle correnti anche locali guidate da “micronotabili”. Il congresso in corso sembra dire che il Pd non ha appreso la lezione e che nessuno è immune da questo male.
Si, il libro ha due focus, distinti e convergenti, il «doppio errore» del Pd. Il primo, su cui ci siamo soffermati finora e su cui si concentra buona parte del dibattito politico, è l’ostilità dell’oligarchia bersaniana nei confronti di una leadership autorevole. Col risultato della sconfitta elettorale e la spaccatura al vertice che è oggi sotto i nostri occhi. Ma il dato, forse, ancora più preoccupante è che accendendo i riflettori sulla lotta al macroleader si è finto di non vedere che il partito, nelle retrovie, si stava spappolando. E che, invece della Ditta propagandata, c’erano diciannove correnti, pullulanti di micronotabili in lotta fratricida tra di loro. Ed è da questo pantano che, chiunque sia il vincitore delle primarie, difficilmente il Pd riuscirà a districarsi.
“Personalizzazione” è un termine che viene spesso usato come sinonimo di populismo.
Sul piano storico è un’idiozia. Le origini del fenomeno, nell’America di fine Ottocento come nella Russia pre-sovietica, fa riferimento alla comparsa di attori e valori popolari, comunitari sulla scena politica, attori e valori che insidiavano i meccanismi tradizionali della rappresentanza parlamentare. Oggi, il populismo si ripresenta soprattutto come fenomeno mediatico, ondate di protesta che vengono spesso – ma non sempre e necessariamente – catalizzate e organizzate da leader particolarmente abili nello sfruttare vecchi e nuovi media: vedi Berlusconi e Grillo. Il capostipite del media populism televisivo è Ross Perot, da cui Berlusconi prende moltissimo. Chapeau – intellettuale, non certo politico – al duo Grillo-Casaleggio per avere inventato la variante web. Anche in questo caso, il migliore antidoto è ancorare la leadership al partito, evitare che cresca, si riproduca e – prima o poi – si sgonfi solo attraverso il circuito mediatico.
Però c’è una parte di sinistra e anche al vertice del Pd che giudica Renzi populista. Che ne pensi di questa accusa?
Al momento, mi sembra un’accusa pregiudiziale, infondata. Certo, se il partito continua a metterlo alla gogna, e alla porta, prima o poi è possibile che Renzi finisca per imboccare la scorciatoia populista.
Quali sono pregi e difetti di Renzi macroleader?
Il pregio maggiore è il coraggio. Paretianamente, un leone in un establishment di volpi. Una dote di cui pochi leader hanno dato prova: oltre, ovviamente, a Berlusconi, ricordo il primo Bassolino, quello che lasciò la poltrona sicurissima che aveva a Roma per buttarsi nell’avventura delle elezioni a sindaco di Napoli. Tra i difetti di Renzi c’è la profondità, che ancora non dimostra di avere sui temi più complessi (su questo, ad esempio, Gianni Cuperlo, dimostra più spessore e professionalità); e l’umanità: appare molto più bravo che vero. Ma questo forse nasce anche dalla tensione enorme cui è sottoposto, ininterrottamente sulla breccia e sotto i riflettori da oltre un anno. Se qualche volta parlasse meno in fretta, una pausa in più, una smorfia del viso. Qualcosa che trasmettesse il messaggio che la politica è anche sofferenza, il tarlo del dubbio ogni volta che butti il cuore oltre la siepe. Questa, ad esempio, era la forza di Veltroni.
Ricordo la ricostruzione che lei fece (fin dalla prima edizione del Partito personale, nel 2000) della rivoluzione di Blair nel Labour e di come mise in piedi una squadra di fedelissimi di grosso calibro che trasformarono il partito. Crede che Renzi possa riuscire a compiere lo stesso percorso? Renzi ha messo in piedi una squadra adeguata?
