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| Rashid Khalidi |
Per la pace, guardarsi con gli occhi dell'altro
il manifesto, 12 dicembre 2025
Smarcarsi dal «gioco a somma zero» degli opposti – pur se asimmetrici – identitarismi. In questa prospettiva si collocano tanto il volume di Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese (Laterza, pp. 280, euro 19), quanto Fondato sulla sabbia. Un viaggio nel futuro di Israele (Garzanti, pp. 176, euro 18) di Anna Momigliano. «Israele non è il Sudafrica, né l’Algeria o il Vietnam»: Momigliano conclude il primo capitolo del suo lavoro con le parole di Edward Said. Insieme al racconto della necessità della coesistenza, il cuore del libro è questo.
Gli ebrei che vivono in Israele per il 45 per cento sono di origine mediorientale, a causa dell’espulsione e della fuga da Marocco, Yemen, Egitto, Libia, Iraq, Turchia e Tunisia tra gli anni ’50 e ’60 di almeno 650mila persone. Said sosteneva che gli ebrei non siano coloni qualsiasi, dal momento che hanno patito la Shoah e subito l’antisemitismo. Una simile consapevolezza attraversa anche Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza di Rashid Khalidi (Laterza, pp. 416, euro 24). Khalidi, infatti, ricorda che la violenza non è uno strumento efficace contro una comunità storicamente perseguitata. Momigliano racconta bene la spirale di disumanizzazione del nemico in cui gli ebrei israeliani sono sprofondati negli ultimi trent’anni, con la sinistra che ha accantonato il progetto di una pace con i palestinesi.
Spiega inoltre che gli ebrei israeliani non hanno un’altra casa dove andare (in tal senso non assomigliano ai pieds noirs in Algeria): solo il 19 per cento sono nati altrove – numeri simili si osservano in Svizzera, mentre in Australia sono il 29 per cento e in Lussemburgo quasi il 50 per cento. Momigliano, provocatoriamente, nota che non è comune mettere in dubbio l’identità di cittadini di altre nazioni fondate sul «colonialismo di insediamento» – ossia in cui dei coloni si siano sostituiti, uccidendo, espellendo o integrando in modo subalterno la popolazione nativa -, come il Canada o gli Stati Uniti.
INSOMMA, contro ideali di purezza etnica da restaurare, Momigliano racconta il punto di vista di alcuni palestinesi israeliani come Rula Daoud, copresidente di Standing Together – organizzazione di ebrei israeliani e palestinesi, che si batte contro apartheid e pulizia etnica -, o del coraggioso deputato comunista Ayman Oded. O, ancora, di due podcaster, Amira Ahmad e Ibrahim Abu Ahmad, che affermano di essere i soli ad avere «la capacità di vedere le cose da due prospettive diverse», quella israeliana e quella palestinese. A fine Ottocento, il sociologo W.E.B. Du Bois, in relazione all’esperienza afro-americana, chiamava questa ricchezza «doppia coscienza» – «il guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri».
È SULLA BASE di una simile sensibilità che sono sorte riflessioni come quelle di Bashir Bashir e Amos Goldberg (Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma, Zikkaron, pp. 464, euro 24), nonché sullo stato binazionale su cui ragionano tanto palestinesi quanto alcuni ebrei israeliani. Ancora Said, citato da Momigliano: «Se però non facciamo il collegamento che la tragedia degli ebrei ha portato alla catastrofe palestinese per – diciamo – ‘necessità’ (piuttosto che per semplice volontà), sarà impossibile che riusciamo a coesistere come comunità differenti».
Oggi, il fatto che la maggioranza degli ebrei israeliani non riconosca che nemmeno i palestinesi hanno un altro luogo dove andare rispetto a quello distrutto dalle loro bombe e frammentato con muri e checkpoint rende queste prospettive estremamente difficili. Claudio Vercelli, nella sua ricostruzione storica, mette in guardia contro il rischio che l’eccesso identitario degeneri in «pulizia etnica» – ombra permanente di ogni nazionalismo e realtà a Gaza -, ossia la messa in discussione dell’esistenza di una delle due comunità, ebrei e palestinesi. Lo storico, oltre alla strategia omicida di Netanyahu, denuncia l’ontologizzazione negativa di Israele, schiacciata sulla sua classe dirigente razzista – che pure è arrivata dove è per via elettorale.
