Daniela Preziosi
L'unità dei progressisti, la fede di una vita intera del comunista Cossutta
Domani, 14 dicembre 2025
«Compagno, se non hai una soluzione, non hai un problema. Torna quando hai una soluzione». Rispondeva così Armando Cossutta, sempre, quando uno dei suoi chiedeva udienza per porgli un problema, in massima riservatezza. Ascoltava in silenzio, tamburellando con le dita quando il tempo era scaduto. Chiedeva: qual è la soluzione? Se non l’avevi, eri congedato. Ma avevi avuto la tua lezione: di politica, di realismo, di concretezza. Sinonimi, per lui. Era allergico al velleitarismo.
Per la battaglia politica serve temperanza. E disciplina: che era una virtù e si poteva rompere solo a tempo debito. Altrimenti si rischiava dal bel gesto inutile all’avventurismo, somma ingiuria, come l’infantilismo per Lenin. «Nulla faceva in modo dilettantesco», ricorda lo storico Luciano Canfora, che oggi parlerà di lui alla sala Matteotti della Camera per i dieci anni dalla sua morte, alla soglia dei novant’anni, il 14 dicembre 2015.
Gli smemorati della sinistra
C’è voluto un anniversario tondo, e l’amore di Maura, con i fratelli Maria e Dario – figli dell’indimenticabile Emi Clemente, compagna di una vita dell’Armando – per costringere i nuovisti e reticenti della sinistra a ripensare alla vita e all’eredità trascurata di Cossutta. Un «comunista italiano», recita l’invito.
Di un «altro comunismo», chiosa Massimo D’Alema, anche lui fra gli oratori, insieme a Luciana Castellina – fondatrice del manifesto, radiata nel ‘69 dal Pci anche dai cossuttiani, ma anche dal suo Ingrao, poi amica ritrovata trent’anni dopo nella seconda mozione al congresso di scioglimento del Pci e poi ancora nella Rifondazione – e Rosy Bindi, ulivista doc e ministra dei governi sostenuti da quei comunisti. Parlerà anche Carlotta Cossutta, nipote, femminista di ultima generazione. Suo nonno non ha mai rinunciato al suo essere comunista, a costo di sedersi dall’esecrata parte dei filosovietici, ben più scomoda dell’elegante «parte del torto» dei compagni radiati del manifesto.
Essere comunista per lui era tante cose, ma soprattutto fare unitario. «Autonomia e unità» è stata la cifra della sua vita, stare in «una formazione di sinistra ma in rapporto unitario con le forze progressiste». Da quando uscì dal Pci che rottamava la falce e martello e fondò la Rifondazione; a quando ruppe la Rifondazione: mantenne ancora la falce e martello ma voleva salvare il governo Prodi. «Cossutta o non Cossutta, l’Ulivo è alla frutta», scrisse Pansa. Non bastarono i voti, ma salvò la legislatura. Ebbe il coraggio politico di digerire pure i voti di Cossiga.
Ma qui siamo già verso la fine, la sua lunga vita di politica inizia da partigiano delle Brigate Garibaldi, il suo capo fu trucidato dai fascisti a Milano, a piazzale Loreto. Luigi Longo, il più sottovalutato dei segretari, lo crebbe a pane e organizzazione; segretario del Pci di Sesto San Giovanni (sui muri dell’ex Breda lo ricordano i murales dei graffitari di Artkademy), ventenne, fu il capo della federazione milanese incaricato da Togliatti di epurare i secchiani. In segreteria anche con Berlinguer, ma troppo potente («Ha accumulato troppo potere, del quale peraltro non ha abusato»). Lo spostò agli enti locali.
Il mito del filosovietico
Però restava «l’uomo di Mosca»: era il referente del Fondo di solidarietà con cui l’Urss sosteneva i partiti fratelli. Quei soldi, raccontò poi contro tutte le leggende, non servivano a finanziare il lavorìo contro il segretario ma a tappare i buchi della stampa comunista. Si schierò contro «lo strappo» (definizione sua) con l’Urss. Restò leale, ma crebbe il mito del filosovietico. Fino agli anni della Bolognina. La satira pungeva: «Come risponde Mosca alla svolta di Occhetto? “Armando” Cossutta».
Stavolta sì, organizzò la scissione e la nascita della Rifondazione. Il suo capolavoro. Ancora «unità e autonomia»: un amalgama neocomunista con trozkisti e ex Dp. Gli ingraiani arrivarono dopo, dicevano: «I migliori e i peggiori». I migliori loro, i peggiori i cossuttiani. Ma senza Cossutta – e Sergio Garavini, Ersilia Salvato, Lucio Libertini, Rino Serri – non se ne sarebbe fatto niente. Nel ‘94 impone segretario l’ex sindacalista Fausto Bertinotti: serviva un uomo con un canestro di parole, al passo con i media. Alle politiche del ‘96 schiera il Prc con l’Ulivo, che vince. Quell’anno, per i suoi 70, c’è un mare di gente nel parco di Sesto. Poi tutti a cena, in centinaia, con Giovanni Pesce e Inge Feltrinelli.
Quando nel ’98 Rifondazione vota no alla finanziaria, Cossutta annuncia, con Oliviero Diliberto e altri, il sì. Non basta a salvare Prodi, ma nasce il Partito dei comunisti italiani e poi il governo D’Alema. L’Italia partecipa ai bombardamenti Nato in Kosovo. Cossutta invoca pace e tenta la mediazione: vola a Belgrado da Milosevic. «Culosevic» gli urla dietro Pannella. La mediazione fallisce, lui resta leale al suo governo e al suo paese. Nel 2006 il Pdci è nell’Unione, che vince.
Ma il governo cade dopo due anni. Nasce il Pd, Veltroni strappa con la sinistra sinistra. E dal canto suo, il Pdci di Diliberto seppellisce la spinta unitaria. È qui che Cossutta lascia anche l’ultimo partito comunista che ha fondato. Diventa vicepresidente dell’Anpi. Nel 2009 dichiara il suo voto per il Pd. Ma sempre da «comunista». Non per atto di fiducia verso il Pd: per la fede di tutta una vita nell’unità delle sinistre.




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