Stefano Rodotà ha scritto e pubblicato ieri un lungo articolo sulla Repubblica. Il tema è lo stato attuale dell'Europa, intendendo per Europa le istituzioni comunitarie e il loro rapporto con i cittadini. Si parte dal deficit di legittimità costituzionale per arrivare al rimedio, individuato nella rivalutazione dei diritti contro i sacrifici. Insomma per salvare l'Europa sarebbe necessario uscire dalle politiche di austerità. Cambiare gli indirizzi di governo per ritrovare e porre al centro la questione dei diritti. C'è qualcosa di riduttivo, di gravemente riduttivo, in un progetto simile. Prima ancora dei diritti, quel che manca è la loro garanzia ultima, il fondamento popolare della sovranità. Rodotà prende il discorso alla larga invocando in apertura Paul Hazard e la crisi della coscienza europea intorno al 1700. In fatto di diritti, però, come non ricordare la dichiarazione del 1789? All'articolo 1, c'era l'uguaglianza tra gli uomini, "tutti gli uomini nascono e restano liberi ed uguali nei diritti". Punto ribadito all'articolo 2 ("Lo scopo d'ogni associazione politica è la conservazione dei diritti
naturali e imprescrittibili dell'uomo vale a dire la libertà, la
proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione"). Subito dopo c'era il riferimento all'elemento costitutivo del potere destinato a garantire il rispetto delle regole: "Il principio d'ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione, nè
alcun corpo o individuo può esercitare un'autorità che non emani
espressamente da quella". Stessa cosa nella dichiarazione di indipendenza sottoscritta e approvata a Filadelfia nel 1776: "per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati". Troppo a lungo il funzionalismo burocratico ha preso il posto della legittimazione democratica per le istituzioni europee. Non basta eleggere il parlamento europeo a suffragio diretto. Ci vorrebbe un governo comunitario espresso dalla rappresentanza popolare e non, per delega, dagli Stati nazionali. Qui è Rodi, qui salta. Senza tanti giri di parole.
Stefano Rodotà
Il pensiero debole dell’Europa che si accontenta
la Repubblica, 10 gennaio 2013
Nel suo gran libro su La crisi della coscienza europea dal 1680 al 1715,
Paul Hazard ebbe a definire l’Europa come “un pensiero che mai si
accontenta”. Oggi, prigioniera di una crisi senza precedenti, l’Unione
europea si accontenta di politiche economiche restrittive, quasi una
frontiera invalicabile. Questa è l’Europa degli anni che viviamo. Nella
quale sono deboli i tentativi di colmare il deficit di democrazia
segnalato da Jacques Delors. Ed essa è scivolata verso un deficit di
legittimità, che è alla base della crescente sfiducia dei cittadini,
delle spinte verso la rinazionalizzazione, dell’abbandono di valori e
principi dell’Unione come accade in Ungheria.
Vi era stato un momento
in cui questo rischio era stato individuato, e s’era imboccata la via
per contrastarlo. Nel 1999, il Consiglio europeo aveva aperto una fase
costituente, affidando ad una Convenzione il compito di scrivere una
carta dei diritti. La ragione di questa scelta era netta: “La tutela dei
diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione
europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo
stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una
Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza
capitale e la portata per i cittadini dell’Unione”. Si manifestava così
la consapevolezza che la costruzione dell’Europa affidata solo al
mercato avesse esaurito le sue risorse.
Eche la sua piena legittimità
esigesse ormai una centralità dei diritti. Ritroviamo qui l’eco lontana
dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789: “la società nella quale non è assicurata la garanzia
dei diritti, e non è determinata la divisione dei poteri, non ha
Costituzione”.
Quel che sta accadendo nell’Unione europea è appunto
questo — una decostituzionalizzazione. Il suo sistema è stato amputato
della Carta dei diritti fondamentali, del suo Bill of Rights,che pure,
com’è scritto nell’articolo 6 del Trattato di Lisbona, “ha lo stesso
valore giuridico dei trattati”. Cogliendo questo spirito, addirittura
quando la Carta non era vincolante, l’allora presidente Romano Prodi
dichiarò subito che “Parlamento e Commissione hanno già fatto sapere che
intendono applicare integralmente la Carta”. Proposito ribadito e reso
più impegnativo da successive comunicazioni della Commissione.
Oggi
l’orizzonte è mutato, l’Unione agisce come se la Carta non vi fosse,
nega ai cittadini il valore aggiunto ad essa affidato proprio per
acquisire legittimità attraverso la loro adesione, e muta i cittadini da
attori del processo europeo in puri spettatori, impotenti e sfiduciati
di fronte all’arrivo da Bruxelles di imposizione di sacrifici e non di
garanzie dei diritti. V’è in tutto questo una contraddizione, un
abbandono della logica che volle il passaggio dell’espressione “Mercato
unico” a “Unione europea”, che avrebbe dovuto avvicinare istituzioni e
cittadini, e questi tra loro. E vi è pure un abbandono di quanto è
scritto nel Preambolo della Carta, dove si afferma l’Unione “pone la
persona al centro della sua azione”.
