Sara Sullam
Tragica Lady Macbeth dalla provincia russa
Il Sole 24ore, 7 dicembre
«Si trovano, a volte, dalle nostre parti, caratteri così terribili che, anche molto tempo dopo averli incontrati, non si può non provare, ricordandone alcuni, un fremito di paura nell’anima. Al novero di questi appartiene la mercantessa Katerina L’vovna Izmajlova, che fu protagonista un giorno di un dramma atroce, dopo il quale i signori della nostra nobiltà, seguendo l’esempio di qualcuno di loro, presero a chiamarla “la lady Macbeth del distretto di Mcensk”».
Inizia così l’omonima novella di Nikolaj Leskov (1864) da cui è tratta l’opera di Šostakóvič, che narra di Katerina Izmajlova, giovane donna sposata con l’impotente Zinovij, figlio del mercante Boris, la quale, avendo ceduto al fascino del bracciante Sergej e non più disposta a essere oppressa e sopprimere il proprio desiderio, si macchia di diversi omicidi fino a porre termine alla propria vita, tradita in amore e prigioniera. Appare evidente sin da subito che siamo ben lontani – geograficamente e simbolicamente – dalla Lady Macbeth shakespeariana. E infatti sono i “signori” a definire Katerina una Lady Macbeth, e per giunta di provincia, forse perché la lady scozzese è un’incarnazione generica della paura suscitata da una donna non del tutto passiva – paura da esorcizzare in un destino tragico.
Nel 1932 Šostakóvič e il suo librettista Preis danno voce a Katerina, non più mediata da un narratore che la osserva e la giudica, rendendola protagonista di un’opera destinata dapprima a grande fortuna, poi caduta in disgrazia, ma ormai da lungo tempo riscattata e saldamente nel canone dei classici novecenteschi. Šostakóvič e Preis guardano Katerina alla fine della stagione postrivoluzionaria in cui la liberazione della donna era stata all’ordine del giorno. Così, dalle possibilità offerte dall’adattamento scenico nonché da quel nuovo sguardo, emerge un’eroina non più efferata pluriomicida, incarnazione dell’“ardore scatenato”, come la definì Walter Benjamin nel suo saggio su Leskov, ma donna che uccide anche per tragica necessità, per liberarsi dall’oppressione della società mercantile e dal dominio maschile. Così va in scena l’opera dal 1934 al 1936, quando, a un enorme successo di pubblico, segue la censura irrevocabile della «Pravda». Nel 1955 Šostakóvič inizia a lavorare a una versione rivista, Katerina Izmajlova (1963), ma nel blocco occidentale, e soprattutto dopo il rilancio da parte di Rostropovič nel 1979, circola anche la prima versione.
Una simile vicenda di adattamenti, da un lato, e dall’altro di rifrazioni dell’archetipo di Lady Macbeth si svolge lungo il Novecento, secolo “breve” (o “degli estremi”, come lo definiva lo stesso Hobsbawm) ma anche “delle donne”. Molte sono le questioni che convergono in Katerina. Giunti a un quarto del ventunesimo secolo, viene da chiedersi come le leggiamo – e guardiamo – oggi, accogliendo un invito di Virginia Woolf: «Leggete l’Agamennone e provate a vedere se col tempo le vostre simpatie non sono passate quasi totalmente dalla parte di Clitennestra». Se già la prospettiva su Katerina cambia radicalmente da Leskov a Šostakóvič, come assistiamo a un’opera in cui le questioni che in Katerina confluiscono sono segnate irrimediabilmente dalla violenza, o meglio, sono espresse attraverso almeno due scene in cui con la violenza, da spettatori, dobbiamo convivere? Nella prima la contadina Aksin’ja è immobilizzata dentro una botte e abusata da diversi uomini; nella seconda, invece, gli abbracci di Sergej non lasciano scampo a Katerina nonostante lei cerchi di divincolarsi. Ma, con un colpo di scena ancora più perturbante, Katerina all’improvviso dice «Esisti solo tu per me».
La protagonista di Šostakóvič è in grado di opporsi alla violenza subita da Aksin’ja con un discorso che culmina in «Adesso ti prendo e te le suono perché tu sappia di che cosa è capace una donna», oppure di liquidare il marito con «Né a te né a nessuno permetto di parlare dei miei amori». Ma il destino che la attende è doppiamente tragico: non solo perché – come vuole la verosimiglianza – lei e Sergej, scoperto l’assassinio di Zinovij, vengano deportati in Siberia, ma perché la liberazione – della sua volontà e del suo desiderio – si infrange con il tradimento di Sergej che la porta al suicidio, gesto esiziale in cui trascina la sua rivale in amore, la prigioniera Sonetka. Ed è questo un gesto di violenza, forse meno visibile ma non meno profonda: come se non fosse possibile liberare le donne anche da un immaginario ben delimitato. La traiettoria di Katerina resta compresa tra la sottomissione, la violenza ammantata di romanticismo, la gelosia che la spinge al gesto disperato e che si configura in opposizione alla solidarietà espressa a Aksin’ja. Šostakóvič ha in parte liberato Katerina, sprigionandone insieme al desiderio la forza politica. Alla regia la sfida di gestire la rappresentazione della violenza in scena, a noi spettatori quella di liberare, di qui, le donne da un destino irrimediabilmente tragico.
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