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| Susanna Basso |
Sara Scarafia
Susanna Basso: "Traduco Jane Austen con molto orgoglio e senza alcun pregiudizio"
La Repubblica, 1 dicembre 2025
Sette anni per sei romanzi. Susanna Basso, signora della traduzione italiana, voce di McEwan e Barnes, Strout e Munro, Ishiguro e Amis, confessa che quando ha ricevuto la proposta di ritradurre per I Meridiani l’intera opera austeniana (i sei romanzi completati e i due rimasti incompiuti) ha tentato in tutti i modi di dire di no: «Poi mi è arrivata a casa la cassa dei volumi bellissimi della Cambridge University Press: tutta Jane Austen. Di fronte a quella meraviglia ho pensato che non si potesse dire di no. Ho accettato ma con grandissimo spavento». Basso vive a Torino, il suo studio è una grande scrivania che fronteggia una libreria colorata dai dorsi della sua biblioteca. Sul divano decine di taccuini di appunti vergati dalla sua grafia minuta.
Aveva già tradotto Austen, cosa la spaventava?
«Questa è stata l’impresa della mia vita. La prima volta, nel 1996, era stata per la collana “I classici classici ” diretta al tempo da Aldo Busi. Il grandissimo spavento dei miei sessant’anni non corrisponde alla disinvoltura con la quale a quaranta avevo accettato».
Un traduttore è prima di tutto un attento lettore: cosa ci restituisce oggi Jane Austen, a 250 anni (il 16 dicembre) dalla sua nascita?
«A me verrebbe da dire: sembra ieri. Virginia Woolf secondo me aveva capito tutto: individua quella grandezza quando dice di essere presa al laccio dalle frasi di Austen. Ed è proprio quello che succede».
Qual è la sua forza?
«La scomparsa di Dio e dell’Io. Austen non scrive mai di Dio nonostante sia figlia di un pastore protestante. Poi c’è lei, inafferrabile: Jane non è in casa, non la si trova nei suoi testi. La sua è scrittura pura, che non concede spazio ai giochi di prestigio. Poche descrizioni, un affondo psicologico che rende i suoi personaggi indimenticabili. Quelli che Ishiguro definisce i nostri amici artificiali».
Lei traduce le grandi e i grandi contemporanei. Com’è cambiata la lingua del romanzo nel tempo?
«Quello che posso dire è che in tutte le grandi voci che ho avuto il bene di frequentare si può riconoscere una fortissima impronta vocale. L’impronta vocale di un autore come Ian McEwan, come Julian Barnes, come Ishiguro: la senti nelle frasi e, nel mio caso privilegiato, la risenti andando avanti tornando più volte a tradurla. Vale per le geometrie linguistiche di McEwan, l’eleganza sublime di Ishiguro, per il flusso di coscienza stroutiano e poi per quella inafferrabile quiete apparente di Alice Munro».
Qual è il libro che ha amato di più tradurre?
«Experience di Martin Amis è forse quello che mi ha dato più filo da torcere: l’ho detestato per tutto quello che comportava in termini di senso di inadeguatezza, di realizzazione che qualcosa non stava funzionando. E poi a un certo punto è diventato una meraviglia».
Che rapporto ha con gli autori e le autrici che traduce: aneddoti? Ricordi?
«A differenza di alcune colleghe e colleghi che avviano corrispondenze intense e proficue con gli autori che traducono, io non riesco a trasformare questi rapporti in scambi personali: è una mia forma di timidezza, suppongo. Gli incontri comunque sono stati tutti felicissimi, desiderati e quindi anche molto felici. Mi piace raccontare di aver incontrato Alice Munro quando aveva già smesso da molto tempo di lasciare il Canada. Ed è stato sorprendente».
Perché?
«Io mi aspettavo che fosse una donna molto minuta e invece era una signora alta e con una bellissima figura, anche importante. E poi ho avuto la conferma della sua voce, perfino della sua voce in termini acustici, della sua allegria e della sua perfidia. Eravamo in un hotel di Roma, una Roma torrida, caldissima, era il 10 di luglio. Munro ha capito che con me poteva fare pettegolezzi sui suoi personaggi, come fossero persone di quel villaggio nel quale tutte e due eravamo state, di quella geografia immaginaria».