Non lo so. Non ho contatti o informazioni di prima mano su questo punto. Alcuni dicono che sarebbe il suo vero tallone d’Achille. Certo, il nodo che solleva è cruciale. Senza un’adeguata organizzazione, ogni leadership diventa rapidamente effimera. E qui il bivio di fronte a Renzi è molto netto. Se i toni dello scontro nel Pd continuano a indurirsi, e se davvero si dovesse andare incontro a una spaccatura – come recentemente D’Alema ha paventato – il sindaco potrebbe avventurarsi anche lui sul sentiero solitario del partito personale. Ma sarebbe un ripiego, e molto a rischio. Finora, il capostipite Berlusconi è stato eccezionale, nel doppio senso del termine: straordinariamente abile e senza repliche di pari portata. E la differenza l’ha fatta l’organizzazione, non la comunicazione. È bene ricordare che il Cavaliere scese in campo portandosi dietro, oltre ai soldi, tre canali televisivi e due aziende – con relativi “yesmen” – di caratura nazionale e radicatissime sul territorio.
L’unico imitatore di successo, per scala del fenomeno, è stato Grillo, col suo partito superpersonale cybercratico che ha messo insieme un quarto dell’elettorato. Ma si tratta di un’esperienza ancora allo stato nascente, non sappiamo – neanche Grillo – quanto durerà. Ma già al suo interno si registrano spaccature importanti, e proprio sulla giuntura più critica: il raccordo tra il centro telematico e la periferia di attivisti civici. Quanto agli altri cloni del Cavaliere, si è trattato di partitini personali, di piccolo peso e/o di breve durata. Dalle filiazioni di Dini e Prodi, nate dalla loro permanenza a Palazzo Chigi, alle formazioni parafamiliari di Di Pietro e Mastella, fino al più recente clamoroso flop di Scelta civica, l’esempio forse più eclatante dell’attrazione fatale che il biopartitismo esercita sul nostro ceto politico, anche nei suoi rappresentanti migliori. Farsi corpo politico, autoriprodursi per partenogenesi. Per accorgersi poi, rapidamente, che lo specchio di Narciso, in realtà, è un pozzo buio.
E Renzi è destinato a seguire questa strada?
Mi auguro che Renzi non cada in questa trappola. Se lo fanno fuori, se cercano di mandarlo in fuorigioco, si faccia da parte, non si faccia in quattro. È giovane, la notte della repubblica sarà lunga. Il futuro – come direbbe Weber – tornerà a bussare alla sua porta.
sabato 11 gennaio 2014
La sconfitta del terrorismo rosso
Gian Carlo Caselli
Il pentito storico
“Roby il pazzo” che annientò Prima Linea
Il Fatto, 10 gennaio 2014
La notizia delle morte di Roberto Sandalo riporta alla memoria la sconfitta del terrorismo “rosso”, iniziata nel 1980 quando – tra le giostre di piazza Vittorio – finisce in manette Patrizio Peci, capo della colonna torinese delle Brigate Rosse. Con le sue rivelazioni, Peci consente di individuare i responsabili di tutti gli omicidi, gambizzazioni”, rapine e sequestri commessi a Torino (e non solo) dalla sua banda. Innesca inoltre una reazione a catena che porta ad un’infinità di altri pentimenti, determinando il crollo verticale delle Br. Una banda armata non meno sanguinaria era “Prima linea”. Peci parla anche di un “piellino” torinese aspirante brigatista ed in pochi giorni costui viene identificato in Roberto Sandalo, detto “Roby il pazzo”, ex membro del servizio d’ordine di Lotta Continua. Peci sa tutto perché è un capo. Sandalo no, ma è ugualmente a conoscenza di informazioni decisive. Pl infatti era un’organizzazione più movimentista, più slabbrata rispetto alle verticistiche e catacombali Br. Per questo anche un quadro non di vertice come Sandalo è in grado di fornire informazioni che disarticolano da cima fondo l’organizzazione fino a disintegrarla. E al pari di Peci, Sandalo ebbe il merito di essere il primo anello di una catena infinita di altre collaborazioni.
