Claudio Velardi
Repubblica in sciopero prima della vendita: il giornale-partito che ha affossato la sinistra
Il Riformista, 12 dicembre 2025
In questi giorni molti progressisti sono in gramaglie per la possibile vendita di Repubblica ad un nuovo padrone, che si suppone di destra. Ma dal cambio la sinistra potrebbe guadagnarci, provando a ritrovare alcune sue ragioni. La storia di Repubblica non è semplice cronaca editoriale: ha a che fare con la trasformazione dell’Italia.
Repubblica, il ‘partito dei lettori’
Quando nacque con la guida di Eugenio Scalfari, nel 1976, il giornale fu un fattore di modernizzazione della stampa italiana e un prodotto editoriale con una visione politica esplicita. Dopo inizi stentati, intercettò e diede voce a un’Italia nuova che avanzava, fatta di ceti urbani, professionisti, intellettuali laici, femministe, movimenti giovanili e una parte del mondo cattolico progressista. Smantellando il vecchio modello degli altri quotidiani italiani, Repubblica si propose subito come giornale del “partito dei lettori”. Non era di nessuno, ma di tutti coloro che condividevano un’idea di progresso, laicità e apertura verso l’Europa. Questa sua architettura moderna, asciutta, con una forte spinta narrativa (le inchieste, i reportage, le firme), rappresentò una grandissima novità editoriale.
L’intenzione politico-culturale di Repubblica
Ma il disegno conteneva un’intenzione politico-culturale più profonda: emancipare la sinistra dalla sua tradizione comunista (non per caso il nuovo giornale fagocitò lo spazio e rapì firme importanti a l’Unità), proponendo un vero e proprio progetto di modernizzazione del Paese. Repubblica, in sostanza, non si limitava a informare, ma puntava a essere la punta di lancia di una nuova area progressista. Il giornale si posizionò così in modo critico verso la linea comunista del “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana (salvo riagganciare il PCI dopo la svolta moralistica di Berlinguer del 1980), proponendo una visione radicale nei costumi, liberale nell’economia e intransigente nell’etica. Un profilo che mal si conciliava con la cultura popolare e da apparato del PCI.
Giustizialismo
Con il crollo del Muro e la crisi di identità della sinistra post-comunista, Repubblica divenne il vero centro propulsore di un’identità che si potrebbe definire neo-azionista e giacobina. Era forte, anzitutto nel fondatore del giornale, il richiamo all’azionismo storico, con la sua enfasi sul rigore morale, sulla centralità dell’intellettuale, sul rigetto della cosiddetta partitocrazia e sul richiamo alla necessità di poteri forti e “illuminati” contro l’arretratezza italiana. Successivamente, con Tangentopoli, la linea del giornale non solo sostenne il giustizialismo, ma lo promosse attivamente come unico antidoto alla corruzione, imponendo un clima di guerra civile etica che minò alle fondamenta la vecchia classe dirigente (inclusa quella del PCI) e favorì l’affermazione di una nuova élite, spesso cooptata dal giornale stesso.
Il partito di Repubblica
Il risultato fu la nascita del “partito di Repubblica”: un circuito autoreferenziale in cui il giornale dettava l’agenda, promuoveva i suoi intellettuali e i politici di riferimento, e definiva i confini del “progressismo” accettabile. La piattaforma si declinava soprattutto sul piano culturale, attraverso i suoi inserti, i suoi critici e i suoi festival, esercitando una funzione di validazione e legittimazione totalizzante: la sezione culturale del giornale diventò per tutti il canone del “buon gusto” progressista, promuovendo tutto ciò che appariva modernizzante, elitario e di rottura, spesso a scapito della cultura popolare legata alla storia della sinistra.
La “sinistra della ZTL”
In questo modo il giornale sostituì la narrativa della lotta di classe e delle disuguaglianze economiche con quella della modernizzazione dei costumi e delle libertà individuali, relegando la questione sociale in secondo piano. L’evoluzione successiva di questo percorso è ciò che, in termini contemporanei, si può chiamare la virata “woke”. Nel tempo, Repubblica è diventata il principale veicolo italiano per le battaglie sui diritti civili, di genere e identitarie. Battaglie promosse con tale enfasi da relegare quasi a un sussurro le tematiche legate al lavoro, ai salari o allo sviluppo. Questo modello ha esaltato la “sinistra della ZTL”: un’élite istruita, urbana e benestante, ossessionata dalla “correttezza politica” e incapace di parlare alle periferie, al ceto medio impoverito e alla classe lavoratrice. Così la sinistra tradizionale, già indebolita dal neo-azionismo etico, è stata definitivamente svuotata della sua identità popolare da un’egemonia culturale che ha azzerato le problematiche sociali ed economiche.
Chi vuole capire qualcosa della disfatta della sinistra provi a studiare la storia di Repubblica
Oggi Repubblica naviga in un panorama mediatico frammentato: le vendite arrancano, per motivi generali, ma anche perché la sua identità politica è in crisi. Il “partito dei lettori” è diviso tra testate arrembanti, social media e nuove sensibilità. L’idea editoriale del 1976 ha avuto storicamente successo, ma il suo progetto politico-culturale ha finito per cannibalizzare la sua stessa area di riferimento, generando un effetto collaterale colossale: la dissoluzione e la conseguente irrilevanza di una sinistra che ha perso il contatto con il suo popolo, a causa di un modello culturale nato con l’obiettivo di modernizzarla. Chi vuole capire qualcosa di più della disfatta della sinistra italiana, provi a studiare bene la storia di Repubblica. E se qualcuno vuole ridare fiato alle ragioni vere della sinistra, non pianga troppe lacrime se Repubblica finirà nelle mani (così sembrerebbe) di un capace armatore greco. La sinistra, in ogni caso, andrà rifatta altrove.

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