Una “costituzione finanziaria”
ha sostituito tutto questo, e dunque da qui bisogna ripartire, anche
perché si è diffusa la consapevolezza dei guasti provocati da una sua
assunzione acritica. Questo dovrebbe essere il tema centrale delle
imminenti elezioni europee. Altrimenti finirà che, sul versante degli
europeisti, prendano il sopravvento le lamentazioni contro i populismi
antieuropei, quelli che l’Economist chiama la “Europa dei Tea Parties”,
mentre bisogna guardare a fondo nelle loro ragioni e produrre gli
anticorpi necessari. E questo può avvenire solo se si ricompone il
contesto costituzionale europeo, reintegrandolo con la Carta, anche per
riprendere un diverso filo della stessa discussione economica. Così
acquisterà chiarezza anche l’obiettivo di avere più Europa politica. Per
fare che cosa? Rendere ancora più stringente la logica economica? O
ridare fiato ad un pensiero che non si accontenta di questo inquietante
riduzionismo?
Partire dall’Europa, allora, non è un parlar d’altro,
un tentativo di eludere le specifiche questioni italiane. È un passaggio
obbligato proprio per definire meglio le responsabilità nazionali, oggi
frammentate tra difficoltà ed egoismi dei singoli Stati, per affrontare
senza reticenze non l’antieuropeismo spicciolo di chi cercherà di
lucrare qualche consenso alle prossime elezioni, ma l’obiezione radicale
di chi, da ultimo Wolfgang Streeck, vede ormai nell’Unione europea
l’epicentro della “colonizzazione capitalistica”. La replica di Juergen
Habermas a questa tesi può anche apparire non del tutto convincente, ma
coglie un punto di verità quando segnala il rischio di “una rinuncia
disfattista al progetto europeo”, che non aprirebbe la via a una Europa
rinazionalizzata, ma manterrebbe al centro proprio le distruttive
dinamiche della pura austerità. L’ipotesi è quella di democratizzare il
sistema delle istituzioni europee, intervenendo sui trattati. Ma questa
strategia sarebbe monca e debole se rimanesse fuori la revisione della
nuova costituzione economica e, soprattutto, se si ignorasse il grande
conflitto sui diritti che ha già devastato l’Europa accrescendo distanze
e diseguaglianza, impoverendo intere popolazioni, e che è oggi
l’ostacolo vero per la creazione di un “popolo europeo”. Se vi è un
errore nelle ripulse d’una sinistra estrema, altrettanto rischiosa è
l’incapacità dell’altra sinistra di considerare ineludibile questo tema.
Esiste
ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe
essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte
d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la
necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali. Proprio per
questo l’attenzione alla sola dimensione dell’economia sarà
insufficiente se non sarà reintegrata in questo più vasto contesto.
Qui
si coglie il nesso tra Europa e Italia, dove troppi continuano a
separare le due questioni e dove è in atto il tentativo di scorporare
dalla Costituzione tutta la parte relativa ai diritti. Si è manifestata
una critica irridente i difensori dei diritti fondamentali, sfruttando
una colorita battuta di Roberto Benigni sulla “Costituzione più bella
del mondo”. In discussioni impegnative si dovrebbero frequentare anche
altre fonti. Massimo Severo Giannini, ad esempio, che definì “splendida”
la prima parte; o Leopoldo Elia, che nella Costituzione vide “una delle
migliori prove del costituzionalismo europeo, soprattutto per la
completezza e lo spessore della dichiarazione dei diritti civili,
sociali e politici”. Questo non è trionfalismo, ma l’indicazione di una
politica costituzionale che, proprio in vista di riforme della seconda
parte, non può abbandonare i principi definiti nella prima. Unione
europea e Italia hanno il medesimo problema di ricomposizione
dell’ordine costituzionale come condizione della sopravvivenza della
stessa democrazia.
A tutti gli europei, e ai loro governanti,
dovrebbe essere imposta la lettura dell’ultima pagina dell’Omaggio alla
Catalogna di George Orwell, con la straordinaria descrizione
dell’inconsapevolezza inglese verso i segnali dell’imminente guerra
mondiale. Rassicurati allora nelle loro piccole certezze (“non vi
preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casa
domattina e ilNew Statesman uscirà di venerdì”), chiusi oggi i paesi più
ricchi in una insolente rottura d’ogni solidarietà e progetto comune,
proprio così si erodono le basi di una “Unione” ben più degli
antieuropeisti di professione.
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