Intervista con Mauro Calise di Alessandro Lanni
Renzi è un leone tra le volpi
e la personalizzazione non è populismo
Reset, 18 novembre 2013
Non solo il rifiuto cieco di quello che è ormai un dato ovvero la
personalizzazione della politica, ma anche l’incapacità di evitare
l’affermazione di una miriade di capi e capetti nel Pd (qualcuno anni fa
li chiamò “cacicchi”) con il loro piccolo o grande potere locale, con
la loro corrente personale, che stanno distruggendo il Partito
democratico. Il duplice atto d’accusa che Mauro Calise muove nei
confronti del Pd è lucido, netto e senza appello, almeno per una classe
dirigente che nel complesso ha portato al naufragio delle Politiche del
febbraio 2013 e dell’elezione del presidente della Repubblica.
Il funesto anno che si sta concludendo per il Pd sarà ricordato come
quello della “non vittoria” della Ditta Bersani e dei 101 che hanno
affossato Prodi, ma forse anche come l’anno in cui al soglio del
Nazareno è asceso il giovane e rampante sindaco di Firenze. «Per ora
Matteo Renzi – confessa Calise – mi sembra coraggioso, un leone tra le
volpi. Però è più bravo che autentico e ancora deve fugare i dubbi sulla
capacità di andare in profondità nella politica».
Col volumetto Fuorigioco (Laterza 2013) lo studioso
napoletano prosegue la sua analisi dell’Italia politica aggiornando e
approfondendo spunti dei precedenti Terza repubblica e Il partito personale (entrambi Laterza).
In Fuorigioco afferma che “una leadership forte è l’antidoto al partito personale”. Spieghi perché non è una contraddizione.
La personalizzazione è un tratto dominante della nostra epoca. Dal
tessuto sociale a quello politico, passando per la sfera comunicativa
che ne è il principale ambiente e moltiplicatore. Si tratta del fenomeno
più macroscopico delle società contemporanee, piaccia o non piaccia. A
me, ad esempio, piace poco ma cerco di evitare che questo giudizio
infici la mia analisi. Una leadership forte contribuisce a legittimare
il partito, se da questo non viene combattuta. È quello che si è visto
in Inghilterra con Blair o in Germania con la Merkel.
E perché da noi non funziona?
È un processo che si consolida se trova uno sbocco istituzionale
adeguato, a livello di premiership o presidenza. Leader forte, più
partito coeso, più istituzione monocratica: è questo il circolo virtuoso
che può arginare la degenerazione della personalizzazione, imbrigliarla
in un circuito pubblico di legittimazione. Altrimenti la
personalizzazione imbocca la scorciatoia della privatizzazione: il
partito come proprietà personale del leader. In senso stretto, come con
Berlusconi, o più mediato, come abbiamo visto con Di Pietro, Monti,
Grillo. Tutte modalità diverse di personalizzazione del partito, ma
accomunate dallo stesso destino: la fine del partito come organismo
collegiale. E su questo insisto: nella nostra epoca, il partito come
organismo unitario può sopravvivere solo grazie al riconoscimento di un
capo. Si tratta di una verità anticipata, con la proverbiale lucidità,
da Gramsci un secolo fa e chissà se i macro o micronotabili del Pd
l’hanno letta… La riprendo da un bellissimo libro di Fabio Bordignon (Il partito del capo. Da Berlusconi a Renzi,
in uscita in questi giorni per Apogeo/Maggioli): «Finché sarà
necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli
uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere
dei capi, di avere un “capo”».
ll Pd di Bersani è stato ostinatamente contrario alla
personalizzazione. Ha formulato questa avversità anche attraverso gli
slogan e le frequenti dichiarazioni del segretario. Tuttavia al di là
delle colpe della leadership, la linea Bersani è stata scelta alle
primarie da un popolo che in fondo, culturalmente si identifica con
quell’idea di partito e di collegialità ed è contro l’apparente
“irrazionalismo” della leadership carismatica. Insomma, è colpa di
Bersani ma anche di una parte consistente della gente di sinistra (non
so se su questo sei d’accordo). Come convincere (ammesso che vada fatto)
questa ampia parte di sinistra? È sufficiente dire nell’altro modo si
vince?
