Giovanna Taverni
Un cantante nato poeta: nell'aldilà di Leonard Cohen
Domani, 14 dicembre 2025
Leonard Cohen è morto quasi dieci anni fa, lasciando il vuoto di un essere umano scomparso, ma anche una prodigiosa raccolta di canzoni e poesie che resistono allo scorrere del tempo. Cohen è sempre stato un personaggio sfuggente, in molti hanno provato ad afferrare il suo mistero e la sua lingua di cantautore-poeta, difficile catturarlo in una sola immagine, perché Cohen aveva l’anima del ricercatore che non dava verso di fermarsi, la sua parabola è quella del cantautore errante. Pure dalla musica gli è capitato di sparire, concedersi momenti di evasione per poi riapparire sulla scena all’improvviso. Con queste premesse è difficile scrivere una biografia di Leonard Cohen, e chi si avventura nella spericolata impresa va ricompensato con una lettura.
Nelle librerie italiane è da poco arrivata una nuova biografia di Leonard Cohen: l’autore è il professore Christophe Lebold, che insegna letteratura e storia della musica rock all’università di Strasburgo. Leonard Cohen. L’uomo che ha visto cadere gli angeli (minimum fax, traduzione di Chiara Veltri), segue l’intero corso della vita del cantautore canadese, scandita attraverso canzoni, album, spostamenti geografici e spirituali – tour e preghiere, l’infanzia e l’età matura, primi tentativi poetici e acclamate strofe, ritiri buddisti e grandi passioni.
Lebold scrive anzitutto da estimatore dell’opera di Cohen, nel libro tenta però di andare oltre il Rubicone dell’io e della propria ammirazione, per arrivare al cuore del cantautore – la fiamma che lo portava a scrivere e riscrivere sulla pagina bianca cercando parole da far cantare, come uno scultore cerca nel marmo la forma dei propri sogni.
Troubadour
Leonard Cohen nasce poeta a Montreal, si lascia poi accompagnare dalla chitarra, lo strumento con cui si asseconda a cantare i suoi componimenti di parole. Si presenta al pubblico di ascoltatori con una celestiale Suzanne, e un disco di esordio – Song of Leonard Cohen – dove non si riesce a saltare una canzone, tanto sono tutte belle. A pochi altri come a Cohen si addice la parola troubadour, l’antica figura del poeta provenzale che componeva canzoni in lingua occitana.
Per Lebold il troubadour coheniano è un poeta esistenzialista che appare sulla scena come «l’anello mancante tra Lord Byron e Bob Dylan», un cantautore che porta qualcosa di innovativo nella musica folk dei Sessanta. Una scintilla. Una mistica. Un alone di oscurità al sapore di dolce miele.
Cohen sa essere spirituale e carnale insieme: possiamo sentire questa doppia natura in Hallelujah – una canzone che su disco (Various Position, 1984) era passata inosservata, e negli anni riscuoterà il successo di mille cover – una canzone dove il canto di Cohen sta a metà tra il sensuale e il divino: ci sono gli angeli, e c’è una donna che strappa un Hallelujah dalle labbra.
Angelo decaduto
Gli angeli – evocati nel titolo della biografia di Lebold – in Cohen somigliano a creature urbane, figure di Tintoretto in movimento, presagi di forme animate della natura. «Leonard ha conosciuto degli angeli, ha vissuto con loro e loro gli hanno parlato», annota a un certo punto del racconto Lebold.
Qualche giorno fa, nel suo discorso di accettazione del Nobel per la letteratura, lo scrittore László Krasznahorkai ha parlato di come oggi gli angeli camminino in mezzo a noi nascosti in abiti civili, e forse Leonard Cohen sarebbe stato d’accordo, li vedrebbe incarnati nei volti delle donne che ha amato, dei poeti che ha cantato, sarebbero loro i sussurratori occulti delle canzoni e dei versi che sono arrivati fino a noi. Perché da dove vengano le canzoni di Leonard Cohen resta un mistero. È la prima e l’ultima domanda che deve porsi un biografo, disperando però di trovare una risposta.
Così Lebold rincorre Cohen strattonandolo per il cappotto, tra le camere del Chelsea Hotel di New York, nei club notturni di Montreal, scrittore di romanzi postmoderni, ebreo errante sotto il sole di Grecia: l’inseguitore cerca il poeta, ma in nessun modo può rivelarci da dove vengano le sue canzoni. Quello che può fare è invitarci ad ascoltarle ancora.
Le canzoni scure e sussurrate di Songs from a Room, i valzer rubati a poesie di García Lorca (Take This Waltz), vecchie ballate popolari canadesi, e tutta la torre di canzoni e tormenti spirituali del cantautore. La scrittura di Cohen è lenta, non disdegna di cercare assonanze, giocare con una rima. Se Bob Dylan è il furetto che scrive velocemente, Leonard Cohen si prende il suo tempo, fa bruciare la carta. La sua voce è ombrosa, erosa dal tempo, scura e morbida come una coperta, pastosa d’alcol e amarezze. Give me a Leonard Coehn afterworld, cantava Kurt Cobain in Pennyroal Tea – perché nell’oltremondo di Cohen si sta bene: una volta entrati non si vuole uscire più.
Nemmeno Christophe Lebold vorrebbe più uscirne: avanza per oltre cinquecento pagine nella sua ricerca, a volte è ripetitivo ma sempre ammirato, mai stanco del suo inseguimento.
All’interno della biografia troviamo pure alcuni scatti di Cohen. C’è una fotografia di Hans Arne Nakrem dal Kalvøya festival in Norvegia nel 1985: Leonard Cohen regge una chitarra acustica nera, ha l’aspetto di un angelo decaduto sulla terra che fissa il vuoto di un pubblico ignoto di ascoltatori: forse sta intonando una delle sue canzoni, Bird on the Wire o un lungo canto di addio per Marianne – So Long – ripensando al miraggio di un altro tempo della sua vita, quando era un giovane raccattatore di parole da battere su una macchina da scrivere sull’isola greca di Hydra.
https://machiave.blogspot.com/2014/09/leonard-cohen-suzanne.html
https://machiave.blogspot.com/2015/10/leonard-cohen-la-lontananza-la-parola-e.html



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