Tra le migliaia di notizie fornite, Sandalo rivelò anche che fra i capi di Pl vi era un tal Comandante Alberto, presto identificato in Marco Donat Cattin, figlio del senatore e ministro Carlo. Sandalo parlò anche di alcuni suoi incontri con il senatore, che gli aveva riferito di colloqui con il presidente del consiglio Cossiga in ordine alla posizione del figlio Marco. Nell’adempimento dei nostri doveri istituzionali inviammo gli atti alla Camera (Commissione per i procedimenti di accusa). L’ipotesi era di violazione del segreto per consentire la fuga di un terrorista.
ALLA FINE di un tormentato iter il Parlamento bocciò la proposta di messa in stato d’accusa davanti alla Corte costituzionale con 535 voti contro 370 e il caso venne chiuso. In una intervista rilasciata anni dopo ad Aldo Cazzullo (7 settembre 2007), Cossiga dirà che aveva tenuto (essendosi saputo che Peci aveva fatto il nome di Marco Donat Cattin) questo comportamento: “Presi su di me la grana. Verificai la notizia e avvertii il mio ministro che suo figlio era ricercato. Va detto che non sapevo di quanti e quali reati si fosse macchiato il ragazzo; ignoravo che fosse nel gruppo che aveva assassinato il giudice Alessandrini. E chiesi a Donat-Cattin di dire al figlio di consegnarsi e raccontare tutto quanto sapeva”. Ora, poiché – lo ripeto – inviare il fascicolo al Parlamento era stato semplicemente doveroso (gli estremi per farlo c’erano proprio tutti, che poi gli elementi non siano stati considerati sufficienti in sede politica, è ovviamente un altro discorso), francamente non sono mai riuscito a capire perché Cossiga se la sia presa così tanto con me e non abbia mai nascosto di avermela giurata.
Va ancora ricordato che i segretissimi verbali di Patrizio Peci, comprese le parti in cui si racconta del “piellino” Sandalo e di Marco Donat Cattin, finirono sui giornali (il vice capo dei Servizi di allora fu incarcerato). In forma integrale il 3,4 e 5 maggio 1980 su Il Messaggero. In parte il 7 maggio su Lotta Continua, dove mancavano però alcune pagine, segnalate con la scritta: “A questo punto nel verbale manca un foglio”. Ma per la pagina di Marco Donat Cattin (n. 50 del verbale Peci), la scritta inserita da Lotta continua era diversa, perché – fingendo un refuso – si parlava ironicamente di mancanza di... “un figlio”. E tuttavia, questi venne individuato a Parigi dagli uomini del generale Dalla Chiesa, uno dei quali (un investigatore eccezionale, nome di copertura “Trucido”) si era appostato per giorni e giorni in metropolitana fingendosi suonatore ambulante. Arrestato ed estradato per gli omicidi commessi, Donat Cattin deciderà di collaborare ampiamente. E dire che all’inizio, ascoltando il racconto di Sandalo sul senatore Donat Cattin e Cossiga, confesso che restammo perplessi.
TUTTO SEMBRAVA un po’ surreale, in particolare il fatto che il senatore (ricevendo in vestaglia, nella sua casa torinese, il Sandalo) gli avesse indicato un suo segretario – tal Fantasia – a cui fare riferimento. A quel nome, “Fantasia”, mi si chiuse lo stomaco, perché temevo che “Roby il pazzo” stesse proprio lavorando di fantasia, prendendosi gioco di noi. E invece no, il segretario Fantasia esisteva davvero, così come erano vere tutte le altre circostanze riferite da Sandalo. Certo è che avvertimmo fin da subito nubi cupissime all’orizzonte a fronte di ipotetici scarsi vantaggi per le indagini. Perché, oltrepassare certi limiti fa sì che il cordone sanitario del potere scatti inesorabile ogni volta che ci si inoltra lungo sentieri “scomodi”, dove chi indaga seriamente rischia. Il potere in genere non è molto sportivo, accetta a fatica di essere chiamato in causa. Ma sono cose che imparerò ancor meglio quando deciderò, come procuratore di Palermo, di occuparmi senza sconti di mafia e politica.