Ad ogni modo, troppo spesso Israele viene estratta dal secolo terribile della violenza nazionalista e astratta ad unicum, incarnazione singolare ed unica di un «surplus di ferocia» che viene raccontato anche attraverso il ricorso a elementi dell’archivio antiebraico. Dopo due anni di genocidio, la violenza israeliana è sufficientemente terribile di per sé, senza che sia necessario ricorrere a iperboli o fabbricazioni complottiste. Vercelli quindi afferma che Israele raccoglie in sé, «nel suo particolarismo, aspetti ben più generali di tutta la vicenda politica novecentesca», come l’intersezione tra decolonizzazione e colonialismo di insediamento – il sionismo è stato tanto un movimento di liberazione nazionale contro gli inglesi, quanto una forza coloniale contro i palestinesi.
LO STORICO, INOLTRE, insiste nel denunciare la pigrizia di alcune categorie interpretative: «l’impossibilità di una negoziazione» tra le due comunità deriva non tanto «dalle differenze di ‘gruppo etnico’, così come dalle culture politiche di riferimento», bensì dagli interessi dei gruppi di potere nella guerra. Ciò che conta non sono le identità nazionali – questa la lezione del volume -, ma le faglie interne che attraversano i due campi, i rapporti di potere, così come le questioni di classe – su cui Vercelli si concentra costantemente -, troppo spesso ignorate in una deriva ultraidentitaria da parte di chi si occupa dell’oppressione dei palestinesi: delle posizioni giustificazioniste di Israele è più facile vedere l’errore e l’orrore.
Vercelli conclude il suo testo affermando che l’«impotenza della comunità internazionale» vada legata al panorama di «destabilizzazioni, unilateralismi, crisi delle istanze e dei soggetti della mediazione, furori bellici, rimandi a identità etnico-razziali». Ciò che è importante evitare è pertanto la nostalgia: Yitzhak Rabin, di cui è recentemente ricorso il trentennale dell’omicidio, è stato sì l’uomo degli accordi di Oslo – ricostruiti criticamente da Momigliano – ma non c’è nulla da rimpiangere del laburismo sionista a cui si ispirava, essendo intrappolato in un progetto volto al mantenimento della maggioranza ebraica che ha portato all’attuale bantustanizzazione della Palestina.
IN RELAZIONE A CIÒ, una stimolante provocazione – non sempre condivisibile – è quella presente in un libro non ancora tradotto in italiano: The No State Solution. A Jewish Manifesto (Yale University Press 2023) di Daniel Boyarin, docente di Berkeley. Per Boyarin, che dialoga creativamente con il pensiero postcoloniale, gli ebrei sono un popolo – contro la nota tesi di Shlomo Sand – e non una religione. Ma questo non vuol dire che debbano avere uno stato proprio. Al contrario, ciò che conta per loro è il Talmud, una «patria portatile» (Heinrich Heine). Nell’ambiente ebraico anglofono stanno uscendo sempre più testi legati ad una prospettiva diasporica, tesi a sganciare l’identità ebraica dalla necessità di uno stato: come quello di Peter Beinart, Essere ebrei dopo la distruzione di Gaza (Baldini Castoldi, pp. 192, euro 20). L’applicazione concreta consiste nel rilancio della prospettiva binazionale, cara a molti intellettuali palestinesi come i già citati Said e Bashir o Raef Zreik. Obiettivo assai lontano, ma tanto più necessario contro piani di pace neocoloniali, come denunciato da un altro sostenitore dell’ipotesi binazionale, Moustafa Barghouti.
Tutti i libri citati in questa pagina
Claudio Vercelli, «Storia del conflitto israelo-palestinese», Laterza
Anna Momigliano, «Fondato sulla sabbia.
Un viaggio nel futuro di Israele», Garzanti
Rashid Khalidi, «Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza», Laterza
Bashir Bashir, Amos Goldberg, «Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma», Zikkaron
Peter Beinart, «Essere ebrei dopo la distruzione di Gaza», Baldini Castoldi
Daniel Boyarin, «The No State Solution. A Jewish Manifesto», Yale University Press

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