Gli amici artificiali, appunto. McEwan e Ishiguro?
«McEwan l’ho incontrato molte volte, fino a pochi giorni fa. Sono sempre stati incontri affettuosi. Ormai parliamo dei nostri nipoti, ci mostriamo le foto a vicenda. Ishiguro è di una gentilezza e di una modestia assolute: è esattamente come le sue parole, sobrio come la sua prosa. Barnes, un uomo divertentissimo: ho trascorso con lui un paio di giorni meravigliosi e indimenticabili a Capri per il premio Malaparte».
McEwan ha appena pubblicato in Italia un libro (“Quello che possiamo sapere”) accolto come un capolavoro.
«McEwan attraversa i suoi molteplici saperi che vanno dalla musica classica, leggera e jazz, alla scienza, al diritto, all’arte e alla religione».
I grandi autori anticipano il futuro?
«No, capiscono il presente che secondo me è la cosa più straordinaria che si possa fare. Perché se del futuro non sappiamo nulla, è il presente che già ci sfugge. Pensiamo alle quattro famiglie di campagna di cui parla Jane Austen, che in realtà si affacciano sulle guerre napoleoniche, sulla schiavitù. Non è vero come si dice che Austen è fuori dal suo tempo, e Nabokov l’aveva capito benissimo».
L’amore resta la spina dorsale del romanzo?
«Sì, certo, l’amore è un motore narrativo meraviglioso, come la morte. Ma l’amore in Austen non è affatto banale. L’altro luogo comune è che lei non racconti cosa succede dopo il matrimonio. Tutti i matrimoni che racconta, tranne uno, quello dell’ammiraglio, sono noiosi, di convenienza, tollerati, finiti, in più casi, già vedovanze».
Qual è stato il primo vero libro che ha tradotto?
«Il mio primo lavoro è stato l’epistolario delle sorelle Brontë, tradotto sotto l’egida di Barbara Lanati, la mia insegnante, e con la revisione di Angelo Morino. Il primo libro importante è stato Bambini nel tempo di McEwan: lì ho capito che si era aperta la strada».
C’è un libro che avrebbe voluto tradurre?
«Ce ne sono tantissimi, ma c’è un autore, anzi un’autrice sulla quale mi piacerebbe tanto lavorare: George Eliot».
Lei è stata anche un’insegnante. Ha ancora senso scrivere, leggere, parlare di letteratura?
«Basta conversare con qualcuno per sentire quanto bisogno abbiamo delle bugie che ci raccontiamo, dell’invenzione che proponiamo agli altri di noi stessi».
Sara Scarafia
Liliana Rampello: "Jane Austen? La grande narratrice dell'eros"
La Repubblica, 4 ottobre 2025
Altro che zitella, Jane Austen è la grande narratrice dell’eros. Parola di Liliana Rampello. Critica letteraria e saggista, per anni docente di Estetica all’Università di Bologna, Rampello è stata la curatrice dei due Meridiani Mondadori (pubblicati uno nel 2024 e l’altro nel 2025) dedicati alla grande Austen e, nell’anno che celebra i 250 anni della nascita della scrittrice inglese, ha curato per Neri Pozza una deliziosa antologia, Un anno con Jane Austen: un brano da uno dei suoi sei romanzi perfetti (Rampello per il Saggiatore aveva scritto il saggio Sei romanzi perfetti) per ciascuno dei 365 giorni. Una sorta di viaggio tematico – incipit, matrimoni, seduttori, balli e tanto altro – per rinnovare la scoperta di un’autrice che continua ad affascinare milioni di lettori e lettrici in tutto il mondo.
Rampello, Austen maestra dell’eros?
“Leggendo e rileggendo Austen, grazie anche alla meravigliosa palestra dei Meridiani, ho notato quanto sia sottile il suo modo di lavorare il tema dell’erotismo. Pensiamo al ballo, che considero una metafora dell'incontro tra i sessi. In una sequenza di movimenti prestabiliti, Austen esprime l’attrazione, questo sottile erotismo, in molti modi: dal sorriso all’assenza di sorriso, dal silenzio alla parola, dallo sfiorarsi alla presa più forte, più decisa. Le relazioni, che lei narra magistralmente, sono tutte giocate sul desiderio. La tensione sessuale è fortissima”.