Il pentito storico
“Roby il pazzo” che annientò Prima Linea
Il Fatto, 10 gennaio 2014
La notizia delle morte di Roberto Sandalo riporta alla memoria la sconfitta del terrorismo “rosso”, iniziata nel 1980 quando – tra le giostre di piazza Vittorio – finisce in manette Patrizio Peci, capo della colonna torinese delle Brigate Rosse. Con le sue rivelazioni, Peci consente di individuare i responsabili di tutti gli omicidi, gambizzazioni”, rapine e sequestri commessi a Torino (e non solo) dalla sua banda. Innesca inoltre una reazione a catena che porta ad un’infinità di altri pentimenti, determinando il crollo verticale delle Br. Una banda armata non meno sanguinaria era “Prima linea”. Peci parla anche di un “piellino” torinese aspirante brigatista ed in pochi giorni costui viene identificato in Roberto Sandalo, detto “Roby il pazzo”, ex membro del servizio d’ordine di Lotta Continua. Peci sa tutto perché è un capo. Sandalo no, ma è ugualmente a conoscenza di informazioni decisive. Pl infatti era un’organizzazione più movimentista, più slabbrata rispetto alle verticistiche e catacombali Br. Per questo anche un quadro non di vertice come Sandalo è in grado di fornire informazioni che disarticolano da cima fondo l’organizzazione fino a disintegrarla. E al pari di Peci, Sandalo ebbe il merito di essere il primo anello di una catena infinita di altre collaborazioni.
Tra le migliaia di notizie fornite, Sandalo rivelò anche che fra i capi di Pl vi era un tal Comandante Alberto, presto identificato in Marco Donat Cattin, figlio del senatore e ministro Carlo. Sandalo parlò anche di alcuni suoi incontri con il senatore, che gli aveva riferito di colloqui con il presidente del consiglio Cossiga in ordine alla posizione del figlio Marco. Nell’adempimento dei nostri doveri istituzionali inviammo gli atti alla Camera (Commissione per i procedimenti di accusa). L’ipotesi era di violazione del segreto per consentire la fuga di un terrorista.
ALLA FINE di un tormentato iter il Parlamento bocciò la proposta di messa in stato d’accusa davanti alla Corte costituzionale con 535 voti contro 370 e il caso venne chiuso. In una intervista rilasciata anni dopo ad Aldo Cazzullo (7 settembre 2007), Cossiga dirà che aveva tenuto (essendosi saputo che Peci aveva fatto il nome di Marco Donat Cattin) questo comportamento: “Presi su di me la grana. Verificai la notizia e avvertii il mio ministro che suo figlio era ricercato. Va detto che non sapevo di quanti e quali reati si fosse macchiato il ragazzo; ignoravo che fosse nel gruppo che aveva assassinato il giudice Alessandrini. E chiesi a Donat-Cattin di dire al figlio di consegnarsi e raccontare tutto quanto sapeva”. Ora, poiché – lo ripeto – inviare il fascicolo al Parlamento era stato semplicemente doveroso (gli estremi per farlo c’erano proprio tutti, che poi gli elementi non siano stati considerati sufficienti in sede politica, è ovviamente un altro discorso), francamente non sono mai riuscito a capire perché Cossiga se la sia presa così tanto con me e non abbia mai nascosto di avermela giurata.
