Simonetta Sciandivasci
Il buon esempio non riempie le culle
La Stampa, 17 dicembre 2025
Che bel mondo sarebbe senza adulti: mi scopro a pensarlo con una frequenza che mi scandalizza e, insieme, mi elettrizza. La configurazione demografica ha fatto di noi una specie egemone, prevaricante come tutte le specie egemoni, e piuttosto monologante. Lo psicanalista Matteo Lancini ha detto a questo giornale che i genitori contemporanei ascoltano i figli più di qualsiasi altra generazione ma che il loro è un «ascolto selettivo: rabbia, tristezza e paura non fanno parte di questo patto. Ai nostri ragazzi abbiamo chiesto di proteggerci dalle emozioni che ci disturbano». Parliamo e straparliamo di ragazzi che, quindi, conosciamo a metà. Parliamo e straparliamo di come dovrebbero essere, e del loro bene, del loro meglio, e siamo certi di poterglielo insegnare, di poterli e doverli indirizzare, e ce ne crediamo capaci e all’altezza proprio perché li ascoltiamo di più. Dall’altra parte, genitori o no, siamo adulti dilaniati dalla consapevolezza della nostra inadeguatezza, che però non ci sposta dal prendere in considerazione la possibilità di sottrarci dall’universo di riferimento dei ragazzi, di dimettere i panni degli educatori e indossare quelli degli educati. Continuiamo a credere di dover dare il buon esempio, anche se dubitiamo di poterlo incarnare. Non mettiamo mai in discussione il fatto che possa essere sbagliata l’idea stessa di dare un esempio, di segnare il varco, il solco, il perimetro entro cui la generazione che ci segue debba e possa muoversi, specialmente quando quella generazione dà segnali di insofferenza verso di noi (come accade sotto i nostri occhi da diversi anni): un’insofferenza che non vogliamo vedere e meno che mai interrogare.
Nathania Zevi ha scritto su questo giornale che tra le ragioni per le quali si fanno sempre meno figli c’è anche l’esempio che, in questi anni, della maternità hanno dato le donne: un’impresa eroica, spossante, titanica, che toglie più di quanto restituisce. Ha parlato di un esempio che «abbiamo dato o che non siamo riuscite a dare». Non posso darle torto su un punto: la maternità è stata indagata, negli ultimi anni, nei suoi aspetti più complessi e dolorosi (prima, però, e cioè negli ultimi secoli, la maternità non veniva nemmeno indagata ma imposta come un compito: siamo appena all’inizio di un tentativo di riequilibrare le narrazioni). Lucy Jones in Matrescenza ha raccontato tutto quello che, di magnifico e di orrendo, di biologico e psicologico, della maternità e del parto le donne sono all’oscuro non solo perché non viene raccontato ma pure perché non viene studiato: non è esistita, finora, domanda. Perché non sono esistiti, finora, dubbi profondi come quelli che ora ci sono su cosa significhi e comporti diventare madre, su quanto sia naturale e su come, quanto, e per quanto cambi il corpo e la mente e la psiche delle donne. Non possiamo pensare di estromettere tutto questo credendo che sia inibente: per incredibile che possa sembrare, la cultura della maternità è ancora acerba, perché di recente è stato acquisito che essa non è un destino. Questa acquisizione rallenta (non ferma: rallenta) la demografia: complica e affolla il piano della scelta e lo fa collimare con quello della rinuncia. Vero. Affrontiamolo.
Un figlio è un peso e richiede rinunce: dobbiamo poterlo dire così come abbiamo detto sempre che un figlio è una rivoluzione e porta felicità. La regolazione della frequenza, dell’equilibrio, del tono con cui diciamo tutto questo non può essere improntata al desiderio di dare un esempio: non tocca a nessuno incentivare o disincentivare la maternità. A un Paese civile tocca mettere tutti in condizione di fare o non fare figli, nonostante le conseguenze che farne o non farne ha. La paura di diventare madri va ascoltata, compresa, rispettata: è un valore e, come tutte le paure, è un’allerta che, nella giusta dose, può salvarci la vita. Anziché credere che le donne non fanno figli perché hanno paura di fare le madri, perché non proviamo a immaginare che le donne che non fanno figli abbiano ragioni diverse dal terrore di perdere la propria autonomia, che siano individui nuovi, che rigettano la pienezza e sposano la vuotezza, che sono immuni agli esempi e disinteressate ai consigli perché vogliono scrivere una Storia nuova, inedita. Lasciamole fare, liberiamole dai nostri errori, dal nostro peso, dal nostro senso di colpa, dalle nostre letture. Fidiamoci di loro. Senza la nostra impronta è possibile che facciano meglio. Il Premio Strega Ragazzi è andato qualche settimana fa a un romanzo di una grande scrittrice americana, Jacqueline Woodson: si chiama Proteggimi e parla di un’insegnante che ogni venerdì lascia soli i suoi studenti Bes (bisogni educativi speciali), perché capisce che tra loro possono aiutarsi più di quanto farebbe lei.
In un documentario importante sulla maternità, Tua madre, di Leonardo Malaguti, una suora dice a un certo punto che l’apocalisse arriverà quando sarà realizzata la parità tra uomini e donne, tra padri e madri. Ecco un’altra cosa buona cosa da fare, per far nascere un mondo nuovo: convocare i padri.

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