Mattia Ferraresi
Il discorso febbrile (e debole) di Trump
Domani, 19 dicembre 2025
lI febbrile discorso alla nazione pronunciato da Donald Trump dalla Casa Bianca restituisce l’immagine di un presidente sotto pressione, incalzato dagli eventi e in qualche modo consapevole della fase difficile. L’ultimo sondaggio di Npr/Pbs dice che solo il 36 per cento degli americani approva la sua gestione dell’economia, che era il cuore del discorso presidenziale e delle preoccupazioni degli americani. Trump sta superando ogni record di impopolarità.
È in questo contesto che va letto un intervento che era costruito come una lunga autodifesa, attraversata da toni apocalittici e dalla ripetizione ossessiva, e a questo punto patologica, del «disastro ereditato» da Joe Biden.
Trump ha ripetuto di aver ricevuto un paese «in macerie», ha parlato di un’America travolta dall’inflazione peggiore «degli ultimi 48 anni» (non si sa perché abbia preso come riferimento il 1977, ma comunque il dato è falso) che ha reso il costo della vita «inaccessibile per milioni di americani». La formula serve a scaricare le colpe sul predecessore e a giustificare l’urgenza delle sue scelte.
Il contenimento dei consiglieri
Il presidente insiste sull’idea di una nazione che si sta miracolosamente riprendendo dopo essere stata a un passo dal collasso: «Un anno fa il nostro paese era morto. Pronto a fallire totalmente», ha detto, introducendo un lungo elenco di misure con cui Biden avrebbe messo in ginocchio il paese, dall’immigrazione di massa all’imposizione dell’ideologia woke. Per liberarsi di questo sortilegio totalitario non servivano nuove leggi, «serviva semplicemente un nuovo presidente»
C’è una tensione evidente nel discorso. Trump non parla da vincitore, ma da leader che sente il terreno muoversi sotto i piedi. La ripetizione ossessiva dei successi, l’elenco martellante di risultati economici e di dati selezionati capziosamente, la continua contrapposizione con il passato democratico funzionano come contrappesi retorici alla sua fragilità politica.
Sull’inflazione, Trump ha evitato gli eccessi verbali che in passato avevano allarmato anche il suo stesso campo. Nessun riferimento a complotti o negazioni della realtà economica, l’aumento dei prezzi non è più una bufala inventata dalla sinistra, come ha ripetuto tante volte. Al contrario, ha scelto di snocciolare dati e percentuali, ammettendo il problema ma assicurando che «i prezzi stanno scendendo rapidamente» e che «i salari stanno crescendo più velocemente dell’inflazione».
È una scelta che riflette il consiglio del suo entourage disperato, che lo implora da settimane di restare sulle questioni di politica interna e di evitare di indispettire ulteriormente una base MAGA che scricchiola da tutte le parti. Un discorso del genere segnala in maniera implicita che Trump continua ad avere bisogno di una figura di contenimento come Susie Wiles, la capa di gabinetto finita nella tempesta per aver descritto in modo non proprio encomiastico Trump e mezza amministrazione in una serie di interviste a Vanity Fair, rilasciate con somma ingenuità o calcolata perfidia, a seconda delle interpretazioni.
Immigrazione pigliatutto
Il tema che ripropone nel modo più ossessivo resta l’immigrazione. Trump ha parlato di una «invasione» di 25 milioni di persone, accusando la precedente amministrazione di aver aperto le frontiere a «criminali, spacciatori e assassini». Il linguaggio è quello consueto, segnato da iperboli e aggressioni continue, e nel discorso ha sintetizzato con efficacia il perno del suo argomentare: l’immigrazione è la spiegazione universale di ogni male, dall’aumento dei costi delle case alla pressione sui servizi pubblici. Un capro espiatorio pigliatutto per ricompattare la base in una fase di debolezza.
È stato un discorso meraviglioso, visto da Mosca e da Pechino. Trump dà la colpa di ogni male a un avversario interno, amplificando la percezione degli Stati Uniti come potenza confusa, litigiosa e autodistruttiva, il luogo dove il presidente insulta nel modo più vile concittadini uccisi in modo brutale e piazza targhe piene di insulti sotto la carrellata delle fotografie presidenziali, esposte più per offendere che per celebrare.
Per le potenze rivali, Trump non appare come l’uomo forte che descrive, ma come un presidente sotto stress, impegnato a contenere una crisi di consenso. Un leader che alza il volume della retorica proprio mentre cerca di tenere insieme, in modo sempre più complicato, la sua maggioranza politica.

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