Non sorprende che una parte consistente della sinistra condivida
l’ideologia collettivista della leadership. Era alla radice del Pci e
del Pd. E visto che l’elettorato Pd – come mostrano i dati di Ilvo
Diamanti – è composto prevalentemente da pensionati e lavoratori del
pubblico impiego, quelle radici esistono ancora. Si tratta di un dato
fisiologico, che non giudico negativamente. Il problema nasce dalla
contrapposizione che viene fatta tra quella concezione e una leadership
personale e autorevole. Ai tempi del Pci, questo non avveniva: Togliatti
o Berlinguer sono stati leader ultracarismatici, ma questo non è
entrato in collisione con la forza del partito come attore unitario.
Oggi invece, soprattutto con la restaurazione fallimentare portata
avanti dai bersaniani, si è cercato di fare leva su uno scontro tra i
due principi. Uno scontro che non ha nascosto la dura realtà, anzi la ha
fatta esplodere: nel Pd la direzione collegiale non esiste più,
esistono invece diciannove correnti. Ma non esiste ancora una leadership
autorevole, che è un requisito di responsabilità e trasparenza in tutte
le democrazie contemporanee.
Nel libro parla anche di un “virus letale” quello del
microvoto, delle correnti anche locali guidate da “micronotabili”. Il
congresso in corso sembra dire che il Pd non ha appreso la lezione e che
nessuno è immune da questo male.
Si, il libro ha due focus, distinti e convergenti, il «doppio errore»
del Pd. Il primo, su cui ci siamo soffermati finora e su cui si
concentra buona parte del dibattito politico, è l’ostilità
dell’oligarchia bersaniana nei confronti di una leadership autorevole.
Col risultato della sconfitta elettorale e la spaccatura al vertice che è
oggi sotto i nostri occhi. Ma il dato, forse, ancora più preoccupante è
che accendendo i riflettori sulla lotta al macroleader si è finto di
non vedere che il partito, nelle retrovie, si stava spappolando. E che,
invece della Ditta propagandata, c’erano diciannove correnti, pullulanti
di micronotabili in lotta fratricida tra di loro. Ed è da questo
pantano che, chiunque sia il vincitore delle primarie, difficilmente il
Pd riuscirà a districarsi.
“Personalizzazione” è un termine che viene spesso usato come sinonimo di populismo.
Sul piano storico è un’idiozia. Le origini del fenomeno, nell’America
di fine Ottocento come nella Russia pre-sovietica, fa riferimento alla
comparsa di attori e valori popolari, comunitari sulla scena politica,
attori e valori che insidiavano i meccanismi tradizionali della
rappresentanza parlamentare. Oggi, il populismo si ripresenta
soprattutto come fenomeno mediatico, ondate di protesta che vengono
spesso – ma non sempre e necessariamente – catalizzate e organizzate da
leader particolarmente abili nello sfruttare vecchi e nuovi media: vedi
Berlusconi e Grillo. Il capostipite del media populism
televisivo è Ross Perot, da cui Berlusconi prende moltissimo. Chapeau –
intellettuale, non certo politico – al duo Grillo-Casaleggio per avere
inventato la variante web. Anche in questo caso, il migliore antidoto è
ancorare la leadership al partito, evitare che cresca, si riproduca e –
prima o poi – si sgonfi solo attraverso il circuito mediatico.
Però c’è una parte di sinistra e anche al vertice del Pd che giudica Renzi populista. Che ne pensi di questa accusa?
Al momento, mi sembra un’accusa pregiudiziale, infondata. Certo, se
il partito continua a metterlo alla gogna, e alla porta, prima o poi è
possibile che Renzi finisca per imboccare la scorciatoia populista.
Quali sono pregi e difetti di Renzi macroleader?