Va ancora ricordato che i segretissimi verbali di Patrizio Peci, comprese le parti in cui si racconta del “piellino” Sandalo e di Marco Donat Cattin, finirono sui giornali (il vice capo dei Servizi di allora fu incarcerato). In forma integrale il 3,4 e 5 maggio 1980 su Il Messaggero. In parte il 7 maggio su Lotta Continua, dove mancavano però alcune pagine, segnalate con la scritta: “A questo punto nel verbale manca un foglio”. Ma per la pagina di Marco Donat Cattin (n. 50 del verbale Peci), la scritta inserita da Lotta continua era diversa, perché – fingendo un refuso – si parlava ironicamente di mancanza di... “un figlio”. E tuttavia, questi venne individuato a Parigi dagli uomini del generale Dalla Chiesa, uno dei quali (un investigatore eccezionale, nome di copertura “Trucido”) si era appostato per giorni e giorni in metropolitana fingendosi suonatore ambulante. Arrestato ed estradato per gli omicidi commessi, Donat Cattin deciderà di collaborare ampiamente. E dire che all’inizio, ascoltando il racconto di Sandalo sul senatore Donat Cattin e Cossiga, confesso che restammo perplessi.
TUTTO SEMBRAVA un po’ surreale, in particolare il fatto che il senatore (ricevendo in vestaglia, nella sua casa torinese, il Sandalo) gli avesse indicato un suo segretario – tal Fantasia – a cui fare riferimento. A quel nome, “Fantasia”, mi si chiuse lo stomaco, perché temevo che “Roby il pazzo” stesse proprio lavorando di fantasia, prendendosi gioco di noi. E invece no, il segretario Fantasia esisteva davvero, così come erano vere tutte le altre circostanze riferite da Sandalo. Certo è che avvertimmo fin da subito nubi cupissime all’orizzonte a fronte di ipotetici scarsi vantaggi per le indagini. Perché, oltrepassare certi limiti fa sì che il cordone sanitario del potere scatti inesorabile ogni volta che ci si inoltra lungo sentieri “scomodi”, dove chi indaga seriamente rischia. Il potere in genere non è molto sportivo, accetta a fatica di essere chiamato in causa. Ma sono cose che imparerò ancor meglio quando deciderò, come procuratore di Palermo, di occuparmi senza sconti di mafia e politica.
venerdì 10 gennaio 2014
Sull'Europa. Quello che Rodotà non dice
Stefano Rodotà ha scritto e pubblicato ieri un lungo articolo sulla Repubblica. Il tema è lo stato attuale dell'Europa, intendendo per Europa le istituzioni comunitarie e il loro rapporto con i cittadini. Si parte dal deficit di legittimità costituzionale per arrivare al rimedio, individuato nella rivalutazione dei diritti contro i sacrifici. Insomma per salvare l'Europa sarebbe necessario uscire dalle politiche di austerità. Cambiare gli indirizzi di governo per ritrovare e porre al centro la questione dei diritti. C'è qualcosa di riduttivo, di gravemente riduttivo, in un progetto simile. Prima ancora dei diritti, quel che manca è la loro garanzia ultima, il fondamento popolare della sovranità. Rodotà prende il discorso alla larga invocando in apertura Paul Hazard e la crisi della coscienza europea intorno al 1700. In fatto di diritti, però, come non ricordare la dichiarazione del 1789? All'articolo 1, c'era l'uguaglianza tra gli uomini, "tutti gli uomini nascono e restano liberi ed uguali nei diritti". Punto ribadito all'articolo 2 ("Lo scopo d'ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo vale a dire la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione"). Subito dopo c'era il riferimento all'elemento costitutivo del potere destinato a garantire il rispetto delle regole: "Il principio d'ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione, nè alcun corpo o individuo può esercitare un'autorità che non emani espressamente da quella". Stessa cosa nella dichiarazione di indipendenza sottoscritta e approvata a Filadelfia nel 1776: "per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati". Troppo a lungo il funzionalismo burocratico ha preso il posto della legittimazione democratica per le istituzioni europee. Non basta eleggere il parlamento europeo a suffragio diretto. Ci vorrebbe un governo comunitario espresso dalla rappresentanza popolare e non, per delega, dagli Stati nazionali. Qui è Rodi, qui salta. Senza tanti giri di parole.
