Selfie
L’ansia di riempire il vuoto interiore
L’autoscatto
condiviso da semplice passatempo adolescenziale diventa pratica dei
grandi del mondo, come è accaduto ai funerali di Mandela
E l’Oxford Dictionary la consacra parola dell’anno
Dietro questo fenomeno si nasconde un rischio il sentimento di non avere una personalità vera
la Repubblica, 29 dicembre 2013
In un film che ha fatto epoca titolato Zelig (1983), Woody Allen ha
raccontato con la sua indubbia maestria tragica e ironica la patologia
di un uomo che doveva assimilarsi all’ambiente e ai personaggi che
frequentava per dare valore alla sua vita. Questa caricatura del
soggetto – camaleonte impegnato in continui trasformismi per ridurre il
suo senso di profonda estraneità trova un corrispettivo clinico preciso
in una patologia che la psicoanalisi degli anni Cinquanta aveva definito
con il termine di “personalità come se” (as if) (Helene Deutsch). Di
cosa si trattava? Un soggetto senza mondo interiore, vuoto, staccato
dall’energia vitale del suo desiderio, privo di un senso proprio
dell’identità, poteva trovare una identità posticcia solo
identificandosi a chi lo circondava, vivendo conformisticamente come
fanno gli altri, adottando una maschera sociale rigida per colmare quel
senso inestinguibile di superfluità che portava con sé. In
questo caso la patologia mentale non consisteva più in una deviazione
dalla norma, in una frattura con l’ordine costituito delle cose (come
accadeva nella follia delirante studiata da Michel Foucault e da Franco
Basaglia), ma in un eccesso di adattamento alla realtà, in una
esasperata assimilazione alla normalità. In tutti questi nuovi quadri
clinici in gioco sarebbe una patologia narcisistica con un fondo
depressivo: il soggetto che sente di non avere alcun valore in sé
(depressione) cerca di recuperarlo identificandosi a figure ideali che
gli consentirebbero di edificare un Io più amabile (narcisismo). Ecco
allora la ragione delle metamorfosi infinite di Zelig, che come un
camaleonte cambia continuamente pelle. Di volta in volta, egli è un
artista, un medico, un suonatore di jazz nero, uno psicoanalista...
Una versione aggiornata ai nuovi social network della figura di
Zelig si può forse trovare nei cosiddetti “Selfie”, ovvero in coloro che
tendono a fotografarsi di fianco a personaggi illustri o meno e in
circostanze pubbliche di particolare valore storico o cronachistico, ma
anche a riprodurre pubblicamente, grazie a Internet, i momenti più
privati della loro vita per poi esibire a un loro pubblico questa specie
di reliquia post-moderna. Tutto avviene “come se”: per un verso, i
nuovi Zelig si autoriproducono con una solerzia incessante riducendo
illusoriamente la distanza che li separa dal nome del personaggio o
dall’evento ritratto come se facessero parte della loro vita; per un
altro verso, provano a innalzare l’ordinarietà della loro stessa vita
come se fosse il senso del mondo facendo degli spettatori una sorta di
suo specchio ideale. Se la propria vita ha bisogno dell’autoscatto per
certificarsi di esistere è perché essa porta con sé un dubbio sulla
propria esistenza. È il sintomo clinico prevalente delle personalità
come se: la percezione diffusa della propria inesistenza, l’assenza del
sentimento della vita.
Di nuovo troviamo al centro il binomio depressione narcisismo che
è, a mio giudizio, un binomio decisivo per intendere più in generale le
mutazioni antropologiche del nostro tempo. La nostra immagine è
tristemente vuota (gli ideali collettivi e soggettivi sono evaporati) e
può essere riempita solo grazie al cemento narcisistico offerto da un
valore aggiunto: il personaggio famoso, l’evento imperdibile, l’uso
della vetrina di Facebook, la moltiplicazione anonima delle amicizie, ma
anche la pura esibizione della propria persona di fronte al pubblico
anonimo dei social network.
La dimensione autoreferenziale di questo foraggiamento narcisistico
di un soggetto in realtà tristemente vuoto è evidente, già tutto
contenuto nella parola “autoscatto”. Non si fotografa più il mondo, ma
il mondo serve come sfondo per una iniezione narcisistica a un soggetto
che si vive come insignificante. Non si tratta di psichiatrizzare una
pratica che oggi ha assunto il carattere di una epidemia virale e che
coinvolge anche figure come quella del Presidente degli Stati Uniti. Ma è
indubbio che in molte di queste fotografie vediamo emergere un profondo
senso di tristezza. È quella stessa sensazione che circonda la vita del
povero Zelig di Woody Allen. Sotto la maschera non c’è niente: apparire
prende il posto dell’essere rivelandoci che l’essere che esso ricopre è
una realtà inconsistente. Esibire la propria vita non perché essa
assume il valore universale di una testimonianza – è questo il punto di
scaturigine di ogni opera d’arte –, ma perché senza questa esibizione
essa correrebbe il rischio di non esistere, di essere solamente un’ombra
senza vita. Il contrario siderale di quella “capacità di stare soli” con
la quale Winnicott definiva la condizione minima della salute mentale.
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