Il pregio maggiore è il coraggio. Paretianamente, un leone in un
establishment di volpi. Una dote di cui pochi leader hanno dato prova:
oltre, ovviamente, a Berlusconi, ricordo il primo Bassolino, quello che
lasciò la poltrona sicurissima che aveva a Roma per buttarsi
nell’avventura delle elezioni a sindaco di Napoli. Tra i difetti di
Renzi c’è la profondità, che ancora non dimostra di avere sui temi più
complessi (su questo, ad esempio, Gianni Cuperlo, dimostra più spessore e
professionalità); e l’umanità: appare molto più bravo che vero. Ma
questo forse nasce anche dalla tensione enorme cui è sottoposto,
ininterrottamente sulla breccia e sotto i riflettori da oltre un anno.
Se qualche volta parlasse meno in fretta, una pausa in più, una smorfia
del viso. Qualcosa che trasmettesse il messaggio che la politica è anche
sofferenza, il tarlo del dubbio ogni volta che butti il cuore oltre la
siepe. Questa, ad esempio, era la forza di Veltroni.
Ricordo la ricostruzione che lei fece (fin dalla prima
edizione del Partito personale, nel 2000) della rivoluzione di Blair nel
Labour e di come mise in piedi una squadra di fedelissimi di grosso
calibro che trasformarono il partito. Crede che Renzi possa riuscire a
compiere lo stesso percorso? Renzi ha messo in piedi una squadra
adeguata?
Non lo so. Non ho contatti o informazioni di prima mano su questo
punto. Alcuni dicono che sarebbe il suo vero tallone d’Achille. Certo,
il nodo che solleva è cruciale. Senza un’adeguata organizzazione, ogni
leadership diventa rapidamente effimera. E qui il bivio di fronte a
Renzi è molto netto. Se i toni dello scontro nel Pd continuano a
indurirsi, e se davvero si dovesse andare incontro a una spaccatura –
come recentemente D’Alema ha paventato – il sindaco potrebbe
avventurarsi anche lui sul sentiero solitario del partito personale. Ma
sarebbe un ripiego, e molto a rischio. Finora, il capostipite Berlusconi
è stato eccezionale, nel doppio senso del termine: straordinariamente
abile e senza repliche di pari portata. E la differenza l’ha fatta
l’organizzazione, non la comunicazione. È bene ricordare che il
Cavaliere scese in campo portandosi dietro, oltre ai soldi, tre canali
televisivi e due aziende – con relativi “yesmen” – di caratura nazionale
e radicatissime sul territorio.
L’unico imitatore di successo, per scala del fenomeno, è stato Grillo,
col suo partito superpersonale cybercratico che ha messo insieme un
quarto dell’elettorato. Ma si tratta di un’esperienza ancora allo stato
nascente, non sappiamo – neanche Grillo – quanto durerà. Ma già al suo
interno si registrano spaccature importanti, e proprio sulla giuntura
più critica: il raccordo tra il centro telematico e la periferia di
attivisti civici. Quanto agli altri cloni del Cavaliere, si è trattato
di partitini personali, di piccolo peso e/o di breve durata. Dalle
filiazioni di Dini e Prodi, nate dalla loro permanenza a Palazzo Chigi,
alle formazioni parafamiliari di Di Pietro e Mastella, fino al più
recente clamoroso flop di Scelta civica, l’esempio forse più eclatante
dell’attrazione fatale che il biopartitismo esercita sul nostro ceto
politico, anche nei suoi rappresentanti migliori. Farsi corpo politico,
autoriprodursi per partenogenesi. Per accorgersi poi, rapidamente, che
lo specchio di Narciso, in realtà, è un pozzo buio.
E Renzi è destinato a seguire questa strada?
Mi auguro che Renzi non cada in questa trappola. Se lo fanno fuori,
se cercano di mandarlo in fuorigioco, si faccia da parte, non si faccia
in quattro. È giovane, la notte della repubblica sarà lunga. Il futuro –
come direbbe Weber – tornerà a bussare alla sua porta.
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