Stefano Rodotà
Il pensiero debole dell’Europa che si accontenta
la Repubblica, 10 gennaio 2013
Nel suo gran libro su La crisi della coscienza europea dal 1680 al 1715,
Paul Hazard ebbe a definire l’Europa come “un pensiero che mai si
accontenta”. Oggi, prigioniera di una crisi senza precedenti, l’Unione
europea si accontenta di politiche economiche restrittive, quasi una
frontiera invalicabile. Questa è l’Europa degli anni che viviamo. Nella
quale sono deboli i tentativi di colmare il deficit di democrazia
segnalato da Jacques Delors. Ed essa è scivolata verso un deficit di
legittimità, che è alla base della crescente sfiducia dei cittadini,
delle spinte verso la rinazionalizzazione, dell’abbandono di valori e
principi dell’Unione come accade in Ungheria.
Vi era stato un momento
in cui questo rischio era stato individuato, e s’era imboccata la via
per contrastarlo. Nel 1999, il Consiglio europeo aveva aperto una fase
costituente, affidando ad una Convenzione il compito di scrivere una
carta dei diritti. La ragione di questa scelta era netta: “La tutela dei
diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione
europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo
stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una
Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza
capitale e la portata per i cittadini dell’Unione”. Si manifestava così
la consapevolezza che la costruzione dell’Europa affidata solo al
mercato avesse esaurito le sue risorse.
Eche la sua piena legittimità
esigesse ormai una centralità dei diritti. Ritroviamo qui l’eco lontana
dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789: “la società nella quale non è assicurata la garanzia
dei diritti, e non è determinata la divisione dei poteri, non ha
Costituzione”.
Quel che sta accadendo nell’Unione europea è appunto
questo — una decostituzionalizzazione. Il suo sistema è stato amputato
della Carta dei diritti fondamentali, del suo Bill of Rights,che pure,
com’è scritto nell’articolo 6 del Trattato di Lisbona, “ha lo stesso
valore giuridico dei trattati”. Cogliendo questo spirito, addirittura
quando la Carta non era vincolante, l’allora presidente Romano Prodi
dichiarò subito che “Parlamento e Commissione hanno già fatto sapere che
intendono applicare integralmente la Carta”. Proposito ribadito e reso
più impegnativo da successive comunicazioni della Commissione.
Oggi
l’orizzonte è mutato, l’Unione agisce come se la Carta non vi fosse,
nega ai cittadini il valore aggiunto ad essa affidato proprio per
acquisire legittimità attraverso la loro adesione, e muta i cittadini da
attori del processo europeo in puri spettatori, impotenti e sfiduciati
di fronte all’arrivo da Bruxelles di imposizione di sacrifici e non di
garanzie dei diritti. V’è in tutto questo una contraddizione, un
abbandono della logica che volle il passaggio dell’espressione “Mercato
unico” a “Unione europea”, che avrebbe dovuto avvicinare istituzioni e
cittadini, e questi tra loro. E vi è pure un abbandono di quanto è
scritto nel Preambolo della Carta, dove si afferma l’Unione “pone la
persona al centro della sua azione”.
Una “costituzione finanziaria”
ha sostituito tutto questo, e dunque da qui bisogna ripartire, anche
perché si è diffusa la consapevolezza dei guasti provocati da una sua
assunzione acritica. Questo dovrebbe essere il tema centrale delle
imminenti elezioni europee. Altrimenti finirà che, sul versante degli
europeisti, prendano il sopravvento le lamentazioni contro i populismi
antieuropei, quelli che l’Economist chiama la “Europa dei Tea Parties”,
mentre bisogna guardare a fondo nelle loro ragioni e produrre gli
anticorpi necessari. E questo può avvenire solo se si ricompone il
contesto costituzionale europeo, reintegrandolo con la Carta, anche per
riprendere un diverso filo della stessa discussione economica. Così
acquisterà chiarezza anche l’obiettivo di avere più Europa politica. Per
fare che cosa? Rendere ancora più stringente la logica economica? O
ridare fiato ad un pensiero che non si accontenta di questo inquietante
riduzionismo?