Per questo Austen parla ancora alle nuove generazioni?
“Quella che lei racconta è una dinamica fortissima nell’adolescenza, il momento della scoperta dell’altro. Pensiamo a quando Lizzy Bennet si infuria perché Darcy al ballo dice che è passabile ma non abbastanza bella: la rabbia di lei è anche per lo sguardo maschile che non la vede. I suoi romanzi sono pieni di cose importantissime e attuali”.
Cosa la rende una narratrice così sorprendente?
“È un'autrice spartiacque: c’è un prima e un dopo di lei. La forza della sua scrittura è ovviamente nello sguardo, questo sguardo così acuto, così preciso. Nella capacità di ribaltare il senso comune a favore del buon senso. Ma anche nell’intuizione che il cuore di qualsiasi narrazione sono le relazioni umane. Lei racconta in fondo di una ragazza che insegue il proprio desiderio di felicità: anche questo fa di lei una inarrivabile scrittrice, la più perfetta, appunto, delle scrittrici inglesi. Senza contare l’ironia e la capacità di parlare dei sentimenti, compresa la vergogna sia femminile sia maschile. I suoi protagonisti maschi si sentono in dovere di riparare il torto fatto da altri uomini alle giovani donne: questo è un grande elemento di modernità. E poi ha inventato il discorso indiretto libero”.
“Nelle sue pagine c’è sempre qualcosa che non avevi notato: una sfumatura, un elemento dell'intreccio, la costruzione di un capitolo che ti era sfuggita. Leggerla in questi anni è stata per me una continua riscoperta che mi ha lasciata piena di meraviglia e questa meraviglia la condivido con milioni di lettori e lettrici. Non si capirebbe altrimenti perché un romanzo che parla di innamoramenti, amore, matrimoni, balli, carrozze e soprattutto perché un romanzo dell'inizio dell'Ottocento, sia ancora così amato”.
Come ha potuto una ragazza dell’Ottocento con una vita così normale, raggiungere questi livelli di perfezione? Come è possibile il miracolo Jane Austen?
“Impossibile scoprire come mai è un genio. Ma sappiamo che ha fatto delle scelte anche di grande sacrificio personale: ha scelto di essere una scrittrice e non solo perché non ha incontrato qualcuno da sposare. Una delle poche informazioni certe che abbiamo su di lei è che ha rifiutato una proposta di matrimonio che aveva accettato la sera prima. Lei sapeva che sposarsi significava fare figli, correre il rischio di morire di parto, e non voleva pagare un prezzo così alto rinunciando al suo talento. Continua a scrivere nonostante la fatica che le costa, nonostante i primi rifiuti editoriali. Cura da sola i diritti dei suoi libri, una scelta che indica una tenace determinazione. Allo stesso tempo il suo talento è stato accompagnato da studio e da lettura”.
Per chi non la conosce ancora: come leggere i romanzi di Austen?
“Io direi che durante l'adolescenza, si potrebbe cominciare con Northanger Abbey, dal sapore gotico, e da Ragione e sentimento che racconta il dolore dell’amore quando il cuore è ancora molto giovane. Poi, più avanti, per divertirsi, Orgoglio e pregiudizio ed Emma: entrambi allegri, spumeggianti. A seguire Persuasione, perché è in qualche modo molto maturo, e infine Mansfield Park che ha bisogno di un'attenzione particolare, perché con la sua protagonista non sviluppiamo una immediata empatia”.
Che cosa avrebbe scritto se fosse vissuta più a lungo?
“Avrebbe finito Sanditon e ci avrebbe fatto capire, da scrittrice materialista quale era, come il capitale finanziario stava sostituendo la rendita fondiaria in Inghilterra. La trasformazione di un piccolo paese di mare in una stazione balneare è un’idea geniale”.
Tra le scrittrici di oggi c’è qualcuna che ha raccolto il suo testimone?
“Sally Rooney: ha la stessa capacità nel raccontare la sua generazione che ha avuto Jane Austen. Tutti i libri di Rooney sono incentrati su quello che lei fa, che sperimenta, che vede: anche lei non si occupa dei grandi temi del mondo ma di Normal People”.

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