Partire dall’Europa, allora, non è un parlar d’altro,
un tentativo di eludere le specifiche questioni italiane. È un passaggio
obbligato proprio per definire meglio le responsabilità nazionali, oggi
frammentate tra difficoltà ed egoismi dei singoli Stati, per affrontare
senza reticenze non l’antieuropeismo spicciolo di chi cercherà di
lucrare qualche consenso alle prossime elezioni, ma l’obiezione radicale
di chi, da ultimo Wolfgang Streeck, vede ormai nell’Unione europea
l’epicentro della “colonizzazione capitalistica”. La replica di Juergen
Habermas a questa tesi può anche apparire non del tutto convincente, ma
coglie un punto di verità quando segnala il rischio di “una rinuncia
disfattista al progetto europeo”, che non aprirebbe la via a una Europa
rinazionalizzata, ma manterrebbe al centro proprio le distruttive
dinamiche della pura austerità. L’ipotesi è quella di democratizzare il
sistema delle istituzioni europee, intervenendo sui trattati. Ma questa
strategia sarebbe monca e debole se rimanesse fuori la revisione della
nuova costituzione economica e, soprattutto, se si ignorasse il grande
conflitto sui diritti che ha già devastato l’Europa accrescendo distanze
e diseguaglianza, impoverendo intere popolazioni, e che è oggi
l’ostacolo vero per la creazione di un “popolo europeo”. Se vi è un
errore nelle ripulse d’una sinistra estrema, altrettanto rischiosa è
l’incapacità dell’altra sinistra di considerare ineludibile questo tema.
Esiste
ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe
essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte
d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la
necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali. Proprio per
questo l’attenzione alla sola dimensione dell’economia sarà
insufficiente se non sarà reintegrata in questo più vasto contesto.
Qui
si coglie il nesso tra Europa e Italia, dove troppi continuano a
separare le due questioni e dove è in atto il tentativo di scorporare
dalla Costituzione tutta la parte relativa ai diritti. Si è manifestata
una critica irridente i difensori dei diritti fondamentali, sfruttando
una colorita battuta di Roberto Benigni sulla “Costituzione più bella
del mondo”. In discussioni impegnative si dovrebbero frequentare anche
altre fonti. Massimo Severo Giannini, ad esempio, che definì “splendida”
la prima parte; o Leopoldo Elia, che nella Costituzione vide “una delle
migliori prove del costituzionalismo europeo, soprattutto per la
completezza e lo spessore della dichiarazione dei diritti civili,
sociali e politici”. Questo non è trionfalismo, ma l’indicazione di una
politica costituzionale che, proprio in vista di riforme della seconda
parte, non può abbandonare i principi definiti nella prima. Unione
europea e Italia hanno il medesimo problema di ricomposizione
dell’ordine costituzionale come condizione della sopravvivenza della
stessa democrazia.
A tutti gli europei, e ai loro governanti,
dovrebbe essere imposta la lettura dell’ultima pagina dell’Omaggio alla
Catalogna di George Orwell, con la straordinaria descrizione
dell’inconsapevolezza inglese verso i segnali dell’imminente guerra
mondiale. Rassicurati allora nelle loro piccole certezze (“non vi
preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casa
domattina e ilNew Statesman uscirà di venerdì”), chiusi oggi i paesi più
ricchi in una insolente rottura d’ogni solidarietà e progetto comune,
proprio così si erodono le basi di una “Unione” ben più degli
antieuropeisti di professione.
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